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Accerchiati dal mal d’Africa

Stefano Cingolani

Il colpo di stato nel Mali evoca antichi spettri. Un’infezione rischia di espandersi nella regione del Maghreb prima di sbarcare in Italia e in Europa. Non è il Covid, ma la sincope dello sviluppo e della democrazia

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Leone l’Africano, nato al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi e battezzato Joannes Leo de Medicis in onore al Papa Leone X, scriveva nel 1526: “A Timbuctù c’è un grande stuolo di dottori, giudici, preti e altri uomini di cultura che sono mantenuti riccamente dalla generosità del re”. Narrava ancora il singolare geografo ed esploratore berbero: “Qui vengono portati diversi manoscritti e libri scritti da fuori della barbaria, che sono venduti a un prezzo più alto di qualsiasi altro bene”. Oggi, invece, nell’antica città del Mali c’è la culla di quello che potremmo chiamare il virus africano: non il Sars-Cov2, bensì il tramonto delle grandi speranze. Il vero male che salpa dalla sponda sud del Mediterraneo verso l’Italia e verso l’Europa, l’infezione che rischia di espandersi in Africa prima di sbarcare a Lampedusa, è la sincope dello sviluppo e della democrazia. Lo dimostra il colpo di stato nel paese dei Tuareg, che evoca antichi spettri mai esorcizzati in buona parte del continente; un golpe maturato sotto il naso dei 30 mila soldati dispiegati da Francia, Italia, Germania e dall’Onu. Torniamo così alla leggendaria città nel deserto diventata, insieme ad Agadez in Niger, la piattaforma per raggiungere il Nord Africa, il Marocco, l’Algeria, la Libia, la Tunisia, e l’Italia. Dobbiamo renderci conto che il Sahara, un tempo “spazio connettivo” per l’emisfero settentrionale del continente, è ormai “una frontiera dell’Europa”, sostiene Luca Raineri della Scuola superiore di Sant’Anna. Ma l’Europa, come si è visto, conta sempre meno.

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Leone l’Africano, nato al-Hasan ibn Muhammad al-Wazzan al-Fasi e battezzato Joannes Leo de Medicis in onore al Papa Leone X, scriveva nel 1526: “A Timbuctù c’è un grande stuolo di dottori, giudici, preti e altri uomini di cultura che sono mantenuti riccamente dalla generosità del re”. Narrava ancora il singolare geografo ed esploratore berbero: “Qui vengono portati diversi manoscritti e libri scritti da fuori della barbaria, che sono venduti a un prezzo più alto di qualsiasi altro bene”. Oggi, invece, nell’antica città del Mali c’è la culla di quello che potremmo chiamare il virus africano: non il Sars-Cov2, bensì il tramonto delle grandi speranze. Il vero male che salpa dalla sponda sud del Mediterraneo verso l’Italia e verso l’Europa, l’infezione che rischia di espandersi in Africa prima di sbarcare a Lampedusa, è la sincope dello sviluppo e della democrazia. Lo dimostra il colpo di stato nel paese dei Tuareg, che evoca antichi spettri mai esorcizzati in buona parte del continente; un golpe maturato sotto il naso dei 30 mila soldati dispiegati da Francia, Italia, Germania e dall’Onu. Torniamo così alla leggendaria città nel deserto diventata, insieme ad Agadez in Niger, la piattaforma per raggiungere il Nord Africa, il Marocco, l’Algeria, la Libia, la Tunisia, e l’Italia. Dobbiamo renderci conto che il Sahara, un tempo “spazio connettivo” per l’emisfero settentrionale del continente, è ormai “una frontiera dell’Europa”, sostiene Luca Raineri della Scuola superiore di Sant’Anna. Ma l’Europa, come si è visto, conta sempre meno.

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La fine della Guerra fredda e dei due blocchi che avevano diviso anche l’Africa ha aperto la strada a vecchie, nuove e spaventose rivalità tribali


     

Nell’aprile 1960, Mamadou Dia, primo presidente del Mali, da poco indipendente (per un secolo aveva fatto parte insieme al Senegal di quello che veniva chiamato Sudan francese) immaginava sul Monde Diplomatique il futuro dell’Africa e lo vedeva in relazione stretta con lo stesso futuro dell’Europa. Chiamava il suo progetto Eurafrique, sosteneva la proposta del generale De Gaulle per un fondo internazionale e universale a favore dei paesi usciti dal colonialismo e concepiva la relazione con il Vecchio Continente come “complementare”. Il suo sogno non si è mai realizzato. Prima la Guerra fredda ha piegato e forgiato lo stesso processo di liberazione nei diversi paesi, poi la fine dei due blocchi che avevano diviso anche l’Africa ha aperto la strada a vecchie, nuove e spaventose rivalità tribali. Nemmeno il tramonto dei regimi nazionalisti è stato quasi mai pacifico e lineare. L’Europa non ha svolto un ruolo determinante e nel vuoto che si è via via creato si sono inserite la Cina, ormai principale sponda per tutta l’Africa, e la Russia, che ha ripreso e allargato la sua penetrazione.

David Pilling sul Financial Times invita a non generalizzare. Molti paesi hanno una democrazia robusta. Il Ghana un tempo sotto il tallone dei militari, dal 1992 ha tenuto sette elezioni pienamente legittime e democratiche; il Senegal o il Sudafrica non hanno mai avuto regimi dittatoriali; persino la martoriata Nigeria è stata democratica per più di vent’anni. Dunque, occorre non fare di tutt’erba un fascio. E’ vero, il golpe che in Mali ha rovesciato l’impopolare presidente Ibrahim Boubacar Keita, è il secondo colpo di stato in sette anni; in Sudan nell’aprile del 2019 dopo mesi di proteste massicce l’esercito ha fatto cadere la dittatura trentennale di Omar al-Bashir; nel 2017 Robert Mugabe che aveva dominato lo Zimbabwe per 37 anni è stato spodestato manu militari. Ma nonostante le apparenze il putsch è il mezzo meno diffuso per il ricambio delle élite nell’Africa odierna. Una popolazione giovane, istruita e urbanizzata, fortemente influenzata dai social media e sempre più schierata a favore della democrazia (per quanto in modo spesso confuso e decisamente populista), è diventata il soggetto politico più importante, i regimi dipendono sempre più dai suoi umori, dal suo malessere, dalle sue scelte di campo. Si pensi all’Etiopia e al processo che ha portato al vertice Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace, al Sudan, all’Algeria, o allo stesso Mali dove i militari sono corsi ad assicurare che il loro non è un vero colpo di stato e rimarranno al comando solo il tempo necessario a “fare pulizia” dei corrotti. C’è da crederci? Il nord del paese è stabilmente nelle mani dei jihadisti, con propaggini in Libia, nel Niger il cui controllo è strategico per la Francia che da lì attinge l’uranio per le sue centrali, oltre che in Algeria dove il fondamentalismo islamico è sviluppato e radicato. Il rischio serio, dunque, è una reazione a catena soprattutto nella parte settentrionale del continente.

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Algeri ribolle. La Tunisia è una bomba a orologeria che ticchetta ogni giorno più intensamente. La Libia e l’Italia rimasta isolata


     

Algeri ribolle. Il presidente Abdelmadjid Tebboune, uscito vittorioso dalle elezioni dello scorso dicembre, indette dopo il ritiro di Abdelaziz Bouteflika, ultimo superstite degli “eroi della liberazione” dalla Francia, è un volto noto dell’élite politica algerina e continua a essere inviso a buona parte della popolazione. Le proteste, cominciate nella primavera del 2019, continuano: i manifestanti ogni venerdì si radunano per chiedere un cambio del sistema di potere e scongiurare che “il vecchio clan” continui a governare. Dopo il decennio della guerra jihadista conclusasi nel 2002, in molti temono che il paese possa tornare nel caos, o che per l’Algeria si profili uno scenario simile a quello dell’Egitto, visto il forte ruolo dell’esercito. Insieme all’Egitto e al Sudafrica, proprio l’Algeria è stata il maggior focolaio africano di Covid-19 anche perché i tre paesi hanno vasti e intensi legami esterni, non a caso la capitale e la vicina provincia di Blida sono le più colpite. La pandemia e il crollo del prezzo del petrolio hanno messo a terra l’economia gettando un’ombra lunga e oscura anche sulla difficile transizione politica. Il primo ministro Abdelaziz Djerad ha definito “catastrofica sotto tutti i punti di vista” la situazione economica anche senza il Covid-19. La pandemia, inoltre, è stata l’occasione per rafforzare i rapporti con Pechino. Le autorità algerine hanno ringraziato la Cina definendola una “vera amica” e sottolineando la storica vicinanza diplomatica che lega i due paesi. Negli ultimi anni il Dragone è diventato sempre più importante, soprattutto dal punto di vista commerciale, per l’Algeria che, nel 2018, è stato il secondo importatore di merci cinesi tra i paesi del Nord Africa, con un valore di 7,85 miliardi di dollari; mentre le forze armate algerine rappresentano il terzo mercato di armamenti cinesi dietro Pakistan e Bangladesh. Tutto ciò allarma non solo la Francia o l’Italia, i due maggiori partner commerciali dopo la Cina, ma anche la Russia che, partendo dal forte legame con l’Egitto, è diventata determinante nella guerra civile libica trasformata in banco di prova per la penetrazione nel Mediterraneo delle “potenze dell’est” tra le quali è emersa la Turchia di Erdogan con il suo sogno neo-ottomano.

La diplomazia di Ankara ha stretto nuovi rapporti con Tunisi, soprattutto con lo storico leader islamista Rached Ghannouchi, presidente del Parlamento. Ciò ha spinto il presidente Kais Saied ad alzare le barricate. La situazione politica è quanto mai confusa e la confusione comincia proprio dal Parlamento. Ghannouchi è stato salvato da una mozione di sfiducia grazie ai voti del suo ex nemico Nabil Karoui poi costretto a dimettersi. La scelta del ministro degli Interni uscente, Hichem Mechichi, come nuovo primo ministro, risponde al disegno di Saied che vorrebbe un “governo del presidente”, limitando il ruolo delle forze parlamentari e puntando sul fatto di essere il politico più popolare nel paese. Una manovra per la quale, però, non ha al momento sostegni sufficienti. Di qui il rischio di colpi di mano. Questa tumultuosa situazione aggrava la crisi economica. Anche se la pandemia è stata contenuta, gli effetti del confinamento e della recessione globale possono diventare devastanti. Per il Fondo monetario internazionale, la Tunisia avrà una riduzione del prodotto lordo pari al 4.3 per cento, meno dei paesi confinanti, ma in ogni caso, è la peggior recessione dall’indipendenza. Ciò arriva dopo anni di guai economici dovuti all’onda lunga della stagione degli attentati del 2015, che ha messo in ginocchio il paese. Tuttavia, l’instabilità politica è il primo problema. Uscita con successo dalla “rivoluzione dei gelsomini” del 2011 che ha messo in fuga Ben Ali, la democrazia tunisina è ancora instabile. Il premier incaricato Michichi era il ministro degli Interni nel precedente governo, da alcune settimane sta provando a formare un governo senza riuscirci.

    


L’Europa non ha svolto un ruolo determinante e nel vuoto che si è via via creato si sono inserite la Cina e la Russia


      

Dunque la Tunisia è una bomba che ticchetta ogni giorno più intensamente; ma è vero che dalle sue sponde sta partendo un flusso migratorio pari a quello dell’Albania nei primi anni 90, come dicono in Italia gli allarmisti di destra? E’ innegabile che nell’ultimo periodo vi sia stato un netto aumento delle partenze. Nel 2020 gli arrivi via mare hanno toccato quota 15 mila, scrive l’agenzia Ansa, quasi il quadruplo rispetto allo scorso anno. I tunisini sono la nazionalità più rappresentata, con 6.500 sbarcati. L’accordo con Tunisi sui rimpatri – sospeso per mesi a causa del coronavirus – è stato riattivato. Ma il tetto di 80 a settimana con voli charter non consente un vero alleggerimento delle presenze in Italia. Tuttavia, se guardati in prospettiva storica, i numeri non sono estremi – si pensi, ad esempio, alle partenze del periodo 2011 e 2012. Dario Cristiani su Affari internazionali spiega che la crisi economica certamente spinge famiglie intere a provare il viaggio, però sono ancora eccezioni più che la regola. La migrazione tunisina ha molti volti e molte motivazioni. C’è la fuga dei cervelli, ad esempio, vera emergenza di lungo periodo; i laureati, però, raramente approdano in Italia, seguono altri percorsi in Francia, Canada e Germania. Vi è poi il cosiddetto popolo degli haraga, i migranti che provano ad arrivare con imbarcazioni di fortuna. Anche qui, con profili diversi: i tunisini del sud e delle zone interne, cercano di sfuggire sia alla crisi perenne di questi territori, storicamente svantaggiati, sia alla discriminazione socio-culturale; i giovani poco istruiti campano alla giornata nelle periferie urbane, è la figura dell’houmani (ragazzo di quartiere) popolarizzata dal hip-hop tunisino post-rivoluzione, sorta di versione tunisina degli hittisti algerini degli degli anni 90; ma ci sono anche tunisini, spesso poco più che ventenni, i quali considerano il viaggio in Italia un’avventura e una sorta di rito di ingresso nell’età adulta, come i parenti hanno fatto in passato quando era più facile muoversi. Ma soprattutto la Tunisia è un punto di passaggio, un hub per i migranti che vengono dal sud.

Siamo tornati così alla casella di partenza, al Mali e di qui di nuovo all’Algeria e soprattutto alla Libia. Tutto si tiene, ed è chiaro che per affrontare la nuova “minaccia” la logica dei bonus applicata alla politica migratoria (come gli 11 milioni di euro al governo tunisino per i controlli alle frontiere) non serve, anzi rischia di essere controproducente alimentando la rabbia e la protesta contro i politici, la corruzione, i regimi “acchiappatutto”. Senza una strategia di politica estera, elargizioni monetarie che finiscono nelle tasche di governi con scarsa legittimità popolare gettano benzina sul fuoco. L’Italia, però, non ha più una politica africana.

    


Una popolazione giovane, istruita e urbanizzata, sempre più schierata a favore della democrazia, è diventata il soggetto politico più importante


   

“Roma si è mossa tentando di appoggiarsi alle sue membership internazionali”, sostiene Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano, intervistato da Formiche. “L’appartenenza a Nato e Ue l’abbiamo sempre usata come moltiplicatore delle nostre capacità e come sintesi tra i nostri interessi e quelli dei nostri partner”. Senonché, quanto meno a partire dalla crisi libica e dalla caduta di Gheddafi nel 2011, si è aperta una frattura all’interno dell’Unione europea e della Nato, l’Italia è rimasta isolata, poi si è allineata malvolentieri e anche oggi prevale, non solo nei mass media e nell’opinione pubblica, ma anche nella diplomazia e nella classe politica, la nostalgia per i bei tempi perduti del dittatore un po’ terrorista, un po’ nemico (anche se i due missili Scud contro Lampedusa furono secondo Giulio Andreotti “palesemente fuori bersaglio”), un po’ amico interessato (petrolio, aiuti, assegni per bloccare gli immigrati) la cui vita fu salvata nel 1986 da Bettino Craxi che lo avvisò dell’attacco scagliato da Ronald Reagan con l’operazione El Dorado Canyon. Quanto alla Nato, va ricordato che è paralizzata se non proprio ricattata dalla Turchia la quale minaccia di nuovo la Grecia. I turchi hanno sfilato dal controllo dell’Onu e in parte dell’Italia, il debole (o meglio l’imbelle) governo di Fayez al-Serraj sull’orlo di essere spodestato (la sua casa è stata assaltata dai manifestanti martedì notte), ed è diventata arbitro degli equilibri con il generale Haftar, quindi con la Russia di Putin e il suo vassallo egiziano. Ue e Nato sono fuori gioco, la Francia è alle corde, l’Italia in ritirata. Altro che bonus migranti.

L’Africa è campo aperto per il nuovo conflitto geopolitico. Gli Stati Uniti hanno abbandonato lo scacchiere mediorientale e ancor più il continente africano, però cominciano a capire che debbono rientrare in campo. Il segretario di stato Mike Pompeo si è recato lunedì scorso in Sudan. E’ la prima visita di un ministro degli Esteri americano dopo Condoleezza Rice nel 2005, il che la dice lunga sulla geopolitica americana dalla presidenza Bush in poi. Pompeo arrivava da Israele e uno dei dossier che ha discusso con il nuovo governo sudanese riguarda proprio la normalizzazione delle relazioni con Gerusalemme. Anche questo dimostra come sia oggi limitato lo spettro della politica estera americana: per quanto cruciale resti la relazione con Israele, la prima superpotenza mondiale deve allargare il proprio sguardo, tanto più perché nel continente africano si combatte la “nuova guerra fredda” che non ha due nemici come ai tempi dell’Unione sovietica, ma tre e anche di più. E’ chiaro, l’Asia resta sempre al centro del gioco, gli equilibri fondamentali riguardano il Pacifico, il Mar della Cina, l’Oceano indiano. Su quei mari si svolge la grande battaglia navale. Ma la campagna sul terreno calca le sabbie dorate e le rosse savane dell’Africa.

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