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Sul fronte delle battaglie culturali d'Europa

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Il conflitto tra libertà e responsabilità, gli stress test che non abbiamo mai fatto, la scollatura finlandese e il tasso di permalosità in continuo aumento

La seconda ondata è qui, la battaglia culturale anche. Dai fondamentalisti delle mascherine siamo passati ai fondamentalisti del lockdown, come se davvero ci fosse qualcuno al mondo che ha la voglia e la forza – politica, individuale, fisica, emotiva – di richiudere tutto, di rimettere in attesa l’economia, il lavoro, le scuole, la vita. Semmai è il contrario, semmai siamo tutti merkeliani e vorremmo “fare di tutto per evitare un altro lockdown”. Semmai lo scontro culturale è qui, tra la libertà in senso assoluto e nello specifico – è una pandemia, questa, che si gestisce rispettando le regole e facendolo tutti insieme – una libertà individuale ed egoistica, e una libertà responsabile. Come ha detto il presidente Sergio Mattarella rispondendo al premier britannico Boris Johnson che diceva che il Regno Unito è refrattario alle restrizioni perché è un paese fondato sulla libertà più di altri paesi, “noi amiamo la libertà, ma anche la serietà”. 

 

Siamo andate a vedere come si sta sul fronte di questo scontro, che cosa vuol dire essere liberi e responsabili, e mentre eravamo in prima linea ci siamo imbattute in altre battaglie – le scollature delle donne, i diritti politici, le ingerenze straniere, la permalosità nazionale – e le abbiamo messe tutte in fila.

 

Tutto per evitare il lockdown. Fare di tutto per evitare il secondo lockdown è stato il mantra che ha guidato la Commissione europea sin dall’estate. Il 15 luglio, quando l’Ue e la sua economia erano tornate a riaprirsi, la commissaria alla Sanità, Stella Kyriakides, scese in sala stampa per lanciare un appello ai governi nazionali: “Non è il momento di abbassare la guardia” perché “il virus continua a circolare. La vigilanza, la preparazione e il coordinamento sono essenziali per prevenire focolai generalizzati”. Quel giorno la Commissione pubblicò una comunicazione invitando gli stati membri a rafforzare i piani di preparazione in vista della seconda ondata. Le priorità dovevano essere queste: “Aumentare la copertura dei test, il tracciamento dei contatti e la sorveglianza da parte degli enti sanitari pubblici”; “garantirsi forniture regolari di dispositivi di protezione individuale, medicinali e dispositivi medici”; “fare in modo che la sanità pubblica sia capace di attivarsi rapidamente in qualsiasi momento, per gestire un afflusso massiccio di pazienti”; “prevedere misure non farmaceutiche mirate e localizzate” (le restrizioni settoriali o localizzate, ndr); “sostenere i gruppi vulnerabili, come gli anziani, le persone con patologie pregresse e le persone socialmente emarginate”; “ridurre l’impatto dell’influenza stagionale, in modo da evitare una pressione supplementare sui sistemi di assistenza sanitaria già sovraccarichi, mediante l’aumento della copertura vaccinale”. A luglio la Commissione aveva anche proposto ai governi dei 27 di condurre degli “stress test” in caso di seconda ondata, sulla base di diversi scenari, concentrandosi in particolare su capacità di test e tracciamento. Cosa è stato fatto dagli stati membri durante l’estate? Abbiamo letto i verbali del Comitato per la sicurezza sanitaria dell’Ue per capirlo. 

 


In estate la Commissione ha più volte ricordato che erano stati effettuati appalti comuni, ma molti paesi non hanno voluto fare gli ordini


 

Gli stress test. Gli stress test sulla seconda ondata di fatto sono stati rigettati dagli stati membri. “La maggior parte dei paesi ha fatto sapere che gli stress test non sono una priorità al momento attuale”, si legge nel verbale della riunione del Comitato per la sicurezza sanitaria dell’Ue il 10 settembre. Il rappresentante del Belgio ha risposto in modo stizzito che “il test di vita reale c’è stato in marzo, durante l’epidemia. Il Belgio ha tratto le prime lezioni da quella situazione e sta lavorando a un piano strategico per il futuro”. Oggi il Belgio contende alla Repubblica ceca il primo posto in termini di contagi, il tasso di positività ha superato il 12 per cento, le terapie intensive degli ospedali di Bruxelles sono costrette a passare in modalità Covid al 50 per cento e si parla sempre più di un secondo lockdown (non per le scuole). Nella stessa riunione del 10 settembre, il rappresentante dell’Italia ha annunciato che era allo studio “un approccio specifico per testare tutte le persone con sintomi respiratori”. Garantiva anche che “non ci sono penurie di forniture di test” e che le autorità stavano “lavorando a un modo perché questo fosse garantito anche in futuro”. Nelle classifiche europee, l’Italia è nelle retrovie per numero di test ogni centomila abitanti. L’8 ottobre la media giornaliera dell’ultima settimana era 1,76 per l’Italia contro 3,54 per il Regno Unito, 3,3 per il Belgio, 2,66 per la Francia, 2,20 per la Spagna.

 

Gli appalti comuni. Durante l’estate la Commissione ha più volte ricordato che erano stati effettuati appalti comuni (per mascherine, materiali protettivi, ventilatori, attrezzature di laboratorio, kit e reagenti per i test, medicinali per le unità di terapia intensiva) così come contratti per la fornitura di remdesivir. Molti governi non hanno voluto (o hanno dimenticato di) fare ordini attraverso gli appalti e i contratti europei. Così il 24 settembre Kyriakides è scesa di nuovo in sala stampa  e ha detto: “La situazione in alcuni stati membri è perfino peggiore rispetto a marzo. Questa è una vera fonte di preoccupazione”, ha detto la commissaria alla Sanità: “Questa può essere l’ultima chance per evitare la ripetizione di quel che è accaduto la scorsa primavera”. Occorre “evitare la situazione in cui i governi si sentano obbligati di imporre un secondo lockdown”, ha detto la commissaria, e ha aggiunto che alcuni stati membri non hanno attuato in modo efficace le misure che erano state raccomandate dall’Ue in luglio. Secondo Kyriakides, le capitali non stavano “pianificando il worst case scenario”, malgrado la Commissione avesse messo a disposizione “strumenti per sostenere questo sforzo”. Senza competenze sulla sanità, da marzo la Commissione ha cercato di dare una mano a tutti i paesi. Ma se i governi nazionali non seguono le indicazioni europee, sulla sanità nessuno li può costringere.

 

#ImwithSanna. Sanna Marin, premier finlandese, ha rilasciato un’intervista a una rivista femminile, Trendi, e ha posato per il servizio fotografico che accompagnava il testo: in una foto a mezzo busto, la Marin è nel giardino della sua residenza, ha una giacca nera molto scollata senza  nulla sotto se non un collier della bigiotteria Kalevala. Scandalo: ha una mise “indecente”, “gioca a fare la modella” invece che occuparsi della pandemia, usa la sua carica per fare pubblicità a dei gioielli. Controscandalo: l’hashtag #ImwithSanna con molte foto di scollature profonde, senza reggiseno ma con grandi sorrisi. L’ex presidente finlandese, Tarja Halonen, ha detto alla Marin: “Benvenuta nel club” delle donne politiche che sono sulla bocca di tutti per come si vestono, si muovono, parlano, gesticolano. L’ex presidente ha poi aggiunto una cosa: gli uomini invece possono “starsene nudi, che il loro corpo glielo permetta oppure no”. La prova: l’immagine dell’eurodeputato dei Veri finlandesi, Teuvo Hakkarinen, col costume striminzito e il cappellino trumpiano. Sarà forse questo il discrimine – poterselo permettere – per accettare scollature vertiginose, corpi nudi, mutande attillate?  

 


E’ difficile recuperare la fiducia in una democrazia. Il primo caso di rifugiato politico polacco in Norvegia dalla caduta del Muro


 

Un polacco in Norvegia. Rafal Gawel è stato accusato di frode e falsificazione di documenti nel suo paese, in Polonia. Ma tra una sentenza e l’altra ha lasciato la sua nazione per andare in Norvegia e chiedere asilo. La Norvegia glielo ha concesso, per un anno, e sarà esteso anche a sua moglie e sua figlia. Gawel è il fondatore di un centro che si occupa di monitorare i comportamenti razzisti e xenofobi e negli ultimi anni aveva anche preso in gestione un teatro nella sua città, Bialystok. Ha lasciato la Polonia lo scorso anno e sin dall’inizio ha parlato delle indagini contro di lui come di una persecuzione: si occupa di discorsi di odio, di razzismo, di sentimenti che il partito di governo, il PiS, non ha fatto altro che fomentare. Gawel ha presentato la condanna come  il colpo di una magistratura ormai poco affidabile perché politicizzata. Quindi, arrivato in Norvegia con tutte queste sue considerazioni, ha chiesto di essere accolto e ospitato ed è diventato, come ha detto lui stesso questa settimana: “Il primo polacco che è riuscito a ottenere asilo dai tempi del comunismo. Sono sicuro di essermi salvato la vita perché se fossi andato in prigione in Polonia, non avrei potuto più aspettarmi nessun futuro. Ero odiato dal governo”. Delle parole durissime per tutta la nazione che dal 2015, dopo la vittoria dei nazionalisti del PiS alle elezioni, vede la sua democrazia sempre più in pericolo. Il sito polacco di giornalismo investigativo Oko Press, tuttavia, occupandosi del caso, scrive che dal processo non sembra esserci nulla di strano, nessuna prova che Gawel sia stato trattato in modo ingiusto o che i giudici non si siano pronunciati in modo indipendente e non si sa nulla del fatto che il suo diritto alla difesa sia stato in qualche modo limitato. Eppure sono state proprio le recenti polemiche sugli attacchi alla magistratura polacca a convincere la Norvegia che Rafal Gawel potesse avere diritto d’asilo. Il caso resta ancora poco chiaro, ma è il sintomo forte che qualcosa ormai si è rotto in Polonia e le altre nazioni non si fidano più.  Se il processo a Gawel è stato ingiusto, il fatto è gravissimo. Se non lo è stato, ma la Norvegia ha ritenuto comunque che della giustizia polacca non ci si può fidare, lo è ugualmente. Ricostruire la fiducia in una democrazia in rovina, è complicato.

 

L’editto di Pechino. Il Museo di storia di Nantes aveva un progetto molto importante per questo ottobre: mettere in mostra una grande esibizione sulla storia di Gengis Khan e dell’impero mongolo. Tuttavia, questa mostra non ci sarà, perché Pechino ha cercato di censurarla e il direttore del museo, Bertrand Guillet, ha deciso che a queste condizioni e con queste ingerenze, non ci sarà più nessuna mostra. Soprattutto non ci sarà nella città “dove fu firmato l’editto di Nantes”. In Mongolia quest’estate ci sono state delle manifestazioni contro la Cina che vuole imporre il mandarino nel programma scolastico. Pechino ha inasprito la sua posizione nei confronti della minoranza mongola e quindi ha cercato di influenzare anche le decisioni a Nantes. Ha chiesto di rimuovere elementi linguistici: via Gengis Khan, via Impero e via anche mongolo. Poi  di “ Mongolia” ha proposto l’uso di “steppa della Cina settentrionale”. La mostra a Nantes era in collaborazione con l’Inner Mongolia Museum della città di Hohhot, che si trova in Cina, e quindi Pechino si è sentita libera di imporre il proprio racconto della storia. Nantes si è rifiutata, il tentativo della Cina di imporre la propria censura in una mostra francese si è scontrato con i valori europei, che sono antichi e devono rimanere forti. A Nantes, nel 1598, con l’editto si pose fine alle guerre di religione.

 

I francesi si sono arrabbiati tantissimo per una serie tv nuova, “Emily in Paris” (su Netflix), il produttore è lo stesso di ”Sex and the City”, e i toni e i colori e i vestiti hanno la stessa leggerezza. Emily, americana, arriva a Parigi per insegnare ai francesi a usare Instagram. Lei è entusiasta, tutto è bellissimo, Parigi le sembra profumatissima, buonissima (mangia un pain au chocolat e le sembra di impazzire), ma i francesi non ricambiano tutto questo entusiasmo. Anche la stampa francese si è indispettita, dice che ci son troppi cliché, che i parigini non sono antipatici, che non parlano solo di argomenti pesanti, che non è vero che “lavorano per vivere” e “non vivono per lavorare” come credono gli americani. Emily in Paris si è subito trasformata in una lotta tra culture, indignati di qui e indignatissimi di là. Ma tra tutte le battaglie che possiamo combattere, questa la finiamo così: i colori pastello vincono sempre sui permalosi.

 

(ha collaborato David Carretta)

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