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Il modello che viene dall’altro mondo

Regole e mascherine. La pazienza ha fermato il virus 

Giulia Pompili

La Cina, dove tutto è iniziato, è il paese che per primo ha contenuto l’epidemia. Ma anche la democrazia può essere efficace. Storie da Australia, Taiwan, Giappone e Corea, tra chi ha fermato la seconda ondata adattandosi 

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A Melbourne, la capitale dello stato di Victoria, in Australia, perfino i complottisti sono stati pazienti. Hanno aspettato la fine del più lungo lockdown di questa pandemia, iniziato il 7 luglio scorso, e che le autorità concedessero la possibilità di protestare. Sono scesi in piazza martedì, sono arrivati davanti al Parlamento con i soliti cartelli – “Diteci la verità”, “Corona bufala” – e sono stati arrestati in 404. Perché le regole di riapertura della città prevedono manifestazioni di non più di dieci persone, con mascherina obbligatoria, e a non più di 25 chilometri dalla propria residenza. E loro ne hanno infrante tante di regole, in quell’occasione, ma per farlo hanno aspettato come una specie di semaforo verde che la situazione fosse sotto controllo. Sotto controllo: non risolta. Alla fine di ottobre il giornalista scientifico Liam Mannix ha scritto su The Age un articolo molto doloroso. Mentre tutti i giornali internazionali festeggiavano la riapertura di Melbourne, spiegava che quello non era un ritorno alla normalità; il rumore dei bicchieri di vino, dei tram che ricominciano a passare, il vociare per le strade: “Dietro ai sorrisi, molti nascondono cicatrici”. C’è il lutto e c’è la fatica: “La città è aperta, ma non ancora del tutto”. Perché molti negozi, ristoranti e imprese fanno fatica a riaprire, perché molte persone sono riemerse dalla quarantena senza lavoro, ma anche perché “tanti diffidano dei luoghi affollati, e saltano al primo colpo di tosse”. La città è diversa, scrive Mannix, perché il terrore del virus e il lockdown l’hanno cambiata. La peggiore delle ipotesi per la capitale dello stato del Victoria, la seconda città più popolosa d’Australia dopo Sydney, è una seconda ondata. Gli epidemiologi del governo locale hanno disegnato un programma di riapertura graduale in modo da scongiurare l’ipotesi di una seconda chiusura, che sarebbe devastante su tutti i fronti.

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A Melbourne, la capitale dello stato di Victoria, in Australia, perfino i complottisti sono stati pazienti. Hanno aspettato la fine del più lungo lockdown di questa pandemia, iniziato il 7 luglio scorso, e che le autorità concedessero la possibilità di protestare. Sono scesi in piazza martedì, sono arrivati davanti al Parlamento con i soliti cartelli – “Diteci la verità”, “Corona bufala” – e sono stati arrestati in 404. Perché le regole di riapertura della città prevedono manifestazioni di non più di dieci persone, con mascherina obbligatoria, e a non più di 25 chilometri dalla propria residenza. E loro ne hanno infrante tante di regole, in quell’occasione, ma per farlo hanno aspettato come una specie di semaforo verde che la situazione fosse sotto controllo. Sotto controllo: non risolta. Alla fine di ottobre il giornalista scientifico Liam Mannix ha scritto su The Age un articolo molto doloroso. Mentre tutti i giornali internazionali festeggiavano la riapertura di Melbourne, spiegava che quello non era un ritorno alla normalità; il rumore dei bicchieri di vino, dei tram che ricominciano a passare, il vociare per le strade: “Dietro ai sorrisi, molti nascondono cicatrici”. C’è il lutto e c’è la fatica: “La città è aperta, ma non ancora del tutto”. Perché molti negozi, ristoranti e imprese fanno fatica a riaprire, perché molte persone sono riemerse dalla quarantena senza lavoro, ma anche perché “tanti diffidano dei luoghi affollati, e saltano al primo colpo di tosse”. La città è diversa, scrive Mannix, perché il terrore del virus e il lockdown l’hanno cambiata. La peggiore delle ipotesi per la capitale dello stato del Victoria, la seconda città più popolosa d’Australia dopo Sydney, è una seconda ondata. Gli epidemiologi del governo locale hanno disegnato un programma di riapertura graduale in modo da scongiurare l’ipotesi di una seconda chiusura, che sarebbe devastante su tutti i fronti.

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Il premier Daniel Andrews ha spiegato ai cittadini le regole il 19 ottobre scorso: le scuole possono riaprire, i bar e i parrucchieri, ma non si può andare a casa di nessuno, e non ci si può muovere oltre i 25 chilometri dalla propria abitazione. Il sistema è quello di dividere la città – e poi l’intero stato – per piccole zone. Quando un paio di settimane fa le scuole sono state riaperte per i test, subito prima dell’inizio delle lezioni in presenza per mezzo milione di studenti, un ragazzino di dodici anni è stato trovato positivo e la scuola ha chiuso di nuovo per la disinfezione. E’ poi iniziato il tracciamento, e i membri locali della comunità hanno usato anche il porta a porta per spiegare che le persone che erano state potenzialmente a contatto con il focolaio dovevano rimanere in casa e farsi testare. Secondo il ministro dell’Istruzione, James Merlino, fino a quando non si arriverà al vaccino i focolai scolastici, o in altri ambienti, continueranno, ma saranno così piccoli e presi in tempo che sarà facile tenerli sotto controllo. Lo stato di Victoria, che a luglio aveva settecento casi di Covid al giorno, ora continua a contare i giorni senza nuove infezioni, ed è stata annunciata anche la riapertura dei confini con il New South Wales: “Ma per il Natale, vi prego, state a casa”, ha detto il premier ai cittadini.

 

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Una settimana fa quasi centomila persone sono scese per le strade assolate di Taipei per festeggiare il Pride. Un doppio orgoglio, per l’isola di Taiwan che la Cina rivendica ma che è fieramente una democrazia indipendente: da un lato Taiwan è il primo paese ad avere legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso in Asia orientale; dall’altra, con i suoi quasi ventitré milioni di abitanti, da più di duecento giorni non ha un solo caso di trasmissione del virus dentro ai propri confini nazionali. E infatti alla festa che si è celebrata sabato scorso molte persone erano senza mascherina – altre sì, com’è uso in Asia –  e mentre quasi tutto il mondo ha trasferito il Pride in eventi online, a Taipei l’aria era quella della liberazione. Bisogna fidarsi molto delle istituzioni per scendere in piazza e assembrarsi mentre il resto del mondo ancora combatte contro le seconde ondate, e gli ospedali in occidente sono di nuovo al collasso. Ma il governo di Taipei è riuscito a mantenere sotto i cinquecento casi il Covid-19, con sette decessi in tutto, senza mai fare un lockdown. Audrey Tang, l’ormai celebre ministro per il Digitale di Taiwan, continua a ripetere che la tecnologia più potente contro le epidemie è mascherina e sapone. L’altra tecnologia, i big data e i tracciamenti, sono solo di supporto. Taiwan, grazie all’esperienza della Sars – e la diffidenza nei confronti della Cina continentale – ha chiuso immediatamente i suoi confini, già a gennaio, e ora obbliga chiunque arrivi dall’estero a due settimane di quarantena (il governo, per incentivare le visite soprattutto di business, offre addirittura un supporto economico per i quindici giorni di “limitazione della libertà”). Chen Chien-jen, ex vicepresidente del governo di Taipei ed epidemiologo, ha detto a Fortune che la quarantena e i controlli, anche attraverso il contact tracing, sono stati fondamentali. Negli ultimi mesi in totale a Taiwan sono state messe in quarantena 340 mila persone, anche con tampone negativo, in caso di contatto con positivo: “Abbiamo sacrificato quattordici giorni di 340 mila persone in cambio della vita normale di 23 milioni di persone”, ha detto Chen. Trecentoquaranta persone che hanno avuto pazienza e si sono fidate (solo mille persone sono state sanzionate per aver violato la quarantena) in modo da rendere l’isola più sicura. E nel giro di pochi mesi permettere alle persone di festeggiare di nuovo per la strada.

 

Ma appunto, Taiwan è un’isola, e i confini sono facili da mettere sotto controllo. La Nuova Zelanda, un altro caso che è stato studiato dalle migliori riviste scientifiche come “modello”, ha un vantaggio in più rispetto a Taiwan: è la densità abitativa bassissima, una specie di distanziamento sociale integrato. E “soltanto” cinque milioni di persone da tenere sotto controllo. Taiwan e Nuova Zelanda sono due casi studiati insieme da molti scienziati, perché hanno avuto due approcci opposti – sempre nell’ambito dei sistemi democratici – ma con risultati simili. All’inizio dell’epidemia la prima ministra Jacinda Ardern era sembrata esagerata: aveva annunciato un lockdown nazionale rigidissimo non per invertire la curva dei contagi, ma per “eliminare” completamente il virus dal paese. Sette mesi dopo c’è riuscita, e il risultato è stato che l’unica curva a salire vertiginosamente è stata quella della sua popolarità. La popolazione neozelandese è stata, insieme a quella di Melbourne, forse la più paziente di tutti: l’emergenza è durata da marzo a settembre, con un periodo di lockdown di cinque settimane iniziato il 26 marzo. La quarantena collettiva ha risolto le cose, e anche la riapertura graduale, il ritorno all’emergenza di livello tre in agosto e poi, di nuovo, alla normalità.  Susanna Every-Palmer, docente di Psicologia dell’Università di Otago, sta studiando le conseguenze sulla popolazione e la sanità mentale – uno studio di duemila persone ha trovato almeno un terzo del campione, per lo più giovani, a fare i conti con ansia e depressione. Lo stress psicologico per il lockdown esiste, è una cosa con cui il governo di Wellington sta facendo i conti, ma le notizie positive ci sono. Nonostante il tasso di disoccupazione sia salito al 5,3 per cento nel trimestre di settembre 2020, con un aumento dell’1,3 per cento, il più alto mai registrato, qualche giorno fa Radio New Zealand scriveva che le offerte di lavoro stanno ricominciando a essere pubblicate, soprattutto per la fascia considerata più a rischio, quella tra i 19 e i 24 anni. La chief executive di Student Job Search, Suzanne Boyd, ha detto che ad aprile le offerte di lavoro sul loro portale erano 200, a ottobre duemilacinquecento. “Gli annunci di lavoro stanno tornando”, anche se il mercato si sta muovendo sempre di più verso un modello flessibile, con contratti a tempo, oppure smart. La premier Arden ha annunciato la settimana scorsa un programma – promesso durante la campagna elettorale dei laburisti – per reinserire nel mondo del lavoro almeno quarantamila persone che hanno subito le conseguenze del lockdown. Ci sarà un fondo destinato alle aziende e prestiti facilitati per chi decide di aprire piccoli business. Ma quello su cui contano di più sia Taiwan sia la Nuova Zelanda è mostrarsi attrattivi per gli investimenti stranieri, in quanto paesi “covid-free”. 

  

Una delle categorie di professionisti più pazienti al mondo sono i tassisti di Tokyo. Che fino a pochi giorni fa non potevano decidere di non far salire un passeggero se rifiutava di indossare la mascherina. A Tokyo i taxi già da tempo, al di là del Covid, sono equipaggiati con separatore in plexiglass tra passeggero e autista (per la privacy) e le portiere sono quasi tutte automatiche, quindi si può non toccare lo sportello salendo e scendendo dall’auto. I tassisti indossano quasi tutti i guanti – per l’eleganza nel servizio, il virus, di nuovo, non c’entra nulla. Il problema è l’abitudine, nella capitale giapponese, di ubriacarsi fino a tarda notte, e poi essere costretti a farsi accompagnare in taxi quando le metropolitane e i treni non passano più. I sindacati di tassisti hanno dovuto rivolgersi al ministero dei Trasporti giapponese per chiedere di inserire tra i giusti motivi per rifiutare un cliente il fatto che non voglia indossare la mascherina – la maggior parte sono clienti ubriachi, spiegavano dai sindacati, che non riescono nemmeno a mettersela, la mascherina.  La situazione Covid nella capitale giapponese non è facilissima: ci sono ancora circa duecento nuove infezioni al giorno, ma la governatrice Yuriko Koike dice che la situazione è sotto controllo, anche perché la città è pronta, entro dicembre, a effettuare 65 mila tamponi al giorno. Assumerà un centinaio di infermieri per il contact tracing e da una settimana il servizio telefonico coronavirus è attivo tutti i giorni, ventiquattro ore su ventiquattro. Le scuole in Giappone hanno chiuso da marzo a luglio, con ventotto regole che, forse, potrebbero essere applicate solo all’educazione nipponica: si evitano i contatti tra bambini, si mangia al banco seduti, e in silenzio (l’abitudine di stare in silenzio per esempio sui mezzi pubblici, secondo molti esperti in Giappone, avrebbe contribuito a tenere basso il numero di contagi nel paese. Anche negli stadi e nei parchi divertimento, ultimamente, è stato vietato di urlare). A oggi ci sono stati pochissimi focolai nelle scuole giapponesi, e uno dei motivi è che il contact tracing giapponese, come quello di molti altri paesi asiatici, funziona in modo un po’ diverso rispetto al nostro. “Invece di rintracciare semplicemente i contatti di un infetto e isolarli, i sostenitori di questo approccio vogliono scoprire dove quella persona è stata infettata”, scrive Bloomberg, “questo passo ulteriore, noto come backward tracing, mostra il punto debole del virus, cioè la tendenza delle infezioni ad avvenire in focolai, spesso eventi di super diffusione”. 

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La Corea del sud usa sia il contact tracing sia il backward tracing. Anche il “metodo sudcoreano” contro l’epidemia è stato pubblicizzato e promosso da chiunque, esaltato dai media internazionali e dall’Organizzazione mondiale della sanità. Anche perché la Corea del sud non ha mai imposto un lockdown, solo regole molto rigide per far sì che gli esercizi commerciali e i luoghi di lavoro restassero aperti “adeguandosi” alla convivenza con il virus. Soltanto le scuole sono rimaste chiuse. Il paese più competitivo del mondo dal punto di vista scolastico è stato quello che più ha imposto restrizioni sul sistema scolastico.  E’ stato possibile grazie al fatto che il paese possiede già le risorse tecnologiche (la connessione internet tra le più veloci del mondo, il 95 per cento della popolazione possiede un computer) per permettere a tutti la didattica a distanza – le scuole erano quasi tutte comunque aperte per i docenti, che insegnano nelle classi anche quando le classi non ci sono. Gran parte degli sforzi economici del ministero dell’Istruzione sono stati indirizzati nel cercare di sistemare le scuole che non avevano ancora le dotazioni tecnologiche adeguate. Ma gestire l’educazione, in un paese dove i ragazzi studiano fino a notte fonda, ogni giorno, per superare difficilissimi esami, non è stato facile lo stesso. Per settimane la riapertura dell’anno scolastico, a marzo, è stata rimandata. Poi, dopo il rientro contingentato degli studenti, ad agosto il governo centrale di Seul ha chiuso di nuovo il 70 per cento degli istituti sul territorio nazionale, anche se dalle scuole veniva soltanto il 2 per cento dei contagi della seconda ondata di infezioni da Covid. Ma appunto: la seconda ondata è stata contenuta. Dopo che i casi giornalieri sono arrivati a un centinaio al giorno sul territorio nazionale, il governo di Seul ha dato il via a una nuova fase, abbassando il livello di distanziamento sociale al numero più basso, intorno a metà ottobre. E’ stato quindi possibile riallargare le lezioni in presenza, adattandolo alle aree più a rischio. Fino a un mese fa soltanto un terzo degli studenti poteva andare contemporaneamente a scuola, alternandosi con gli altri due terzi. Adesso sempre più ragazzi possono seguire le lezioni in classe, con un’attenzione quasi maniacale ai focolai: “E’ come sostenere un esame ogni giorno”, ha detto all’Ap  Kwon Jun-wook, vicedirettore del Centro per il controllo delle malattie infettive di Seul. “E’ un nuovo percorso, una fase che si basa sulla fiducia reciproca, le prove e gli accordi”. E ci si avvicina al 3 dicembre, il giorno più importante per i ragazzi sudcoreani: è il giorno del Sunegun, il famigerato esame per l’ingresso al college. Cinquecentomila studenti lo sosterranno quest’anno, secondo le regole dettate dal ministero, in classi divise per ventiquattro persone, con banchi divisi dal plexiglass.

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Al di là degli esempi, l’efficacia del “modello asiatico” nella risposta alla pandemia resta un mistero per l’occidente. In questi mesi sono state fatte molte analisi, sono state date varie spiegazioni, ma nessuna, da sola, chiarisce del tutto perché a oriente molti paesi sono riusciti a limitare le infezioni, mentre l’occidente vive una seconda ondata forse peggiore della prima. Come abbiamo raccontato sulle colonne di questo giornale, in Cina il sistema autoritario e il patto sociale tra cittadini e governo – che subordina le libertà individuali al bene pubblico – ha aiutato alla gestione dell’epidemia, ma non è l’unico “modello” efficiente.

 

Un concetto che unisce il sistema autoritario cinese a quello delle altre democrazie dell’Asia orientale, che allo stesso modo sono riuscite a controllare l’epidemia, è il valore della collettività. Se da un lato la politica, in paesi come la Corea del sud e il Giappone, può e sa essere spietata, dall’altro nel momento dell’emergenza i cittadini sanno di doversi attenere a delle regole per il bene pubblico, della società. E’ una lezione che viene dalla tradizione confuciana, come hanno detto in molti, ma anche dall’esperienza di altre epidemie e di molte, devastanti catastrofi naturali. La Corea del sud, per esempio, ha vissuto nel 2015 la crisi di un altro coronavirus importato dal medio oriente, che provoca la Middle East Respiratory Syndrome (Mers). Ci furono soltanto 185 casi e 38 morti, ma quell’esperienza, con una gestione da parte del governo di Seul particolarmente improvvisata, provocò molte critiche e spinse l’esecutivo a dotarsi di un piano anti epidemie molto dettagliato. Dodici anni prima c’era stato il coronavirus da sindrome respiratoria acuta grave (Sars-Cov), un’esperienza determinante per molti di quei paesi che oggi si sono ritrovati, con il Sars-Cov-2, a saper gestire un’epidemia. La Sars era arrivata all’improvviso dopo mesi di tentativi, da parte della Cina, di gestire la situazione in modo autonomo dentro ai propri confini – un errore in seguito ammesso dal Partito, che subito dopo aveva costruito uno dei sistemi centralizzati di controllo delle malattie infettive più all’avanguardia del mondo, che però è risultato poco efficiente durante l’ultima epidemia. Cina, Hong Kong e Taiwan sono i luoghi in cui, nel 2002-2003, la Sars ha colpito di più e dove ha fatto più morti: in Cina più di cinquemila casi e oltre trecento morti, a Hong Kong millesettecento casi e trecento morti, a Taiwan più di seicento casi, tra sospetti e confermati, e oltre settanta morti. Fu uno choc per la popolazione ma anche per i governanti, che si ritrovarono a dover inventare protocolli sempre più efficaci per mettere in sicurezza il sistema sanitario, la mobilità e l’economia. Da allora sono state introdotte esercitazioni annuali per fronteggiare le pandemie, con personale addestrato e linee guida dettagliate. 

 

In Giappone le infezioni di Sars e Mers non arrivarono, ma il paese è abituato ad affrontare catastrofi naturali di ogni tipo: lo chiamano il paese del principio di precauzione, dove la popolazione è “abituata”, in qualche modo, a seguire i protocolli delle autorità per rendere più basso possibile il rischio di mettere in pericolo sé stessi e la comunità. Ci sono regole imposte dall’alto per evitare i danni dovuti ai terremoti, agli tsunami, ai tifoni – negli ultimi anni sempre più violenti. L’epidemia è una catastrofe naturale arrestabile, di cui si possono contenere i danni, è sufficiente prendere delle precauzioni e limitarne la portata. Quella del Covid-19 è stata una catastrofe naturale anomala per il Giappone, e infatti il governo di Tokyo non era preparato, almeno all’inizio, ma ha applicato lo stesso metodo scientifico e rigoroso che si usa per il resto delle sciagure che lo colpiscono periodicamente: ha funzionato. 

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