PUBBLICITÁ

Keep the faith

I democratici hanno vissuto il trumpismo come un’anomalia. Ora sanno che non è così

il tempo delle analisi – delle accuse e dei rinfacciamenti e dei rimpianti – è già cominciato, anzi è iniziato prestissimo

Paola Peduzzi

Lo stupore forse è la sintesi dell’approccio democratico al trumpismo. È cominciato nel 2016, e allora era anche giustificato, quella era l’elezione che non si poteva perdere. Ma quello stato d’animo è rimasto, c’era ancora nella notte elettorale: com’è possibile che ancora si deve lottare, dopo tutto quello che è successo? Lo stupore è andato di pari passo con l’impermeabilità di Trump a ogni genere di scandalo e conseguente indignazione

PUBBLICITÁ

Joe Biden ha cercato di essere calmo e rassicurante: sta andando tutto bene, non fatevi prendere dall’ansia, soprattutto non credete a Donald Trump che dice di aver vinto. La cifra del candidato democratico è sempre la stessa: si resta calmi e pragmatici, si aspetta che tutti i voti vengano contati, poi avremo  il tempo per capire che cosa ha funzionato e che cosa no. Ma il tempo delle analisi – delle accuse e dei rinfacciamenti e dei rimpianti – è già cominciato, anzi è iniziato prestissimo, da quando la Florida è andata dritta verso Trump senza tentennamenti e invece la cosiddetta strada del midwest – la vittoria secca negli stati strappati dal presidente a Hillary Clinton nel 2016: la triade infernale Michigan-Wisconsin-Pennsylvania – sembrava molto accidentata. Si sapeva che poteva andare così, come si sapeva che Trump avrebbe approfittato delle difficoltà democratiche per costruire la sua realtà parallela – “ho vinto” – ma finché lo scenario dell’incertezza  non si è concretizzato i democratici hanno pensato che non fosse possibile. Lo stupore, un’altra volta. Quello del 2016 e quello di adesso, mentre tutto cambia e l’idea di Biden alla Casa Bianca non è remota, anzi.
Lo stupore forse è la sintesi dell’approccio democratico al trumpismo. E’ cominciato nel 2016, e allora era anche giustificato, quella era l’elezione che non si poteva perdere. Ma quello stato d’animo è rimasto, c’era ancora nella notte elettorale: com’è possibile che ancora si deve lottare, dopo tutto quello che è successo? Lo stupore è andato di pari passo con l’impermeabilità di Trump a ogni genere di scandalo e conseguente indignazione – e ce n’è stata tanta. Nel 2017, si pensava di poter togliere Donald Trump dalla Casa Bianca per via delle interferenze russe nella campagna elettorale. Ci fu una grande inchiesta, il Russiagate, fu nominato un superprocuratore, Robert Mueller, ci furono scontri istituzionali violenti – con il ministero della Giustizia – testimonianze, ricostruzioni, piste, facce, faccendieri. Poi un tweet – “NO COLLUSION” – spazzò via tutto. Stupore.
A inizio del 2020, cioè qualche mese fa, stessa scena. Questa volta più grave: la messa in stato d’accusa del presidente degli Stati Uniti, l’impeachment. Testimonianze, accuse, ricostruzioni, talpe, la scoperta di diplomazie parallele e non ufficiali, la rivolta degli ambasciatori. Poi il voto: nessun impeachment.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Joe Biden ha cercato di essere calmo e rassicurante: sta andando tutto bene, non fatevi prendere dall’ansia, soprattutto non credete a Donald Trump che dice di aver vinto. La cifra del candidato democratico è sempre la stessa: si resta calmi e pragmatici, si aspetta che tutti i voti vengano contati, poi avremo  il tempo per capire che cosa ha funzionato e che cosa no. Ma il tempo delle analisi – delle accuse e dei rinfacciamenti e dei rimpianti – è già cominciato, anzi è iniziato prestissimo, da quando la Florida è andata dritta verso Trump senza tentennamenti e invece la cosiddetta strada del midwest – la vittoria secca negli stati strappati dal presidente a Hillary Clinton nel 2016: la triade infernale Michigan-Wisconsin-Pennsylvania – sembrava molto accidentata. Si sapeva che poteva andare così, come si sapeva che Trump avrebbe approfittato delle difficoltà democratiche per costruire la sua realtà parallela – “ho vinto” – ma finché lo scenario dell’incertezza  non si è concretizzato i democratici hanno pensato che non fosse possibile. Lo stupore, un’altra volta. Quello del 2016 e quello di adesso, mentre tutto cambia e l’idea di Biden alla Casa Bianca non è remota, anzi.
Lo stupore forse è la sintesi dell’approccio democratico al trumpismo. E’ cominciato nel 2016, e allora era anche giustificato, quella era l’elezione che non si poteva perdere. Ma quello stato d’animo è rimasto, c’era ancora nella notte elettorale: com’è possibile che ancora si deve lottare, dopo tutto quello che è successo? Lo stupore è andato di pari passo con l’impermeabilità di Trump a ogni genere di scandalo e conseguente indignazione – e ce n’è stata tanta. Nel 2017, si pensava di poter togliere Donald Trump dalla Casa Bianca per via delle interferenze russe nella campagna elettorale. Ci fu una grande inchiesta, il Russiagate, fu nominato un superprocuratore, Robert Mueller, ci furono scontri istituzionali violenti – con il ministero della Giustizia – testimonianze, ricostruzioni, piste, facce, faccendieri. Poi un tweet – “NO COLLUSION” – spazzò via tutto. Stupore.
A inizio del 2020, cioè qualche mese fa, stessa scena. Questa volta più grave: la messa in stato d’accusa del presidente degli Stati Uniti, l’impeachment. Testimonianze, accuse, ricostruzioni, talpe, la scoperta di diplomazie parallele e non ufficiali, la rivolta degli ambasciatori. Poi il voto: nessun impeachment.

Ci sono tantissimi esempi di questo genere che hanno cementato l’idea nei democratici che il trumpismo potesse essere un fenomeno da mettere tra parentesi, il frutto dell’irrazionalità o di un desiderio – che nel 2016 era molto forte – di dare scossoni forti al sistema. Da ultimo il Covid, la malagestione del presidente che invece di essere rassicurante ha detto di bersi il disinfettante per curare una malattia quasi più leggera di un’influenza, che invece di cercare unità ha messo gli stati contro gli stati, le città contro le città, con in mente la mappa che oggi fissiamo stupiti – è stata così rossa, com’è possibile? L’irresponsabilità di Trump refrattario alle mascherine (ma non agli steroidi, ove necessari) è diventata campagna elettorale alla vecchia maniera, con le carovane e le bandiere e i comizi e gli applausi, e i democratici ligi, cauti, responsabili hanno finito per non fare campagna – e sulla mobilitazione che c’è stata ma non così grossa, non come tanto stupore faceva sperare, si discuterà ancora  molto.
 L’elenco potrebbe continuare. Ci sono le poche tasse pagate dal presidente – quando le ha pagate – e le donne molestate, ci sono le forze speciali mandate a sedare le proteste perché le città guidate dai democratici sono peggio dell’Afghanistan (c’è anche l’Afghanistan e il ritiro sciagurato, tra l’altro), ci sono i bambini separati dalle famiglie al confine con il Messico o le carovane di immigrati pronte a invadere l’America e poi, nel giro di una notte elettorale (quella di metà mandato nel 2018), scomparse. Non sarà mai esaustivo, l’elenco, mentre completo e assoluto è lo stupore con cui i democratici hanno vissuto il mandato trumpiano e la notte elettorale.
Le inchieste dei grandi giornali, i murales con tanti quadratini, uno per ogni bugia, gli ammiccamenti ai complottisti di Trump e quelli ai suprematisti: sono sembrati dei fantasmi. E da qui ripartirà, quando e se ripartirà, la ricostruzione dell’America: nulla è scontato, certe ferite sono profonde, lo stupore non può essere una strategia mai, non quando va male, non quando andrà bene.

  

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ