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La rivoluzione culturale dei social è l’unica eredità buona del trumpismo

Claudio Cerasa

Troppe notizie diffamatorie o false sulla pandemia e sul voto americano: Facebook e Twitter hanno archiviato la stagione della neutralità. Il passo che manca e una strategia buona anche per i vecchi media

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Abbiamo passato buona parte del fine settimana a segnalare con dovizia di particolari le molte oscenità che Donald Trump ha lasciato in eredità al suo splendido successore Joe Biden. Ma arrivati a questo punto della storia occorre riconoscere che il trumpismo almeno un merito lo ha avuto ed è quello di aver contribuito a promuovere una svolta culturale positiva in una fetta strategica del mondo nuovo che continuerà ad avere una grande influenza anche senza Trump alla Casa Bianca: i social network. Quattro anni fa, nel corso delle elezioni che permisero a Trump di arrivare alla guida degli Stati Uniti, i social network accettarono senza colpo ferire di presentarsi al grande pubblico come delle piattaforme neutrali più simili al modello del megafono che al modello del corpo intermedio. Pubblico quello che scrivi, a prescindere da quello che tu scrivi, e accetto le pubblicità che mi offri a prescindere dalla pubblicità che mi proponi.

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Abbiamo passato buona parte del fine settimana a segnalare con dovizia di particolari le molte oscenità che Donald Trump ha lasciato in eredità al suo splendido successore Joe Biden. Ma arrivati a questo punto della storia occorre riconoscere che il trumpismo almeno un merito lo ha avuto ed è quello di aver contribuito a promuovere una svolta culturale positiva in una fetta strategica del mondo nuovo che continuerà ad avere una grande influenza anche senza Trump alla Casa Bianca: i social network. Quattro anni fa, nel corso delle elezioni che permisero a Trump di arrivare alla guida degli Stati Uniti, i social network accettarono senza colpo ferire di presentarsi al grande pubblico come delle piattaforme neutrali più simili al modello del megafono che al modello del corpo intermedio. Pubblico quello che scrivi, a prescindere da quello che tu scrivi, e accetto le pubblicità che mi offri a prescindere dalla pubblicità che mi proponi.

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Per molti anni, i social network hanno contribuito a ingigantire – non a creare: a ingigantire – le molte verità alternative veicolate dai professionisti della disinformazione e per molti anni i capi di Facebook e di Twitter hanno scelto di difendersi dall’accusa di essere dei veicoli di disinformazione portando avanti una tesi così sintetizzabile: noi non siamo editori, noi non prendiamo posizione. Noi siamo piattaforme neutrali, e se dovessimo cominciare a censurare ciò che può apparire come un contenuto falso saremmo costretti a smentire la nostra natura e ad assumere un comportamento più simile a quello dell’editore che del megafono.

 

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Quattro anni dopo, come ha potuto sperimentare chiunque abbia provato a seguire le ultime settimane di politica americana attraverso gli account personali di Donald Trump, la situazione, complice anche la stagione della pandemia durante la quale i social network hanno dato il meglio di sé contribuendo a eliminare dalle proprie piattaforme ogni tipo di informazione fuorviante e complottista sul Covid-19, è completamente cambiata. E la grande rivoluzione culturale che ha visto per protagonisti i social network è una rivoluzione che dovrebbe essere osservata non solo dai nuovi media ma anche da quelli tradizionali. E quello che è successo lo avete visto tutti.

 

Facebook, prima delle elezioni, ha creato una vera e propria war room per tenere sotto controllo la disinformazione, ha sviluppato gradualmente sulla propria piattaforma una sezione, curata da quaranta diversi team, interamente dedicata alle informazioni sulle votazioni in corso, ha bloccato migliaia di annunci che riportavano notizie diffamatorie o false, bandendo gruppi estremisti, ha introdotto una sorta di silenzio elettorale, tra le sue pagine pubblicitarie, impedendo agli annunci politici dell’ultimo minuto di comparire sulla piattaforma e ha infine creato un meccanismo tale da impedire dopo l’election day ogni tentativo di prematura esultanza da parte dei candidati presidenti (tra giovedì e venerdì notte Facebook ha cancellato dalle sue pagine un gruppo denominato “Fermiamo il furto”, 350 mila utenti nel giro di poche ore, nato per supportare Trump nelle sue non dimostrate accuse di frode rivolte ai democratici).

 

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La stessa scelta di archiviare la stagione della neutralità l’ha fatta Twitter, con Jack Dorsey che, se possibile, ha scelto un approccio persino più brutale rispetto a Facebook, portando avanti una strategia basata anche qui su due punti: eliminare la pubblicità politica per evitare messaggi inappropriati (Twitter lo ha fatto dal 22 novembre del 2019) ed etichettare con l’espressione che avrete visto tante volte nelle ultime ore (“some or all of the content shared in this Tweet is disputed and might be misleading about an election or other civic process”) ogni tweet considerato in violazione delle regole scelte dalla piattaforma in materia di razzismo, violenza e disinformazione (per limitare maggiormente la disinformazione politica Twitter ha anche scelto di modificare la meccanica dei retweet aggiungendo un passaggio extra con l’intento di portare l’utente a riflettere prima di fare retweet e indurlo semmai alla condivisione aggiungendo un proprio pensiero, un quote, prima di rilanciare un tweet). Twitter, dopo aver ripetutamente segnalato come mistificatori i tweet di Trump relativi ai presunti brogli alle elezioni americane, al punto da essere accusato pubblicamente venerdì scorso da Trump di essere fuori controllo (“Twitter is out of control, made possible through the government gift of Section 230!”), ha poi fatto di più e ha deciso di sospendere l’account dell’ex stratega di Donald Trump, Steve Bannon, a causa di alcuni tweet che violavano, ha spiegato Dorsey, “la nostra politica sulla glorificazione della violenza”.

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E lo ha fatto nelle stesse ore in cui YouTube, di proprietà di Google, cancellava il video in cui Bannon chiedeva la decapitazione del virologo Anthony Fauci, volto simbolo della lotta contro il coronavirus negli Stati Uniti. E lo stesso potrebbe capitare da gennaio a Trump quando, una volta completato il suo quadriennio alla Casa Bianca, potrebbe trovarsi in una condizione nuova anche nel suo rapporto con i social se è vero quanto scritto alla fine della scorsa settimana dal New York Post che, citando fonti di Twitter, ha evidenziato la possibilità che Trump, una volta fuori dalla Casa Bianca, possa perdere un privilegio di cui ha goduto sinora su Twitter: pubblicare informazioni giudicate “offensive” o “fuorvianti” dal social media, senza che quest’ultimo le possa rimuovere per sempre dalla sua piattaforma.

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La trasformazione dei social network in piattaforme responsabili dei contenuti veicolati è un passo in avanti strategico che dovrebbe offrire qualche spunto di riflessione anche ai vecchi media rispetto all’idea che si possa restare neutrali di fronte alle oscenità della politica della disinformazione. Restare neutrali quando in ballo c’è la sicurezza nazionale, la gestione di una pandemia, il tentativo di alimentare la violenza non significa rivendicare un proprio ruolo terzo ma significa già aver scelto da che parte stare, dalla parte dell’indifferenza, e sarebbe prezioso, saggio e importante se l’impostazione coraggiosa scelta da Twitter e Facebook per condannare la violenza verbale della campagna elettorale americana venisse applicata anche in altri contesti non meno importanti. E non ci vuole molto a capire che se i tweet di Trump vengono considerati inappropriati lo stesso dovrebbe accadere con tweet meno semplici da censurare come quelli di Khamenei, a meno che invitare alla distruzione di Israele non venga considerato da Twitter più appropriato che fermare il riconteggio dei voti in Georgia.

 

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