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Verso le presidenziali

Louis Dejoy, il trumpiano alla guida delle poste americane

Luciana Grosso

Nell'anno del Covid, l'affidabilità del voto per corrispondenza sarà vitale. Ecco perché qualcuno è preoccupato per la possibile influenza del presidente

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Non si dorme mai tranquilli con queste elezioni americane del 2020. I possibili pasticci spuntano come funghi. Non appena si finisce di preoccuparsi per uno, ecco che subito ne spunta un altro. Al problema (perché è un problema, per tutti, repubblicani inclusi) della possibile vittoria di Trump (secondo FiveThirtyEight ad oggi ha il 28% di possibilità di venire rieletto, più di una su quattro), se ne sommano a bizzeffe, da quello delle possibili interferenza russe (o cinesi o vattelappesca) a quello della fragilità di Biden, da quello malpancisti della fronda dei #BernieBros alla pandemia che chissà cosa farà, da quello delle rivolte di BLM alla disinformazione sui social. Tutto si mescola in un grande frullatore da cui esce il più trumpiano dei risultati, ossia il caos, l’incertezza, la rabbia, l’incomprensione: le macerie di Babele dieci minuti dopo l’Ira di Dio.

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Non si dorme mai tranquilli con queste elezioni americane del 2020. I possibili pasticci spuntano come funghi. Non appena si finisce di preoccuparsi per uno, ecco che subito ne spunta un altro. Al problema (perché è un problema, per tutti, repubblicani inclusi) della possibile vittoria di Trump (secondo FiveThirtyEight ad oggi ha il 28% di possibilità di venire rieletto, più di una su quattro), se ne sommano a bizzeffe, da quello delle possibili interferenza russe (o cinesi o vattelappesca) a quello della fragilità di Biden, da quello malpancisti della fronda dei #BernieBros alla pandemia che chissà cosa farà, da quello delle rivolte di BLM alla disinformazione sui social. Tutto si mescola in un grande frullatore da cui esce il più trumpiano dei risultati, ossia il caos, l’incertezza, la rabbia, l’incomprensione: le macerie di Babele dieci minuti dopo l’Ira di Dio.

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A questo brodo di cultura del casino si aggiunge poi anche il grande tema delle poste. Che si articola in due modo. Il primo: le poste in america hanno enormi problemi di funzionamento e finanziari. Il che, per un Paese di enormi dimensioni e case isolate come sono gli Stati Uniti è un guaio serio: gli americani comprano tutto per posta, medicinali inclusi, mandano pagamenti (anche in contanti), avvisi, contratti. Oltre che ovvio, le schede elettorali. 

E proprio i voti via posta sono il  secondo modo in cui si articola il grande tema Poste: c’è il CoVid, e un sacco di gente (soprattutto democratici e soprattutto neri) voterà per corrispondenza non volendosi recare ai seggi. Per questo, quest’anno più che mai, l’affidabilità del voto per corrispondenza è vitale. Per questo, quest’anno più che mai, chi controlla le poste, i tempi di consegna delle schede, la correttezza degli indirizzi, la precisione e la coscienziosità nel non smarrire nessun voto, in qualche modo, controlla il voto.  E, Donald Trump, è il tipo di persona a cui piace controllare il voto, specie quello dei democratici.  Per questo il fatto che lo scorso maggio abbia messo a capo del servizio postale un uomo di sua grande fiducia, Louis DeJoy, ha destato parecchio allarme.

La storia di DeJoy è molto americana: nato povero, figlio di un camionista di New York, con il tempo, imprendi oggi imprendi domani, è riuscito prima a rilevare l’azienda di trasporti di suo padre e, poi, a metterne in piedi una sua, la New Breed Logistics che in breve tempo è diventata un colosso, tanto che, nel 2014, DeJoy è riuscito a venderla alla concorrenza per la bellezza di 650 milioni di dollari.
Una storia di successo, non fosse che la sua azienda è stata citata in giudizio (e condannata) per una brutta storia di molestie sessuali e per pratiche antisindacali.

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Alla sua storia di imprenditore, negli anni, DeJoy ha affiancato, dal 2006, quella di attivista del partito repubblicano, tanto che nel 2016 ha donato 1,2 milioni alle casse della campagna elettorale del presidente Trump. Forte di questo curriculum di imprenditore della logistica e di trumpiano di ferro, DeJoy è stato messo a capo del servizio postale che da qui a novembre dovrà imparzialmente gestire il voto.

La sua nomina, come è facile intuire, è piaciuta sin da subito poco o nulla ai sindacati e ai democratici che, già a maggio, tuonavano preventivamente circa la sua inadeguatezza e parzialità. Voci e sospetti, quelli dei dem, che hanno preso corpo quando, pochi giorni dopo il suo insediamento, DeJoy ha deciso d’imperio l'eliminazione degli straordinari dei dipendenti (che in periodo di voto postale sono vitali) e la rimozione delle macchine per lo smistamento della posta (che accelerano, evidentemente, i tempi). Decisioni che, almeno per ora hanno portato ad accumularsi enormi ritardi nelle consegne, anche delle schede elettorali, in un modo così evidente che lo scorso 17 agosto, il Guardian ha pubblicato un editoriale dal titolo “Il nuovo capo dell'ufficio postale di Trump sta cercando di truccare le elezioni?”. Non si sa. Lo scopriremo solo vivendo. Nel frattempo però quel che appare assai probabile è che DeJoy abbia già truccato la sua ascesa all’olimpo dei donors del partito repubblicano. Secondo un ben documentato report del Washington Post (giornale che - va detto- detesta DeJoy, sia perché è una voce democratica, sia perché di proprietà di Jeff Bezos, che delle poste americane è il principale cliente) sembrerebbe che DeJoy abbia obbligato i dipendenti della sua ex azienda a fare donazioni al partito repubblicano, restituendo poi loro la somma versata sotto forma di bonus di produzione. In questo modo i repubblicani incassavano, DeJoy faceva bella figura con il partito, i suoi dipendenti si ritrovavano con un extra in busta paga. Un sistema in cui vincevano tutti (tranne il fisco). E ‘vincere’ alla fine, si sa, è l’unica cosa che conta.

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