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Il voto che cambierà l’America

Joshua Mitchell

Non solo la Casa Bianca, a novembre è in gioco la visione del mondo post Guerra fredda. I populismi di destra e sinistra sono pronti a dare il colpo fatale ai due grandi partiti

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Le elezioni presidenziali sono ormai dietro l’angolo e l’ostilità reciproca tra i due partiti ha raggiunto il massimo grado. Eppure, sotto la superficie di questo incivile ma prevedibile rituale che ha luogo ogni quattro anni, si intravede che ognuno dei due partiti sta attraversando una fase di riconfigurazione che stabilirà i termini del confronto per gli anni, se non per i decenni, a venire. Democratici e repubblicani non sono in guerra solo gli uni contro gli altri, ma anche all’interno dei propri partiti. Al di là dei meschini battibecchi in corso, la più profonda e angosciante questione che si pone per entrambi è se mantenere o abbandonare del tutto la visione del mondo coltivata a partire dalla fine della Guerra fredda.

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Le elezioni presidenziali sono ormai dietro l’angolo e l’ostilità reciproca tra i due partiti ha raggiunto il massimo grado. Eppure, sotto la superficie di questo incivile ma prevedibile rituale che ha luogo ogni quattro anni, si intravede che ognuno dei due partiti sta attraversando una fase di riconfigurazione che stabilirà i termini del confronto per gli anni, se non per i decenni, a venire. Democratici e repubblicani non sono in guerra solo gli uni contro gli altri, ma anche all’interno dei propri partiti. Al di là dei meschini battibecchi in corso, la più profonda e angosciante questione che si pone per entrambi è se mantenere o abbandonare del tutto la visione del mondo coltivata a partire dalla fine della Guerra fredda.

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Prendiamo il Partito democratico. Come stanno davvero le cose dietro l’apparente riappacificazione tra la fazione di Joe Biden e quella di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez? Biden è da quasi cinquant’anni un comprimario fisso nella vita del partito. Pur senza aver mai legato il proprio nome ad alcuna iniziativa legislativa o ad alcuna idea specifica, è asceso nella gerarchia interna fino a essere scelto da Barack Obama nel 2008-2016 come vicepresidente. Questa scelta fu dovuta, in gran parte, al fatto che Obama era un outsider rispetto al partito e aveva bisogno di una personalità che sapesse trattare con gli altri capi democratici e fargli ottenere quel che voleva. Nel 2016, invece, Obama non sostenne la sua candidatura alla presidenza perché era ancora in debito con la dinastia dei Clinton. Ed eccoci al 2020. Biden, maschio bianco in un partito che afferma di essere disgustato dalla whiteness, dalla “mascolinità tossica” e dal “patriarcato”, deve ora saldare a sua volta i propri debiti se vuole guadagnarsi il sostegno della sinistra populista, un’ala numerosa dei democratici che è sul punto di rivoltarsi apertamente contro il partito. Attempato esponente dell’establishment democratico, Biden è praticamente l’ultimo esemplare della sua specie.

 

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La più grande debolezza di un sistema bipartitico è l’incapacità di adeguarsi gradualmente a un mondo che cambia. Le voci dissenzienti vengono soffocate allo scopo di consolidare il potere e le idee dominanti.

 

Nel Partito democratico, il movimento della sinistra populista cominciò a formarsi all’indomani della grande crisi finanziaria del 2007-2008. Il suo primo atto fu la protesta di “Occupy Wall Street” e il suo primo obiettivo polemico la dottrina del capitalismo globale cui il Partito democratico ha aderito a partire dalla fine della Guerra fredda: in altre parole, l’ordine mondiale neoliberale. La grande crisi, com’era prevedibile, ha ulteriormente arricchito chi era già ricco e peggiorato la situazione di chi era già in difficoltà. La risposta dei populisti di sinistra è stata chiedere un maggiore intervento dello stato in economia, quindi maggiore tassazione dei redditi più alti, istruzione e sanità gratuite, nuove misure ambientali, e in generale tutto ciò che poteva sfidare il capitalismo finanziario su cui è imperniato l’ordine mondiale neoliberale. Bernie Sanders, l’eccentrico senatore del Vermont che sosteneva queste cause da decenni, si ritrovò all’improvviso proiettato sulla scena politica nazionale come portavoce dei giovani sostenitori dell’ala populista di sinistra del Partito democratico. Da allora è iniziato uno scontro epocale tra quest’ala emergente della sinistra populista e l’establishment neoliberale un tempo dominante di Joe Biden, Hillary Clinton e Nancy Pelosi. Con l’avvicinarsi del giorno delle elezioni la questione che si pone è la seguente: se un numero sufficiente di elettori della sinistra populista del Partito democratico, risentiti per come la fazione neoliberale li tratta da più di dodici anni, resterà a casa, Trump con ogni probabilità vincerà per la seconda volta. Se questo accade, gli esponenti del neoliberalismo all’interno del Partito democratico non avranno più in futuro l’occasione di riaffermare le proprie idee e il proprio potere. Sarà la fine di un progetto politico trentennale.

 

  

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E’ importante ricordare che quello che sta accadendo oggi nel Partito democratico è già accaduto nel Partito repubblicano nel 2012.

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Anche qui la causa fu la crisi finanziaria del 2007-2008: se questa a sinistra ha prodotto “Occupy Wall Street”, a destra ha prodotto il “Tea Party”. Si trattò di una mobilitazione tanto energica da portare i repubblicani a vincere, seppur di misura, le elezioni di midterm del 2010. I populisti di destra si aspettavano che, in considerazione dei voti da loro portati in questa occasione, il partito avrebbe dato loro ascolto al momento di decidere il candidato per le elezioni presidenziali di due anni dopo. Ma furono ignorati, quando non umiliati. Com’era prevedibile, un numero sufficiente di elettori dell’ala populista della destra restò a casa il giorno delle elezioni, il candidato repubblicano, Mitt Romney, fu sconfitto e con lui uscì di scena il movimento neoconservatore. Il Partito democratico si trova oggi in una situazione analoga. L’ideologia che lo guida è vicina a esaurirsi, ma i neoliberali ancora al comando non sono pronti a mettere il partito nelle mani di una fazione avversaria senza i voti della quale, tuttavia, essi non potranno vincere le prossime elezioni. Il populismo di sinistra di “Occupy Wall Street” ha prodotto una nuova specie di democratici, così come il populismo di destra del “Tea Party” ha prodotto una nuova specie di repubblicani – i repubblicani trumpiani. Cosa vogliono questi nuovi repubblicani? Il gruppo che forse meglio rappresenta questo nuovo pensiero politico è il movimento del “National Conservatism”, che si allontana dalla precedente ortodossia repubblicana sotto due aspetti decisivi. In primo luogo, essi rifiutano l’assunto, risalente alla presidenza Reagan, che il libero mercato e l’efficienza economica debbano prevalere su qualsiasi altra preoccupazione. L’economia di mercato e il commercio internazionale sono due cose meravigliose, ma non quando producono eccessive disuguaglianze economiche. L’importanza di questa svolta non può essere sottolineata abbastanza. In secondo luogo, rifiutano l’idea del neoconservatorismo, affermatosi con la presidenza di G. W. Bush, secondo cui l’America deve sacrificare i propri uomini e le proprie risorse per imporre la democrazia alle altre nazioni. Una svolta, anche questa, di enorme significato rispetto alla precedente ortodossia repubblicana. La politica “America First” dell’Amministrazione Trump può suonare isolazionista; ma è piuttosto l’affermazione dell’idea che gli Stati Uniti dovrebbero farsi coinvolgere negli affari delle altre nazioni molto meno frequentemente di quanto hanno fatto nel passato recente.

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Saranno questi nuovi orientamenti, figli del populismo di destra, a vincere le elezioni del 2020? Non è possibile dirlo.

 

Se il presidente Trump non verrà rieletto, i membri del Partito repubblicano che praticano il culto del libero mercato e dell’esportazione della democrazia cercheranno di rivendicare per sé la guida del partito. Molti repubblicani hanno riserve sulla condotta di Trump, ma nonostante tutto a novembre lo voteranno per paura di quello che accadrebbe al partito nel caso della sua sconfitta. Non voteranno solo contro i democratici, ma anche contro una fazione dei repubblicani che è ancora affamata di potere e che non può rassegnarsi al fatto che il partito è stato loro tolto di mano. Cosa vogliono, invece, i nuovi democratici? Come già detto, sono radicalmente critici del capitalismo finanziario. Parlano di “socialismo” senza davvero sapere cosa sia, e sognano un mondo libero da vincoli finanziari. Potremmo dire che, avendo visto la vita dei super-ricchi svolgersi libera da vincoli economici, sognano un mondo in cui tutti vivano allo stesso modo. Ogni singola politica sociale da loro promossa costa più di quanto l’intera economia sia in grado di permettersi. Eppure insistono. L’economia che hanno in mente è l’economia della “giustizia sociale”. Se questa si scontra con i limiti posti dall’economia reale, non è un loro problema, perché l’economia reale è una creazione dei capitalisti, dei colonizzatori, dei bianchi, del patriarcato. L’arco della storia tende, secondo loro, verso l’economia della giustizia sociale, dove i costi non esistono. E’ necessario riflettere a fondo su ciò che anima questi populisti di sinistra. Secondo alcuni commentatori conservatori in America il socialismo è risuscitato dalla tomba, ma in realtà ciò che abbiamo di fronte implica ben più del disegno di rimpiazzare il capitalismo – o, più precisamente, il capitalismo finanziario – con il socialismo. I populisti di sinistra affermano che ci sono debiti storici e che è arrivato il momento di pagarli: per loro il mondo si divide tra coloro che sono in debito e coloro che hanno diritto al risarcimento. Se la tua nazione ha permesso la schiavitù, se ha preso parte al colonialismo, se la sua storia è sporca del sangue della guerra, allora tu e i tuoi siete in debito verso le sue vittime innocenti. In questa contabilità dei torti e dei debiti non c’è posto per il perdono, per il pentimento e per la misericordia. Tu devi pagare il debito, e l’unico modo di farlo è rinunciare alla causa prima dell’ingiustizia, ovvero alla tua famiglia, alla tua religione e alla tua nazione. L’obiettivo dei populisti di sinistra americani, e anche di quelli europei, è niente di meno che quello di bilanciare i conti di tutte le ingiustizie perpetrate “dall’occidente”. Il lettore attento avrà notato il paradosso: da un lato i populisti di sinistra vogliono vivere in mondo senza costi; dall’altro vogliono raccogliere gli interessi del debito che “l’occidente” ha col resto del mondo e che non finirà mai di ripagare. Sarebbe un errore sottovalutare la forza del populismo di sinistra, che in ultima analisi deriva dal senso di colpa occidentale. Ho il sospetto che i più avveduti tra i membri della fazione neoliberale del Partito democratico comprendano la minaccia posta da quest’ala radicale, e stiano cercando di moderarla. Ma dal momento che, costruendo un sistema di capitalismo finanziario da cui solo pochi hanno tratto benefici, si sono fatti scappare di mano le redini, è difficile compatirli. Nel breve termine, probabilmente, il futuro del partito apparterrà al populismo di sinistra. Così, alle elezioni del 2020 si fronteggiano un populismo di destra sempre più saldamente insediato nel Partito repubblicano, con a capo l’indisciplinato e sfacciato Donald Trump, e un vacillante establishment neoliberale nel Partito democratico, solo formalmente posto sotto la guida dell’attempato e vacuo Joe Biden. Se vince Trump, il libero mercato di Reagan e il neoconservatorismo di Bush perderanno definitivamente la battaglia interna al Partito repubblicano. Se vince Biden, i neoliberali che egli rappresenta crederanno di poter mantenere la loro presa sul Partito democratico e di poter domare i populisti di sinistra al suo interno. Ma questi ultimi hanno altri piani. (traduzione di Giuseppe Perconte Licatese) L’autore è docente di Political Theory alla Georgetown University di Washington. Il suo ambito di ricerca privilegiato riguarda i legami tra il pensiero politico e la teologia in occidente.

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