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Bye bye Trump. Il sistema Bolsonaro a un passo dal crollo

Cecilia Sala

Dopo la disastrata gestione del virus, l’intensificarsi delle inchieste sui figli del presidente e l’ipotesi di messa in stato d’accusa, il sistema Bolsonaro - adesso orfano di Trump - è sempre più vicino a crollare su se stesso

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La Repubblica federale del Brasile non è quella degli Stati Uniti d’America. Se l’elezione di Donald Trump nel 2016 era stata uno shock per la nazione faro del “mondo libero”, il suo omologo brasiliano aveva provato a spacciare la propria vittoria (e così era stata effettivamente percepita da una parte di elettorato e di analisti) come una svolta liberale dopo quindici anni di governo del Partito dei Lavoratori, ostile alle forze del mercato come al principio illuminista di separazione dei poteri. Un partito “corrotto” perché - sostanzialmente - “comunista”, ripeteva la destra brasiliana già prima dell’emersione nella scena politica di Jair Bolsonaro. Nonché portatore di una concezione “tropicale” della democrazia, che non è liberale ma organica e populista.

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La Repubblica federale del Brasile non è quella degli Stati Uniti d’America. Se l’elezione di Donald Trump nel 2016 era stata uno shock per la nazione faro del “mondo libero”, il suo omologo brasiliano aveva provato a spacciare la propria vittoria (e così era stata effettivamente percepita da una parte di elettorato e di analisti) come una svolta liberale dopo quindici anni di governo del Partito dei Lavoratori, ostile alle forze del mercato come al principio illuminista di separazione dei poteri. Un partito “corrotto” perché - sostanzialmente - “comunista”, ripeteva la destra brasiliana già prima dell’emersione nella scena politica di Jair Bolsonaro. Nonché portatore di una concezione “tropicale” della democrazia, che non è liberale ma organica e populista.

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In quest’ottica, era stata possibile, dopo la vittoria alle elezioni nel 2018, la collaborazione dell’ala sovranista con il centro moderato. Nell’ambito di questa narrazione, e per rafforzarla, Bolsonaro aveva scelto il World Economic Forum di Davos, in Svizzera, come primo viaggio all’estero da presidente eletto. Lì aveva cercato di spiegare, a coloro che sperava di avere come alleati in Occidente, che era lui l’interlocutore più affidabile nel panorama politico brasiliano. Dopo tanti anni di socialismo al potere, Bolsonaro era pronto alle liberalizzazioni in economia e a mettere fine alla corruzione dilagante, in vista di ciò occorreva perdonargli qualche battuta oscena su donne, omosessuali, tortura e dittatura, che anche da inquilino del palazzo presidenziale non avrebbe smesso di pronunciare.

 

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Bolsonaro voleva convincere il “mondo libero” che l’alternativa a sé stesso, in Brasile, non era desiderabile come l’alternativa a Boris Johnson in Inghilterra o quella a The Donald in America. Obiettivo ambizioso, che gli avrebbe consentito di sfruttare un binomio ritenuto vincente: essere considerato antidoto occidentale al populismo socialista latinoamericano e - allo stesso tempo - un sovranista politicamente figlio di Donald Trump e quindi conforme allo spirito del tempo. Con Trump fuori dalla Casa Bianca, questo incantesimo si spezza. Oggi Bolsonaro ha di fronte un dilemma, deve decidere fin quando restare fedele al suo modello preferito di leader e dove far prevalere la fedeltà atlantista, l’ancoraggio al “mondo libero” e il pragmatismo diplomatico che impongono il riconoscimento di Joe Biden.

 

A Davos, Bolsonaro aveva detto: “Sono stato eletto io, sono stato eletto nel mezzo di una grave crisi etica, morale ed economica del Brasile. Adesso, il nostro obiettivo è rimuovere la corruzione e l’inefficienza che ci contraddistinguono, come il mondo libero si aspetta da noi. Per la prima volta, abbiamo ministri seri e competenti, e i politici non interferiranno con gli altri poteri o per bloccare riforme giuste. Qui a Davos c’è anche il mio ministro Sergio Moro, un magistrato, l’uomo che ha sconfitto la corruzione e il riciclaggio in Brasile!”.

 

Stacco. Brasilia, 22 giugno 2020, una televisione sintonizzata sulla rete Globo: “Si intensificano ancora le denunce e le inchieste che hanno nel mirino l'entourage politico e familiare del presidente Jair Bolsonaro: i suoi figli, i suoi amici, i gruppi di suoi sostenitori”. Nella periferia della capitale, all’inizio di quella settimana, la polizia aveva fatto irruzione in alcuni fabbricati. Quelle strutture, si è scoperto, erano sedi operative di organizzazioni di estrema destra come “Patriotas” e  “300 do Brasil”, che appoggiano l’attuale presidente. Nei fabbricati - attrezzati con telecamere a circuito chiuso per monitorare i passaggi disposte su tutti e quattro i lati - vengono ritrovate casseforti, documenti, machete, telefoni cellulari.

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L’ipotesi è che questi gruppi abbiano avuto un ruolo nel terrorizzare i magistrati che in quel momento, con le loro inchieste, assediano l’entourage del presidente. Un elemento a supporto della teoria per cui queste organizzazioni sarebbero responsabili delle intimidazioni ai giudici era da ricondurre a un dettaglio bizzarro: il ritrovamento all’interno dei fabbricati di numerosi fuochi d’artificio. Nel mese di giugno, infatti, ne erano stati lanciati alcuni contro la sede del Tribunal federal, in direzione delle finestre che corrispondono agli uffici di giudici della Corte suprema brasiliana.

 

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Come negli Stati Uniti, dove i gruppi estremisti che sostengono il presidente uscente sono pronti a usare la violenza per difendere Donald Trump, in Brasile gruppi come “Patriotas” e “300 do Brasil” sono pronti a fare altrettanto per proteggere Bolsonaro. E ciò che in questo momento preoccupa di più il presidente del Brasile sono le indagini a carico dei suoi figli. Carlos Bolsonaro, consigliere comunale a Rio, è accusato di aver manovrato una rete di esperti durante la campagna elettorale per diffondere notizie false sugli avversari politici del padre, da veicolare poi sui social e in particolare nei gruppi whatsapp. Sul primogenito Flávio Bolsonaro, senatore, si indaga invece per riciclaggio, corruzione e rapporti con la criminalità organizzata di Rio de Janeiro.

 

Torniamo quindi a Davos, e a ciò che il presidente aveva prospettato in quella occasione: “Per la prima volta i politici non interferiranno con gli altri poteri”. Un anno dopo, in Brasile, è successo qualcosa di insolito. La Corte Suprema ha caricato sul proprio sito istituzionale un video rubato in cui Bolsonaro, durante una riunione di governo, si lamenta delle forze dell’ordine perché non gli passano informazioni e non lo aiutano a “proteggere” i propri familiari dalle inchieste in corso. Il sito ufficiale della Corte, che generalmente ha pochi visitatori, quel giorno era andato in crash per il numero record di utenti unici.

 

Il video oggetto della pubblicazione rappresenta oggi la prova regina dell’inchiesta per stabilire se Bolsonaro abbia abusato dei suoi poteri e fatto pressioni indebite su altri corpi dello Stato, una vicenda per cui il presidente del Brasile sta rischiando l’impeachment. Le parole del presidente erano state: “Non aspetterò che la mia famiglia o i miei amici vengano fregati. Se non posso cambiare questi funzionari, allora cambierò il loro capo. Se non posso cambiare il loro capo, cambierò direttamente il ministro!”. Nelle settimane seguenti, aveva rimosso “il loro capo”: il direttore della polizia federale Mauricio Valeixo.

 

Il 3 novembre Flávio Bolsonaro è stato formalmente incriminato per riciclaggio e organizzazione criminale nel caso “Rachadinhas”, che significa cracking: trasformazione del petrolio. Nello specifico, il primogenito della Bolsonaro Dynasty è accusato di essersi appropriato indebitamente dello stipendio dei suoi consiglieri “fantasma”, e quindi di aver intascato soldi pubblici truffando lo stato. Uno schema criminale che fruttava circa 2,7 milioni di reais, corrispondenti agli stipendi dei propri dipendenti, la maggior parte dei quali, però, non svolgevano alcuna attività di gabinetto né si presentavano in ufficio all’Assemblea di Rio.

 

La gestione pratica era affidata a Fabrício Queiroz, un ex poliziotto poi diventato il tuttofare dei Bolsonaro: i milioni arrivavano a lui, e provenivano da centinaia di bonifici e depositi in contanti effettuati da oltre 13 dipendenti. Queiroz ne tratteneva una piccola parte e il resto lo restituiva gradualmente a Flávio pagandogli le spese personali, ovviamente in contanti. L’aspetto più inquietante contenuto nelle carte dei pubblici ministeri riguarda però il legame tra la famiglia Bolsonaro, Queiroz, e Adriano Magalhães da Nóbrega, un ex militare poi passato alla guida di una milizia criminale dal nome Escritório do Crime, che oltre a gestire i propri affari è solita fornire sicari a privati facoltosi.

 

Tra le altre, c’è un’indagine in corso in cui Escritório do Crime è accusato di aver eseguito materialmente l’omicidio della consigliera comunale della sinistra Marielle Franco e del suo autista. Qual è il nesso con il caso “Rachadinhas”? Tra i dipendenti pubblici “fantasma” che restituivano gli stipendi a Flávio Bolsonaro, ci sono anche la ex moglie e la madre del capo della milizia Adriano, le signore Danielle Nóbrega e Raimunda Veras Magalhães. Dopo la disastrata gestione del virus, l’intensificarsi delle inchieste sui figli del presidente e l’ipotesi di messa in stato d’accusa, il sistema Bolsonaro - adesso orfano di Trump - sembra sempre più vicino a crollare su sé stesso.

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