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Dove va la Corte suprema statunitense con Amy Coney Barrett

Joshua Mitchell

La battaglia che ha infuriato sul seggio lasciato vacante da Ruth Bader Ginsburg prova che l’unità di un popolo non è assicurata da leggi e sentenze, ma dal faticoso lavoro della politica. Che in questi anni è scomparsa

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La morte del giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg, avvenuta lo scorso 18 settembre, ha suscitato ondate di panico nelle file del Partito democratico, mentre il presidente Trump e i repubblicani ne hanno tratto incoraggiamento. Quanti hanno sempre denunciato la deriva a sinistra della Corte nell’ultimo mezzo secolo – dalla sentenza Roe v. Wade del 1973, che ha legalizzato l’aborto, alla sentenza Obergefell v. Hodges del 2015 sul matrimonio omosessuale – hanno avuto un’occasione rara per contrattaccare. I democratici temono che le vittorie da loro riportate davanti alla Corte saranno sfidate e rovesciate.

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La morte del giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg, avvenuta lo scorso 18 settembre, ha suscitato ondate di panico nelle file del Partito democratico, mentre il presidente Trump e i repubblicani ne hanno tratto incoraggiamento. Quanti hanno sempre denunciato la deriva a sinistra della Corte nell’ultimo mezzo secolo – dalla sentenza Roe v. Wade del 1973, che ha legalizzato l’aborto, alla sentenza Obergefell v. Hodges del 2015 sul matrimonio omosessuale – hanno avuto un’occasione rara per contrattaccare. I democratici temono che le vittorie da loro riportate davanti alla Corte saranno sfidate e rovesciate.

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In un primo tempo, lo scontro sui media ruotava attorno all’interrogativo se Trump avesse o meno il diritto di rimpiazzare il seggio vacante prima delle elezioni presidenziali. La battaglia si è poi spostata in Senato, dove i democratici hanno sottoposto la candidata Amy Coney Barrett, giudice di una corte d’appello federale e cattolica pro life con uno specchiato curriculum di giurista, a una prevedibile character assassination. La grande battaglia, rispetto alla quale queste sono solo schermaglie, è sulla questione se la Corte suprema, vertice del sistema giudiziario degli Stati Uniti, debba riflettere e codificare il consenso politico che emerge nel paese, oppure se debba dargli forma anticipandolo con le sue decisioni.

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Questa seconda strategia, che elude la dialettica politica necessaria alla salute morale e alla crescita di una nazione, in America è stata da tempo adottata dalla sinistra per imporre la propria volontà al resto del paese. Una comunità politica sana deve ingaggiare dibattiti senza fine su questioni sulle quali cittadini ragionevoli saranno in disaccordo. E’ questo il senso della politica. Su alcune questioni, sarà possibile raggiungere un compromesso abbastanza facilmente. Su altre, invece, sarà necessario uno scontro lungo e faticoso, che a tratti diventerà incivile e persino violento, ma alla fine darà il risultato più prezioso di tutti: un consenso che permette al paese di sanare le ferite, radunare le proprie energie e andare avanti verso la sfida successiva.

 

A partire dalla seconda metà del XIX secolo, diversi accademici iniziarono a sostenere che questa concezione della politica non sarebbe stata all’altezza del compito di governare una società complessa. Uno di questi accademici, Woodrow Wilson, sarebbe diventato il ventottesimo presidente degli Stati Uniti (1913-1921). Egli fu uno dei precursori di quello che sarebbe stato conosciuto come il movimento progressista. I progressisti cercavano di eludere la dialettica politica voluta dalla costituzione americana: secondo loro, l’America doveva essere governata da una élite di illuminati e di esperti, e dovevano essere le corti, non i cittadini, ad avere la responsabilità primaria nel risolvere i problemi di una società democratica.

 

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I progressisti cercavano insomma una scorciatoia per aggirare quella dialettica politica che i Padri fondatori ritenevano assolutamente necessaria. Questi ultimi sapevano che un piccolo gruppo di élite, responsabili del governo, dell’amministrazione e del potere giudiziario, sarebbero state un indispensabile complemento del processo politico dal basso; ma non potevano immaginare che sarebbero diventate, com’è oggi, un sostituto di questo processo. Quando le tensioni politiche interne a una comunità vengono eluse dalle decisioni del governo federale e delle sue corti, i problemi non vengono risolti, ma si preparano a riemergere in un altro momento e in un altro luogo.

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Il movimento conservatore, oggi una presenza stabile nella politica americana, non esisteva nemmeno prima degli anni Cinquanta, quando fu inventato da William F. Buckley e Russell Kirk. Questi due uomini si opponevano al disegno dei progressisti di sottrarre ogni potere politico alle comunità locali, alle famiglie e alle chiese. Non è una sorpresa che avessero trovato il loro eroe in Edmund Burke, che alla fine del Settecento aveva affermato che nessuna società può mantenersi a lungo in salute senza i “piccoli plotoni” della società civile: le famiglie, le associazioni, i villaggi, e così via.

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Possiamo persino dubitare che ci sarebbe mai stato un movimento conservatore in America, se i progressisti non avessero cercato di eludere la dialettica politica che stava tanto a cuore ai Padri fondatori. La sentenza Roe v. Wade del 1973 sull’aborto è un altro esempio del tentativo delle corti di dare forma al consenso politico invece di rifletterlo. Prima di questa sentenza, i cinquanta stati dell’unione avevano ognuno la propria legge sull’aborto, e ogni stato era un campo di battaglia in cui i cittadini discutevano animatamente contro e a favore di esso.

 

La sentenza non mise fine alla controversia; dette anzi impulso a un ampio movimento di cittadini cristiani che si erano in gran parte ritirati dall’impegno politico fin dagli anni Venti, quando il celebre processo “Scopes Monkey” (1925) bandì l’insegnamento del creazionismo dalle scuole pubbliche. Indignati dal fatto che la questione dell’aborto era stata risolta in modo prematuro senza che le loro posizioni religiose fossero state tenute in debito conto, essi mobilitarono la moral majority che nel 1979 si levò contro la sentenza Roe v. Wade.

 

E’ probabile che Ronald Reagan non sarebbe diventato il quarantesimo presidente degli Stati Uniti (1981-1989) se questa “maggioranza morale” non avesse portato dalla sua parte milioni di cristiani americani che altrimenti sarebbero rimasti in silenzio – e possiamo solo immaginare cosa ciò avrebbe significato per l’America e per il mondo. Quando negli Stati Uniti le corti decidono le controversie politiche in modo prematuro, il risultato non è un consenso pacifico, ma l’emersione di fazioni disilluse e risentite che trasformano la scena politica del paese e rendono il confronto più aspro. Non c’è alcun sostituto per il duro lavoro della politica, ovvero della costruzione del consenso.

 

Le élite, siano esse illuminati funzionari del governo o giudici delle corti federali, non possono dare risposta alle questioni più importanti al nostro posto. Nella politica, come nella vita, dobbiamo affrontare i problemi in prima persona e discuterli fino alle loro ultime conseguenze, invece di cercare di aggirarli con scorciatoie che non faranno altro che riportarci, un domani, al punto di partenza. Eccoci dunque al giorno d’oggi, quarantasette anni dopo che la sentenza Roe v. Wade è diventata legge per tutto il paese, con il presidente Trump che ha nominato la cattolica pro life Amy Coney Barrett al seggio vacante della Corte suprema.

 

I democratici sono al tempo stesso arrabbiati e terrorizzati. Stanno facendo promesse a tutti implorandoli di votare per Joe Biden, così da porre fine all’incubo di una presidenza Trump che minaccia non solo di rovesciare la sentenza Roe v. Wade ma di sfidare ogni parola d’ordine della loro attuale ideologia. Senza pensare di poter prevedere come andrà a finire, possiamo dire che alle prossime elezioni andranno a votare – e lo si sta già constatando in questi giorni – più americani di quanti hanno votato negli ultimi decenni.

 

La posta in gioco è alta. Cosa succederà ora che la nomina di Coney Barrett è stata confermata da parte del Senato? La sentenza Roe v. Wade sarà riscritta? L’aborto legale verrà rimesso in discussione in America? Nessuno può dirlo. La verità è che una nuova sentenza contraria alla Roe v. Wade non deciderà la questione una volta per tutte più di quanto la precedente abbia fatto quarantasette anni fa. Allora furono i democratici a trovare la scorciatoia verso un consenso che non esisteva. Adesso sono i repubblicani a voler usare il potere della Corte suprema per avere la loro scorciatoia.

 

Il dramma di questi giorni intorno alla candidatura alla Corte suprema degli Stati Uniti getta una luce sul problema dell’America – il quale è, credo, anche il problema dell’Europa. Per più di un secolo, dall’inizio dell’èra progressista, le élite americane hanno cercato di eludere il faticoso confronto politico al quale i cittadini – che sono, è vero, spesso rozzi e tutt’altro che illuminati – hanno diritto di partecipare. Le élite hanno promesso loro, in cambio della rinuncia alla responsabilità politica, la sicurezza garantita da un’amministrazione “scientifica”, la fine delle guerre, le soddisfazioni materiali che ci permettono di fare sonni tranquilli.

 

Ma tutto ciò ci ha resi sempre più soli e isolati: non proviamo più, in fondo, il bisogno dei nostri vicini e dei nostri concittadini. Gli apparati dello stato e il potere dei tribunali sono cresciuti, ma – eccetto che per quel gruppo, sempre meno numeroso, di persone che traggono beneficio dal mondo che le nostre élite hanno costruito – le cose non sono andate come era stato promesso. L’uomo, disse Aristotele, è un animale politico. Siamo chiamati, attraverso il dibattito e la partecipazione, a costruire insieme una comunità. Se ci sono controversie, devono essere affrontate e non bypassate da burocrazie e tribunali superiori.

 

Questo è invece quello che è successo in America nel secolo scorso, e ne stiamo vedendo oggi le conseguenze. La battaglia che ha infuriato sul seggio lasciato vacante dall’intempestiva morte del giudice Ginsburg prova che l’unità di un popolo non è assicurata da leggi e sentenze, un domani reversibili, ma dal faticoso lavoro della politica. Se le corti fanno vivere, le corti fanno anche morire, come i democratici hanno scoperto.

 

(traduzione di Giuseppe Perconte Licatese)

* l’autore è docente alla Georgetown University

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