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Trump, Barrett e la paranoia liberal del colpo di stato

Giuliano Ferrara

Esercitare le paranoie liberal sul golpe a venire del presidente americano fa perdere di vista il miracolo del liberalismo americano (Barrett compresa)

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Sono cominciate le audizioni senatoriali per il gradimento a Amy Coney Barrett, nominata da Trump alla Corte suprema degli Stati Uniti. Intorno alla nomina ci sarà battaglia elettorale, il che è già un nonsenso. D’altra parte la stessa maggioranza repubblicana del Senato che aveva contestato a Obama il potere di nominare un giudice supremo a nove mesi dalle elezioni presidenziali è ora pronta a ratificare la scelta del “suo” presidente a poche settimane da un voto analogo. Sarebbe in fondo strano che non ci sia baruffa, e di quelle dure. I democratici diranno che la Coney Barrett è stata scelta perché è di destra, perché è cattolica, perché è nota come il Giudice Dogma, perché è contro la sanità pubblica, contro l’aborto, a favore della dittatura del mercato, un giudice conservatore pronto a favorire Trump in una eventuale contesa legale intorno agli esiti del voto, come i due precedenti nominati Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh (maggioranza conservatrice sei a tre). Tutte cose vere e false. I repubblicani diranno che la Coney è stata scelta perché è una donna esemplare che lavora, che ha sette figli di cui un paio adottati e uno Down, che ha una formazione a prova di bomba, che non può essere discussa per la sua fede, che il suo costituzionalismo originalista è il riflesso di una grande tradizione giuridica americana, che la sua indipendenza rispetto a contese legali eventuali sulla presidenza e su altro è inattaccabile. Tutte cose vere e false.

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Sono cominciate le audizioni senatoriali per il gradimento a Amy Coney Barrett, nominata da Trump alla Corte suprema degli Stati Uniti. Intorno alla nomina ci sarà battaglia elettorale, il che è già un nonsenso. D’altra parte la stessa maggioranza repubblicana del Senato che aveva contestato a Obama il potere di nominare un giudice supremo a nove mesi dalle elezioni presidenziali è ora pronta a ratificare la scelta del “suo” presidente a poche settimane da un voto analogo. Sarebbe in fondo strano che non ci sia baruffa, e di quelle dure. I democratici diranno che la Coney Barrett è stata scelta perché è di destra, perché è cattolica, perché è nota come il Giudice Dogma, perché è contro la sanità pubblica, contro l’aborto, a favore della dittatura del mercato, un giudice conservatore pronto a favorire Trump in una eventuale contesa legale intorno agli esiti del voto, come i due precedenti nominati Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh (maggioranza conservatrice sei a tre). Tutte cose vere e false. I repubblicani diranno che la Coney è stata scelta perché è una donna esemplare che lavora, che ha sette figli di cui un paio adottati e uno Down, che ha una formazione a prova di bomba, che non può essere discussa per la sua fede, che il suo costituzionalismo originalista è il riflesso di una grande tradizione giuridica americana, che la sua indipendenza rispetto a contese legali eventuali sulla presidenza e su altro è inattaccabile. Tutte cose vere e false.

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A me la Coney Barrett piace perché l’America ha un tessuto inscalfibile di diritti ma non le può far male, specie ora che Trump è in procinto di perdere le elezioni e i repubblicani di esplodere in conseguenza, una Corte non soggiogata dai miti del politicamente, ideologicamente, religiosamente corretto. Io poi sono contro l’aborto come diritto di privacy indiscriminato, considero il matrimonio omosessuale e la politica delle adozioni omoparentali e l’ingegneria biologica staccata da ogni considerazione di elementare umanismo, di gran lunga tra le più gravi ferite alla famiglia al matrimonio e al meglio della cultura occidentale, sebbene decretino – queste norme e licenze – un dubbio trionfo dell’amore e – dicono – della pietà cristiana. E in cima a tutto sta la pretesa di abbattere la libertà di pensiero e di parola in nome della sacrosanta lotta al razzismo all’odio e a ogni forma di discriminazione. Ognuno ha a cuore i suoi monumenti, una sua idea della storia, una sua piccola o grande filosofia della vita civile. Quella del giudice Coney Barrett, si presume, è simile o anche solo lontanamente apparentabile alla mia e a quella di una notevole minoranza o di una esigua maggioranza, chissà, di cittadini americani.

       

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Ma c’è un motivo in più per cui si può pensare opportuno accettare l’eredità della nomination di Trump esattamente nello stesso momento in cui ci si augura che Trump vada finalmente fuori dai coglioni. Ne ha parlato un columnist conservatore cattolico, Ross Douthat, nel New York Times di ieri. Come tutti sanno, circola negli Stati Uniti, fomentata da dissennatezze dette dal presidente in carica, la teoria del complotto. Trump non accetterebbe il risultato, e in coerenza con le bestialità proferite a scopo intimidatorio fino a ora, impedirebbe la transizione con un colpo di stato autoritario. Douthat è della stessa opinione da me espressa di recente qui: non accadrà, è il bluff penoso di un giocatore debole, a suo modo. Dovessimo essere smentiti, sarebbe una tragedia di proporzioni incalcolabili, la fine della democrazia liberale americana, cioè la fine della democrazia senza aggiunte. Ma sono interessanti le ragioni che Douthat adduce per spiegare la sua convinzione, e ciò che aggiunge per suggerire ai democratici di comportarsi, questo lo dico io, come ha fatto il buon Biden durante il debate, ignorare le minacce e chiamare al voto, punto e basta. 

  

Per quattro anni, scrive Douthat, Trump ha mostrato segni di autoritarismo: ha assunto sicofanti e mezzi gangster nel suo staff, il discorso presidenziale è stato abusivo e mendace su una scala inusuale, le sue minacce per l’esito del voto non sono una novità, sono il suo solito modo di esprimersi dai tempi della paranoia e del birtherism più demagogico (l’accusa a Obama di essere non americano di nascita, dunque un presidente illegittimo). Ma qualcosa al suo profilo autoritario manca decisamente: non è popolare, manca di abilità politica, al contrario degli uomini forti che gli sarebbero pari nell’ambizione. Gli manca potere sui media, a parte il prime time della Fox, quasi tutti gli sono irrimediabilmente ostili, per non parlare dei militari e della Silicon Valley che lo disprezzano e della Corte suprema che gli ha già sentenziato contro, e vanno aggiunte Cia e Fbi con le quali non ha fatto che litigare. Quanto alla strada, la minaccia della destra estrema è reale, ma la piazza americana è nelle mani salde della sinistra estrema.

       

L’importante è la conclusione di Douthat, che è anche la motivazione in base alla quale si auspica un trattamento moderato e aperto della nomina, alla quale si ha diritto a opporsi, naturalmente, della Coney Barrett alla Corte suprema in sostituzione di Ruth Bader Ginsburg. Esercitare la paranoia liberal sul colpo di stato a venire di Trump vuol dire ribadire un certo modo che i liberal hanno tenuto nell’opposizione, considerandolo una specie di Putin o peggio un autoritario nella fase estrema della Germania di Weimar. In realtà in questi quattro anni il liberalismo americano, ideologia dominante che aveva perso per accidente e superbia la presidenza nel 2016, è divenuto una forza ancor più dominante nella società, con avanguardie zelanti che esercitano un vero monopolio nei piani alti della cultura e del costume. Se ora il liberalismo torna al potere presidenziale, cosa ormai data da tutti per probabile, è utile che non si imponga con discorsi chiusi, appunto zelanti, e di restaurazione di una sola ideologia di bandiera.

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