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Big Tech sa qualcosa di più sulle elezioni americane dei sondaggisti

Daniele Ranieri

L'America comincia una causa contro Google per monopolio (come l'Europa) e intanto da due settimane Twitter e Facebook scommettono che il presidente Trump non sarà rieletto

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Il dipartimento di Giustizia e undici stati americani – tutti guidati da governatori repubblicani – hanno fatto causa a Google. Sostengono dopo un’inchiesta durata un anno che grazie a una serie di accordi commerciali e a pratiche di mercato molto dubbie, l’azienda mantiene salda la presa sul novanta per cento delle ricerche sul web e vogliono spezzare questo dominio di mercato. Si riferiscono, tra le altre cose, al fatto che Google è il motore di ricerca impostato di default sui telefonini che usano il sistema Android o sui computer che usano il diffusissimo Chrome come browser. 
Il dipartimento di Giustizia e gli undici stati chiedono anche uno “structural relief”, che vuol dire “sollievo strutturale” e anche se non corrisponde allo smembramento di Google equivale comunque a una riorganizzazione.

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Il dipartimento di Giustizia e undici stati americani – tutti guidati da governatori repubblicani – hanno fatto causa a Google. Sostengono dopo un’inchiesta durata un anno che grazie a una serie di accordi commerciali e a pratiche di mercato molto dubbie, l’azienda mantiene salda la presa sul novanta per cento delle ricerche sul web e vogliono spezzare questo dominio di mercato. Si riferiscono, tra le altre cose, al fatto che Google è il motore di ricerca impostato di default sui telefonini che usano il sistema Android o sui computer che usano il diffusissimo Chrome come browser. 
Il dipartimento di Giustizia e gli undici stati chiedono anche uno “structural relief”, che vuol dire “sollievo strutturale” e anche se non corrisponde allo smembramento di Google equivale comunque a una riorganizzazione.

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La causa annunciata ieri è una dichiarazione di guerra dell’Amministrazione Trump contro Big Tech, le grandi aziende tecnologiche come Facebook, Amazon, Twitter e Google che da anni esercitano uno strapotere difficile da controllare. Tra governo e Big Tech c’è tensione da molto tempo, anche se a volte gli argomenti usati c’entrano molto con la propaganda e poco con la realtà. Il presidente americano Donald Trump accusa le aziende di manipolare gli americani contro di lui. E’ una tesi che non regge, anzi, è possibile che Trump debba molto del suo successo al fatto che gli esperti dalla sua parte sanno usare molto bene le piattaforme social con tutta una rete di pagine che si citano e si rilanciano – e i numeri lo confermano, in questi giorni di campagna elettorale le prime dieci pagine più viste sono tutte per Trump. 

E’ vero però che il gruppo Big Tech gode di un potere anomalo e non è possibile dire che questa cominciata dal governo americano adesso sia una campagna “trumpiana”: l’Europa ha cominciato già da tempo a fare la stessa cosa e ad aggredire le posizioni di dominio monopolista delle aziende americane, grazie ai regolamenti meno lassisti dell’Unione europea. L’America si sta rimettendo in pari. 

La causa dell’Amministrazione Trump contro Google è una notizia enorme, ma nelle ultime due settimane c’è stata tutta una sequenza di notizie meno appariscenti arrivate da Facebook, Twitter e YouTube che in pratica sono una scommessa molto forte contro la rielezione del presidente Trump. Facebook ha annunciato il divieto di fare pubblicità di natura politica dopo il 3 novembre, quindi dopo il giorno delle elezioni presidenziali. In teoria non avrebbe senso – perché bloccare le pubblicità politiche dopo le elezioni? E’ molto probabile che a Facebook abbiano preso in considerazione lo scenario di un’elezione contestata che si trascina per settimane e quindi, in un clima caotico dove ogni notizia vera o falsa potrebbe causare disordini e instabilità, abbiano deciso in anticipo di mettere un argine. La piattaforma social di Mark Zuckerberg, assieme a Twitter e YouTube (che è di Google), ha anche deciso di cancellare le pagine e i gruppi legati a QAnon – e sono moltissimi – che fanno da superspreader nel caso dei complotti e chiamate alle armi. Ce ne sono ancora, perché ormai l’infestazione aveva raggiunto un livello pervasivo, ma il grosso è stato spazzato via. E’ un caso di deplatforming (quindi di cacciata dalle piattaforme) di massa che ricorda la pulizia fatta contro la propaganda jihadista a partire dal 2014. Lo scopo è quello di rendere più neutro il terreno, meno pronto al rilancio virale, che se qualcosa va storto potrebbe essere l’anticamera di guai grossi. Facciamo un caso ipotetico ma neanche troppo: oggi chiedere via social alla gente di andare ai seggi armata per bloccare brogli di massa da parte di clandestini assoldati da democratici (una cosa discussa davvero sulle pagine complottiste) è molto più difficile che due settimane fa. Twitter ha preso anche la decisione inedita di sopprimere un articolo del New York Post che insinuava che il figlio del candidato democratico Joe Biden sia coinvolto in affari sporchi in Ucraina. Twitter ha usato la mano pesante: era impossibile anche soltanto pubblicare il link, non funzionava. Di fatto la sua circolazione è stata stroncata prima che diventasse virale. 

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Molti esperti fanno notare che le piattaforme social hanno una conoscenza e una consapevolezza dell’umore del pubblico molto più raffinata e reale dei sondaggisti, perché come sappiamo da anni studiano i loro utenti e le reazioni. E quindi si chiedono se questo posizionamento in anticipo contro Trump – discreto, ma visibile – non sia dovuto al fatto che sanno qualcosa che gli altri sanno ma con maggiore approssimazione e molti meno dati. L’idea è che scommettano contro Trump perché, al contrario dei tanti che temono una sorpresa in stile 2016 e un bis della sconfitta di Hillary, sono più sicuri. 
 


 


 

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