PUBBLICITÁ

Sorella Angela

Stefano Cingolani

Mai l’Italia ha amato così tanto la Germania della Merkel. Per capire il perché basta guardare dentro a una Volkswagen

PUBBLICITÁ

La Germania che abbiamo amata è tornata tra noi. Nel 1936 Benedetto Croce su La critica, la rivista da lui diretta, pubblica un articolo intitolato proprio “La Germania che abbiamo amata”. E’ il paese della poesia, della musica, della scienza, contrapposta al nazismo razzista e barbarico. Scrive il filosofo: “Per la ricchezza e l’importanza della sua opera intellettuale, la Germania assunse, nell’immaginazione dei cercatori di verità, degli studiosi e dei dotti dell’Ottocento, la figura che Italia e Roma avevano avuto e avevano ancora pei tedeschi: paese di pellegrinaggio ideale e anche effettuale, sicché molti allora la visitarono e andarono alle sue università”. Sono parole dimenticate, anzi sepolte dal difficile, talvolta impossibile rapporto degli ultimi decenni prima tra Roma e Bonn poi tra Roma e Berlino. A lungo ha fatto scuola il sarcastico calembour di Giulio Andreotti: “Amiamo talmente la Germania che ne vogliamo due”, perché non solo lui, ma la politica italiana nel suo insieme era contraria al ricongiungimento, così come la Francia, guidata allora da François Mitterrand. Eppure a trent’anni esatti dalla riunificazione, arriva il momento di dare a Croce un altro riconoscimento postumo, perché molto sta cambiando e nel profondo. Altro che alleati, amici, anzi fratelli! Italiani e tedeschi hanno trovato un’affinità elettiva che farebbe gioire don Benedetto.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La Germania che abbiamo amata è tornata tra noi. Nel 1936 Benedetto Croce su La critica, la rivista da lui diretta, pubblica un articolo intitolato proprio “La Germania che abbiamo amata”. E’ il paese della poesia, della musica, della scienza, contrapposta al nazismo razzista e barbarico. Scrive il filosofo: “Per la ricchezza e l’importanza della sua opera intellettuale, la Germania assunse, nell’immaginazione dei cercatori di verità, degli studiosi e dei dotti dell’Ottocento, la figura che Italia e Roma avevano avuto e avevano ancora pei tedeschi: paese di pellegrinaggio ideale e anche effettuale, sicché molti allora la visitarono e andarono alle sue università”. Sono parole dimenticate, anzi sepolte dal difficile, talvolta impossibile rapporto degli ultimi decenni prima tra Roma e Bonn poi tra Roma e Berlino. A lungo ha fatto scuola il sarcastico calembour di Giulio Andreotti: “Amiamo talmente la Germania che ne vogliamo due”, perché non solo lui, ma la politica italiana nel suo insieme era contraria al ricongiungimento, così come la Francia, guidata allora da François Mitterrand. Eppure a trent’anni esatti dalla riunificazione, arriva il momento di dare a Croce un altro riconoscimento postumo, perché molto sta cambiando e nel profondo. Altro che alleati, amici, anzi fratelli! Italiani e tedeschi hanno trovato un’affinità elettiva che farebbe gioire don Benedetto.

PUBBLICITÁ

 

La nuova legge elettorale? Adottiamo quella tedesca e sorge già un nomignolo che diventa vezzo mediatico: il germanicum, un proporzionale con sbarramento del 4 o 5 per cento. Il bicameralismo perfetto e perverso? Trasformiamo il Senato in una camera delle regioni, come il Bundesrat. Le nuove tasse? Un’aliquota flessibile, come in Germania. E non solo. Ursula von der Leyen? Una vera amica che parla anche un po’ di italiano. Angela Merkel? Di più, come una sorella, sì proprio lei. Con la sua dimostrata capacità di gestire la pandemia meglio degli altri è diventata un modello anche per chi  non la poteva sopportare. Ormai siamo al di là della diplomazia o delle buone relazioni tra vicini: l’Italia si sta germanizzando anche perché la Germania è stata europeizzata da Schewster Angela. Ma cosa c’è dietro e quando è maturata la svolta?

PUBBLICITÁ

Non si può dire sia stato un colpo di fulmine. La Germania guglielmina, o meglio bismarckiana, aveva conquistato l’ammirazione ancor prima che Francesco Crispi gettasse il paese nella Triplice Alleanza. La monarchia sabauda vedeva nella Prussia la proiezione del Piemonte, due piccoli stati guerrieri con una forte missione nazionale. Tra il 1876 e il 1877 la ex imperatrice di Francia Eugenia de Montijo moglie di Napoleone III, esule in Inghilterra, prese dimora fissa a Firenze, a Villa Oppenheim, vicino al giardino di Boboli. A Milano le rese omaggio il principe Umberto e la principessa Margherita di Savoia, mentre a Palazzo Pitti fu ricevuta da Vittorio Emanuele II. La visita non fu un successo perché Eugenia rimase ammutolita di fronte alla scrivania del re dove erano presenti foto di tutti gli Hohenzollern e nessuna di suo marito. Quando Vittorio Emanuele le chiese se fosse stupita di ciò che vedeva, Eugenia gli rispose: “Mi stupisco di ciò che non vedo”.

 

Il primo boom economico italiano alla fine dell’Ottocento è frutto anche dei capitali tedeschi, dalle banche all’industria pesante, ma la Triplice venne abbandonata con un nuovo giro di valzer. Poi arrivarono Benito Mussolini e Adolf Hitler sulla cui relazione si è scritto tutto o quasi (aspettando il terzo volume di Antonio Scurati), la Seconda guerra mondiale, l’8 settembre, l’occupazione nazista, la guerra civile. I due paesi sconfitti ebbero un destino per molti versi parallelo anche negli anni Cinquanta e Sessanta, con Alcide De Gasperi (che aveva studiato a Vienna) e Konrad Adenauer, i partiti democristiani, il miracolo economico e il Wirtschaftswunder, la collocazione geopolitica di frontiera (a est e a sud), l’alleanza di ferro con gli Stati Uniti e la presenza militare americana, ma nello stesso tempo la Ostpolitik: Willy Brandt e Giulio Andreotti, Vittorio Valletta e la Fiat a Togliattigrad.  Convergenze parallele, le avrebbe chiamate Aldo Moro, che s’interrompono negli anni Settanta con la prima grande crisi, quella petrolifera. Da allora si moltiplicano tensioni e conflitti nella gestione dell’economia e soprattutto della moneta, con il marco che mette sistematicamente in difficoltà la lira fino al tracollo del 1992. La nascita dell’euro è segnata da una reciproca sfiducia che non è stata mai superata negli ultimi trent’anni. Le crisi successive l’hanno aggravata, ma l’origine è più lontana e più profonda, tanto che la protesta contro “l’egemonia tedesca” attraversa sia pure in modi e forme diverse la destra e la sinistra.

 

C’è da tempo un filone di pensiero, per lo più progressista, secondo il quale il rilancio dell’Unione europea passa attraverso la sconfitta delle politiche che la Germania ha perseguito dalla nascita dell’euro e soprattutto nell’ultimo decennio, quello detto dell’austerità. Superare l’austerità, così, coincide con il superare la germanizzazione. Di qui passa quella che Francesco Saraceno ha chiamato “la riconquista” nel libro appena uscito per i tipi della Luiss University Press (“La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela”). Docente di Macroeconomia a Sciences Po e alla Luiss, Saraceno lamenta “la solitudine del riformista”, evocando Federico Caffè. Rimane solo chi critica l’Unione europea e soprattutto la moneta unica così come è stata costruita, perché vorrebbe una unione più forte e una valuta migliore. Per questo, una volta riconosciuto che il federalismo resta impossibile, almeno in questa fase storica, l’autore va alla ricerca di quelli che chiama “surrogati”. La pars destruens del suo lavoro si può riassumere in una doppia critica: al neoliberismo e alla Germania,  anche se la moderna “ideologia tedesca” non ha mai rinnegato “l’economia sociale di mercato” e il ruolo molto vasto e attivo dello stato sia sul piano sociale sia su quello economico, con un intervento diretto spesso anche ai vertici delle banche e delle grandi industrie. Ma “il Nuovo Consenso di matrice anglosassone (cioè il modello del Fondo monetario, ndr) e l’ordoliberalismo (in pratica l’ortodossia economica tedesca nemica dei deficit e dei debiti, ossessionata dall’inflazione, ndr) si sono saldati nel processo di costruzione europeo pur partendo da presupposti diversi”. Questa micidiale miscela ha imposto le strette fiscali, indebolito la Ue, ampliato la frattura interna tra i paesi e messo a repentaglio la stessa tenuta dell’euro, salvato nel 2012 grazie alla svolta impressa alla politica monetaria da Mario Draghi. 

PUBBLICITÁ

PUBBLICITÁ

Saraceno condivide la critiche, diffuse soprattutto a destra ma non solo, secondo le quali fin dalla sua costruzione la moneta unica è stata di grande vantaggio per la Germania, arrivata in seria crisi al cambio della valuta. Nel 2001 era considerata “la malata d’Europa”, invece “con il marco perdo io, con l’euro perdi tu”, scrive polemicamente l’economista il quale svaluta l’importanza delle riforme strutturali come quella del mercato del lavoro nel 2003-2005 e quella della scuola, molto importante per il nuovo capitale umano, così come l’importazione di manodopera qualificata (ricordiamo i centomila ingegneri indiani). “La rinascita tedesca è frutto principalmente di una serie di circostanze esterne”, secondo Saraceno, è dovuta soprattutto alle esportazioni e a una riorganizzazione produttiva che ha sfruttato l’espansione verso l’est europeo prima e l’estremo oriente poi. Ma come mai la Germania ha saputo utilizzare la globalizzazione meglio della Francia? Un altro interrogativo riguarda proprio l’austerità. Quale indicatore può dirci se effettivamente ha colpito l’Unione europea? Non la spesa pubblica sul prodotto lordo perché dal 2000 al 2018 è aumentata nella Ue; anche in Germania, dove è salita dal 41,9 a 44,6 per cento del pil, e in Italia (dal 39,6 al 48,4 per cento). Quanto alla spesa sociale, in media è passata dal 38 al 41 per cento del totale. E non è solo effetto della doppia crisi, quella del 2008 e del 2011, perché la curva è cresciuta anche prima. L’autore si unisce al coro delle critiche al gigantesco surplus commerciale tedesco e alla ostinata ricerca del pareggio di bilancio abbandonato solo dopo la pandemia. Anche l’Italia ha avuto in questi anni un consistente sovrappiù nella bilancia con l’estero grazie a un export in aumento dentro e fuori l’area euro, con conti pubblici in attivo al netto dei pagamenti degli interessi, eppure la crescita tedesca e quella italiana divergono in modo consistente. Quindi la differenza più che nelle politiche fiscali va forse cercata nella produttività, o se vogliamo proprio in quella riorganizzazione produttiva che Saraceno mette giustamente in luce. 

 

PUBBLICITÁ

Tutto va bene madama la marchesa? Si chiede l’autore. Certo che no. Non andava bene prima e non va bene adesso, nonostante i passi avanti compiuti in risposta alla pandemia soprattutto con il varo del fondo per la ripresa primo passo per una condivisione degli oneri. La battaglia è anche culturale, non riguarda solo la  politica economica. E quando è in ballo la Kultur, la Germania torna per forza di cose al centro di ogni discorso. In una intervista al Financial Times pubblicata a gennaio, prima che dilagasse il Covid-19, Angela Merkel dichiarava che per lei l’Unione europea è “una assicurazione sulla vita. La Germania è troppo piccola per esercitare da sola una influenza geopolitica, ecco perché abbiamo bisogno di usare tutti i benefici del mercato unico”. Prima il problema era superare la divisione imposta dalla Guerra fredda, oggi è non farsi schiacciare dalla nuova Guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. Ciò riguarda l’intera Europa, nonostante le fantasticherie post-coloniali della Francia o le stesse nostalgie post-imperiali della Gran Bretagna. Il campo da gioco è cambiato e con esso anche le regole del gioco. Angela Merkel mette insieme alcune cifre evidenti. La Germania nel 1990 aveva il 6,8 per cento del pil mondiale, la Cina l’1,7 e gli Usa il 25,4 per cento.  Oggi l’economia tedesca produce il 4,5 per cento del pil globale, la Cina il 16,3 e gli Stati Uniti rimangono nettamente in testa con il 24,8 per cento. Forse è proprio la consapevolezza di questa debolezza a spiegare la svolta di Berlino, la nuova spinta europeista impressa con la recessione attuale, la più grave attraversata da un secolo a questa parte. Sarebbe stato meglio se il cambiamento fosse avvenuto in circostanze diverse, ma sono proprio le crisi a spezzare lo status quo e preparare nuovi equilibri, quando ciò non avviene arriva la catastrofe. 

 

L’Eurozona riformata sostiene Saraceno è quella in cui “lo Stato recupererebbe un ruolo nel regolare l’economia e nel contribuire con politiche industriali mirate, a mettere i mercati in condizione di creare innovazione e ricchezza”. Parole che quasi coincidono con le risposte di Schewster Angela a Lionel Barber (allora direttore del Financial Times) che è e fa l’anglosassone, criticando il modello tedesco perché c’è troppo stato e poco mercato. La Cancelliera sottoscriverebbe anche il monito a non cercare scorciatoie costringendo le banche centrali a stampare moneta senza limiti e l’invito a “creare un ecosistema favorevole alla crescita di lungo periodo”. E’ la Germania ad aver rinunciato al nucleare investendo fortemente nelle energie alternative (anche se resta una grande utilizzatrice del carbone), è lei leader nell’agricoltura biologica, è il governo di Berlino che utilizza più di altri la sua banca di sistema, la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW), per sostenere il Mittelstand, la classe media dell’industria che anche in Germania come in Italia rappresenta il nerbo del sistema. Nel corso degli anni i due maggiori paesi manifatturieri d’Europa hanno stretto un legame strutturale: se smontiamo una Volkswagen troviamo sei pezzi su dieci made in Italy. E la consapevolezza crescente di questa simbiosi economica ha favorito la nuova fratellanza politica alla quale non è estranea la resistenza all’onda nazional-populista.

 

Il modello tedesco è stato adattato, ma non è cambiato nella sostanza dai tempi di Ludwig Ehrard, che fumava più sigaroni dello stesso Winston Churchill. La solidità è la sua forza, la rigidità resta la sua debolezza (il basso numero di start-up è una spia eloquente). Il pericolo non è la germanizzazione, ma la lentezza europea nel cogliere l’innovazione. E questo lo si vede anche nella crisi odierna. Blocchiamo pure Huawei sul 5G, per far male alla Cina e assecondare gli Usa, ma non abbiamo un campione europeo che possa rivaleggiare. Lo stesso può dirsi persino sui vaccini, nonostante l’industria farmaceutica abbia ottime imprese. L’Unione europea non ha tagliato lo stato sociale, ha tagliato gli investimenti in ricerca e sviluppo; non è stata succube della turbofinanza, ha favorito le grandi banche ai fondi di investimento e al venture capital. Questo anche per colpa della Germania, come riconosce la stessa Angela Merkel.

 

Lontano risuona l’eco del complotto ordito per far cadere Silvio Berlusconi nel 2011. Non ne parla più nemmeno il Cavaliere, che si è scusato da tempo per la sua battutaccia sulla “culona inchiavabile”. La svolta di Draghi non sarebbe stata possibile se la Cancelliera avesse seguito la linea di Jens Weidman il presidente della Bundesbank che era stato suo consigliere. Rimangono divergenze anche sostanziali tra gli interessi nazionali, oltre a ruggini e incomprensioni. Ma dove ci porta la ritrovata intesa che sfida i reciproci stereotipi? Ursula von der Leyen ha parlato di una “Europa geopolitica”, Emmanuel Macron di “sovranità europea”. Per il momento siamo destinati a cercare “surrogati”, ad andare avanti come sempre a piccoli passi. Questa volta, tuttavia, debbono essere passi politici, basta con l’economicismo, lo dice un economista come Ignazio Visco governatore della Banca d’Italia. Per Sorella Angela “la priorità resta il rafforzamento economico dell’Europa”. Ma proprio la pandemia ha dimostrato che la rinascita o “riconquista” dell’Unione può avvenire solo grazie a una maturazione della coscienza collettiva, dei popoli e delle élite, allo stesso modo e nello stesso tempo. E che cos’altro è allora la politica?

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ