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Le due facce di Trump

Giuliano Ferrara

Il lato sinistro e quello infantile di una personalità autoritaria e querula, un po’ escrescenza e un po’ nuovo potere

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Un lato di Trump è sinistro, l’altro grottesco. Minaccia sfracelli per la perdita della Casa Bianca, eccita lo scontento e suggerisce la possibilità di violenze, demolisce per quanto riguarda lui e i suoi la credibilità del sistema su cui ha regnato per quattro anni, che gli diede la vittoria risicata del 2016, un sistema complicato e spesso astruso ma trasparente, sorvegliato da amministratori imparziali e da giudici che gli daranno presumibilmente molte delusioni. Il lato grottesco è che si comporta come un bambino che vuole portarsi via il pallone, svela il carattere minoritario delle avanguardie del suo cosiddetto movimento, perde tra i lamenti il sostegno dei traditori, quel che sopravvive di un fievole e codardo establishment repubblicano. Rischia per gola, per attaccamento a un potere egocentrico, di non tesaurizzare la sua ottima performance di presidente in carica non sommerso da una plateale sconfessione nonostante la sua maligna eccentricità, il suo malgoverno dell’epidemia, i suoi modi abusivi mentitori e padronali.

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Un lato di Trump è sinistro, l’altro grottesco. Minaccia sfracelli per la perdita della Casa Bianca, eccita lo scontento e suggerisce la possibilità di violenze, demolisce per quanto riguarda lui e i suoi la credibilità del sistema su cui ha regnato per quattro anni, che gli diede la vittoria risicata del 2016, un sistema complicato e spesso astruso ma trasparente, sorvegliato da amministratori imparziali e da giudici che gli daranno presumibilmente molte delusioni. Il lato grottesco è che si comporta come un bambino che vuole portarsi via il pallone, svela il carattere minoritario delle avanguardie del suo cosiddetto movimento, perde tra i lamenti il sostegno dei traditori, quel che sopravvive di un fievole e codardo establishment repubblicano. Rischia per gola, per attaccamento a un potere egocentrico, di non tesaurizzare la sua ottima performance di presidente in carica non sommerso da una plateale sconfessione nonostante la sua maligna eccentricità, il suo malgoverno dell’epidemia, i suoi modi abusivi mentitori e padronali.

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Il fatto è che Trump non è un presidente americano, e mostra di non esserlo con il comportamento che assume mentre perde la carica. E’ molto meno e molto più di un presidente, è un leader, un capopopolo, issato sugli altari del potere da una rivolta emozionale rabbiosa e risentita del populismo profondo. Ha avuto un’intuizione fulminante: ha capito di che cosa la gente, molta gente, è stufa, quale sussiego e quale correttezza esponevano il capino alla mannaia dell’indecenza e della protesta in nome di valori elementari, che cosa poteva essere trasformato in una comunicazione intimidatrice, forsennata, priva di ogni scrupolo. E’ un’escrescenza come certi funghi maligni che spuntano tra ovuli e porcini. Ma è una formula di influenza e potere, una modalità della politica contemporanea.

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Dove si incontrano il lato sinistro e quello grottesco, perfino infantile, della sua personalità autoritaria e querula, lì si annida sicuramente un pericolo. Beato quel popolo che non ha bisogno di leader, viene da dire, e che si accontenta di chi fa funzionare le istituzioni. E’ evidente che Trump oggi punta a costruire il mito della vittoria mutilata, ma lo fa con mezzi risibili, proclamando illegali i voti dell’avversario e legali solo i suoi. Vien da ridere, perfino con un certo affetto come sempre per le bambinate, ma si ha anche diritto al ghigno di disgusto e di ribellione verso tanto senso impunito delle parole, delle espressioni e dell’eloquenza malata della bocca e del corpo.

 

Tira aria di sollievo, ma non si disperde una certa paura. È un uomo che ha sempre scherzato col fuoco, e ora il fuoco è il funzionamento nella transizione della democrazia elettorale americana. Nessuno davvero gli crede, ormai nemmeno più i suoi, ma nessuno è autorizzato a prendere sotto gamba la sua reazione di negazione della realtà e di scomunica dei numeri avversi. Quando la Clinton perse la soglia del Collegio elettorale, i 270 fatidici, per un pugno di voti, col favore del pronunciamento popolare in numeri assoluti, quando si fece la conta degli stati decisivi che lo intronarono re, a parte due o tre comitati di gente dedita alle social function, nessuno fece la mossa di contestare il voto sul serio. Lui, che non è mai serio, mostra invece di volere sul serio ritardare, se non impedire, la proclamazione del risultato del voto. Non c’è ragione di credere che ci riesca, non c’è ragione di prendere sottogamba il suo tentativo di riuscirci.

 

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