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Il dilemma di Putin

Anna Zafesova

La Russia deve decidere se intervenire in Bielorussia o ignorare le richieste Lukashenka

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Milano. Intervenire, è impossibile ignorare. Oppure: intervenire è impossibile, ignorare. Mosca in queste ore sta decidendo dove mettere la virgola nell’equazione bielorussa, cercando di individuare il male minore nel collasso del regime. Nonostante Lukashenka abbia millantato l’imminente aiuto russo, e varie fonti segnalino strani movimenti di truppe al confine con la Bielorussia, la decisione non è ancora stata presa, e intorno al Cremlino è in corso una battaglia tra falchi e colombe, con ballon d’essai su Twitter, teorie complottiste su Telegram e intensi negoziati tra vari clan russi e bielorussi, conditi da una dose enorme di paranoia. Nessuno si fida di nessuno, ma soprattutto nessuno si fida più di Lukashenka. Il dittatore bielorusso è finito nella trappola di Gheddafi: in 26 anni è riuscito a ingannare tutti, e ora nessuno lo riconosce come un “nostro figlio di puttana”. Putin non gli perdona il rifiuto di unire il suo paese alla Russia e i continui ricatti su gas e petrolio. I falchi russi lo considerano inaffidabile e inefficiente (difficile dare loro torto), e troppo propenso a corteggiare l’occidente. Ma soprattutto non gli perdonano l’arresto, alla vigilia delle elezioni, dei mercenari russi della compagnia Wagner, e la minaccia di consegnarli all’odiata Ucraina. Alla fine sono stati restituiti a Mosca, che ora denuncia maltrattamenti e percosse dei suoi agenti.

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Milano. Intervenire, è impossibile ignorare. Oppure: intervenire è impossibile, ignorare. Mosca in queste ore sta decidendo dove mettere la virgola nell’equazione bielorussa, cercando di individuare il male minore nel collasso del regime. Nonostante Lukashenka abbia millantato l’imminente aiuto russo, e varie fonti segnalino strani movimenti di truppe al confine con la Bielorussia, la decisione non è ancora stata presa, e intorno al Cremlino è in corso una battaglia tra falchi e colombe, con ballon d’essai su Twitter, teorie complottiste su Telegram e intensi negoziati tra vari clan russi e bielorussi, conditi da una dose enorme di paranoia. Nessuno si fida di nessuno, ma soprattutto nessuno si fida più di Lukashenka. Il dittatore bielorusso è finito nella trappola di Gheddafi: in 26 anni è riuscito a ingannare tutti, e ora nessuno lo riconosce come un “nostro figlio di puttana”. Putin non gli perdona il rifiuto di unire il suo paese alla Russia e i continui ricatti su gas e petrolio. I falchi russi lo considerano inaffidabile e inefficiente (difficile dare loro torto), e troppo propenso a corteggiare l’occidente. Ma soprattutto non gli perdonano l’arresto, alla vigilia delle elezioni, dei mercenari russi della compagnia Wagner, e la minaccia di consegnarli all’odiata Ucraina. Alla fine sono stati restituiti a Mosca, che ora denuncia maltrattamenti e percosse dei suoi agenti.

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Il “Putin collettivo” di generali, oligarchi e ideologi – appare abbastanza unanime nel non voler spendere le già scarse risorse politiche, economiche e militari, con inevitabili sanzioni internazionali, per salvare un dittatore fallito. 

  

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Ma anche “perdere la Bielorussia” appare inaccettabile, non solo per la paura dell’arrivo dei “carri armati della Nato a 400 chilometri da Mosca”, come minacciano i propagandisti della tv russa, ma perché significherebbe la fine di ogni piano imperiale neosovietico. Con Minsk che segue Kiev sulla strada dell’Europa il Cremlino perde il mito panslavista, e l’affaccio europeo. E vede realizzarsi il suo maggiore incubo: una rivoluzione popolare che spazza via il dittatore, con la piazza che chiede di spedirlo all’Aja per le violazioni dei diritti umani, in quello che a molti russi sembra il prequel della caduta di Putin.

 

L’alternativa è lasciare cadere l’insostenibile Lukashenka per poi partecipare alla transizione con altri player, sfidando l’Europa e in particolare la Polonia, contando sul fatto che la Bielorussia è indebitata fino al collo con Mosca e che l’Ue è al minimo della sua propensione all’espansione. Lanciare un candidato moderato non ostile a Mosca, promettendo all’Europa di mantenere il transito del gas e gli operai di Minsk – che oggi scendono in piazza, ma alla prima riforma di mercato saranno disoccupati e potenzialmente profughi – in cambio di una neutralità della Bielorussia rispetto a Nato e Ue: potrebbe essere un affare. Richiede però di sapere fare politica, e i dittatori populisti non ne sono capaci, come Lukashenka sta dimostrando. Putin ragiona nell’ottica “chi non è con noi è contro di noi”, e tende a identificare i filorussi (e i bielorussi in massa lo sono) con i filoputiniani (e questo, in una democrazia che sta nascendo in piazza, sarà meno scontato).

  

Resta la tentazione dell’intervento militare, invocato apertamente da personaggi come la capa della tv della propaganda Rt, Margarita Simonyan, e da “gole profonde” vicine al Cremlino sui social. Non a favore dell’infido Lukashenka però: se Putin decide di giocare il tutto per tutto, lo farà per se stesso, con un Anschluss, un intervento russo su richiesta dei fratelli bielorussi, come per Assad in Siria, con firma subito di una unione con la Russia. Senza Lukashenka. Come nel 1939. O nel 1938. O, al massimo, nel 1968 a Praga. L’annessione non più di una penisola balneare, ma di un intero paese potrebbe frenare il declino di Putin. Ma l’establishment di Minsk non ha nessuna intenzione di cedere l’indipendenza, cosa che i russi avevano sottovalutato già nel Donbass. E occupare un paese che si è appena scoperto nazione comporta rischi inimmaginabili. Di cui il “Putin collettivo” si rende conto. Tutto dipende dal negoziato tra varie forze bielorusse con Mosca e Bruxelles per convincere Lukashenka ad andarsene e avviare la transizione. Più il dittatore si aggrappa al potere, più si rischia un’escalation che spingerebbe la Russia ad agire.

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