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Le elezioni degli altri. L’incerta stabilità del Myanmar

Massimo Morello

La Birmania al voto, tra crisi Covid e incertezza socio-economica

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“È tutto un disastro che non cambierà niente” dice al Foglio un imprenditore di Yangon, i cui affari sono stati azzerati dal Covid19. “Più ci avviciniamo alle elezioni e meno si trovano casi” aggiunge, riferendosi alle elezioni che si svolgeranno in Birmania domenica 8 novembre, sospettando la disinfomazione del governo guidato da Aung San Suu Kyi.

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“È tutto un disastro che non cambierà niente” dice al Foglio un imprenditore di Yangon, i cui affari sono stati azzerati dal Covid19. “Più ci avviciniamo alle elezioni e meno si trovano casi” aggiunge, riferendosi alle elezioni che si svolgeranno in Birmania domenica 8 novembre, sospettando la disinfomazione del governo guidato da Aung San Suu Kyi.

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“Se fossi più giovane combatterei al loro fianco” sembra abbia detto in una conversazione informale Tin Mar Aung, che fu l’amica e l’assistente di Suu Kyi, riferendosi alle milizie buddiste dell’Arakan Army.

 

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“Il lockdown di Yangon non è strettissimo ma vista la situazione sanitaria del paese è meglio non scherzare. Noi occidentali viviamo in una situazione di privilegio, mentre la popolazione locale sta soffrendo moltissimo” dice un altro espatriato che risiede in uno dei più eleganti quartieri della ex capitale birmana. Dove ancora una volta si vive una sorta di sindrome dell’assedio.

 

Come accadeva sino a dieci anni fa, bisogna affidarsi alle voci che arrivano da “Inside Burma”, dall’interno della Birmania, come si diceva, per sapere che cosa accade. Come allora il paese è isolato. Il governo del Myanmar (nome ufficiale della Birmania) ha imposto il blocco dei voli e l’emissione di tutti i visti per cittadini stranieri sino alla fine di novembre.

 

Allora, sino al 2010, il paese era un “hermit kingdom”, una nazione, come la Corea del Nord (che ne era uno dei maggiori sostenitori) auto-isolata, metaforicamente e fisicamente, dal resto del mondo per proteggere un ordine di tipo autocratico. Oggi, invece, la Birmania è chiusa per proteggersi da una pandemia che qui potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Le voci che arrivano a noi non sono messaggi trasmessi da dissidenti, reporter più o meno in incognito, informator, agenti dei “servizi”. Mentre allora bisognava cercare chi disponesse di un programma in grado di bypassare i blocchi del governo, oggi le notizie arrivano via mail, consultando siti locali, tramite telefonate, Messenger, WhatsApp, Facebook, Viber. Perché dal 2010 a oggi si sono susseguite regolarmente due elezioni e quelle di domenica, le terze, potrebbero rivelarsi le più critiche per determinare il futuro del paese.

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Nel 2010, infatti, si svolsero le prime elezioni semi-libere e la Birmania sembrò avviarsi sulla sua “road map” verso la democrazia. Anzi: “una democrazia fiorente nella disciplina”, secondo il modello seguito da molti paesi asiatici. Allora la National League for Democracy di Aung San Suu Kyi, ancora icona di democrazia, rifiutò di partecipare. Nel 2015, invece, le elezioni furono vinte dalla Nld, in quello che si rivelò un vero e proprio plebiscito. Il Myanmar apparve come una sorta di “modello” per tutto il Sud-est asiatico, di come si potesse raggiungere un compromesso storico tra un partito democratico e popolare, i militari - che grazie alla costituzione creata su misura nel 2008 sono i reali detentori del potere - e le rappresentanze della miriade di etnie che si dividono e contendono larghe aree del paese. La crisi di questo modello, però, è stata innescata proprio del problema etnico che si è sommato all’ormai notissima questione rohingya, l’etnia musulmana, da sempre perseguitata e nei confronti della quale si è avanzata l’accusa di “genocidio” (posta sub-judice dalla sentenza della Corte Internazionale dell’Aia). La crisi è stata esacerbata dall’atteggiamento dell’Occidente che ha giudicato e condannato “in remoto”, senza tener conto delle realtà di un paese in cui le milizie etniche sono veri e propri eserciti (come dimostra lo stesso Arakan Army che si oppone al governo e condanna Aung San Suu Kyi giudicata “complice” dei rohingya). Non è un caso che l’Ashin (il Maestro) Wirathu, il monaco ultranazionalista definito “il volto del terrore buddista”, latitante da 18 mesi in quanto “fomentatore d’odio”, si sia costituito a pochi giorni dalle elezioni. Per sua ammissione in questo modo potrà “chiamare il popolo a votare contro Aung San Suu Kyi e il “demone” incarnato nella National League for Democracy”.

 

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Le valutazioni dell’opinione pubblica occidentale (che spesso appare influenzata da potenti lobby della finanza islamica), inoltre, hanno fatto temere nuove sanzioni economiche, costringendo il governo a spostarsi nuovamente nell’orbita cinese. “Un voto per Suu Kyi è un voto per la Cina” è il titolo di un acuto articolo pubblicato da “AsiaTimes”.

 

In questa situazione d’incertezza socio-economica, i militari sembrano voler reclamare il loro potere in nome della salvezza nazionale. E’ per questo che Aung San Suu Kyi non ha voluto rimandare le elezioni. Secondo i suoi oppositori, lo ha fatto per sfruttare la visibilità ottenuta tramite la gestione dell’emergenza sanitaria. Ma sembra più probabile che l’abbia fatto per non perdere la possibilità di formare un governo in grado di riformare la costituzione e procedere sul percorso democratico.

 

Alla viglia del voto la vittoria della Nld sembra scontata. Meno sicura la percentuale della vittoria. Secondo molti osservatori, infatti, la Union Solidarity and Development party (Usdp), il partito che è l’emanazione dei militari potrebbe guadagnare posizioni mentre l’altra variabile è rappresentata dagli altri 90 partiti in lizza (molti dei quali rappresentanze etniche) che potrebbero determinare inedite coalizioni nella formazione del governo.

 

Probabilmente già entro lunedì (se non nella notte di domenica) si potrà avere il risultato e quindi azzardare qualche previsione del futuro governo del Myanmar. Il conto ufficiale dei voti richiederà molto più tempo, qui con giusta ragione, considerando le condizioni di un paese in gran parte ancora fermo a un’altra epoca (anche se ormai, almeno in termini culturali, queste distinzioni appaiono sfumate). La lezione di queste elezioni, tuttavia, è un’altra: la Birmania, con le sue tensioni etniche, le sue milizie, i suoi Signori della Guerra, dimostra al tempo stesso la necessità di una leadership preparata e i rischi che si corrono quando questa, invece, alimenta le tendenze estreme di chi crede in un passato mistico, magico, violento.

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