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Fantasia americana

Stefano Cingolani

Per sfidare The Donald alle elezioni serve uno come lui. Jeff Bezos, Elon Musk e Tim Cook sono i tre moschettieri che offrono un modello

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Ho fatto un sogno in questa notte di mezza estate, ho sognato che le elezioni americane venissero rinviate. In fondo, Donald Trump non ha torto: il risultato rischia di essere falsato dalla mancanza di comizi, di convention, di contatto diretto e dall’uso smodato del voto per posta. Dunque, è possibile che tutto si sposti all’anno prossimo, forse a primavera, forse più tardi, la decisione è complessa e ha risvolti costituzionali, stabilire la data spetta al Congresso. Ma un sogno non indugia sui dettagli legali. Se si avverasse, tutto potrebbe cambiare, persino il candidato democratico. Joe Biden ha mostrato un’immagine di politico accorto, senza dubbio navigato, ma certo non di un trascinatore e oggi le folle vogliono essere affascinate, avvolte e travolte. Silvio Berlusconi direbbe che allo sfidante democratico manca “il quid”. Trump può essere battuto da un Trump diverso e migliore, un vincente, ricco non solo per eredità, ma per quel che ha costruito, un innovatore, una personalità nella quale possa riconoscersi con un ampio consenso l’elettorato americano lacerato, prostrato, malato nel profondo e non solo per effetto del Covid-19. Meglio sarebbe in questo onirico organigramma scegliere un personaggio che abbia saputo affrontare la pandemia e uscirne vincitore. Chi può rispondere a queste caratteristiche?

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Ho fatto un sogno in questa notte di mezza estate, ho sognato che le elezioni americane venissero rinviate. In fondo, Donald Trump non ha torto: il risultato rischia di essere falsato dalla mancanza di comizi, di convention, di contatto diretto e dall’uso smodato del voto per posta. Dunque, è possibile che tutto si sposti all’anno prossimo, forse a primavera, forse più tardi, la decisione è complessa e ha risvolti costituzionali, stabilire la data spetta al Congresso. Ma un sogno non indugia sui dettagli legali. Se si avverasse, tutto potrebbe cambiare, persino il candidato democratico. Joe Biden ha mostrato un’immagine di politico accorto, senza dubbio navigato, ma certo non di un trascinatore e oggi le folle vogliono essere affascinate, avvolte e travolte. Silvio Berlusconi direbbe che allo sfidante democratico manca “il quid”. Trump può essere battuto da un Trump diverso e migliore, un vincente, ricco non solo per eredità, ma per quel che ha costruito, un innovatore, una personalità nella quale possa riconoscersi con un ampio consenso l’elettorato americano lacerato, prostrato, malato nel profondo e non solo per effetto del Covid-19. Meglio sarebbe in questo onirico organigramma scegliere un personaggio che abbia saputo affrontare la pandemia e uscirne vincitore. Chi può rispondere a queste caratteristiche?

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Dalle brume di Morfeo sono emersi tre volti: quello estroverso e beffardo di Jeff Bezos il patron di Amazon e del Washington Post arcinemico di Trump; quello strafottente di Elon Musk l’uomo che più ogni altro oggi ha rilanciato l’American dream in terra e in cielo; infine quello timido dallo sguardo indagatore di Tim Cook che ha aggiustato e reso ancor più grande Apple orfana del visionario fondatore Steve Jobs. Al risveglio, mentre la notte di mezza estate già svaniva, mi sono chiesto se e come i fantasmi dei magnifici tre possono davvero prendere corpo.


Trump può essere battuto da un un altro Trump diverso e migliore, un vincente, ricco non solo per eredità, ma per quel che ha costruito


 

La pandemia ha reso Amazon indispensabile quindi potente, sempre più potente. Con vendite per oltre 75 miliardi di dollari nel primo trimestre dell’anno Jeff Bezos ha annunciato che i profitti operativi (4 miliardi nel secondo trimestre) verranno usati per le spese legate al Covid-19 compresi i test e per aumentare i salari. Quanto a lui possiede 192 miliardi di dollari ed è l’uomo più ricco al mondo secondo Forbes. Ben al di là dell’ecommerce e della distribuzione a domicilio utilizzando tutti i mezzi possibili dalla bicicletta al drone, Amazon è ormai una piattaforma complessa il cui business ruota sempre più al cloud, cioè ai servizi per immagazzinare i dati e si estende all’intrattenimento con film e tv. E’ diventata una piovra e Bezos troppo ricco per Donald Trump, che ha fatto di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote. L’ultimo sgambetto è il mega contratto da 10 miliardi di dollari per il Pentagono girato a Microsoft, secondo le accuse di Amazon. Il conflitto è degenerato negli anni, soprattutto a partire dal 2015 quando si è formata una coalizione nazionalista che ha preso a bersaglio la globalizzazione e l’ordine liberal-democratico. Trump, del resto, non può sopportare di essere sfidato da un magnate ben più grande di lui; The Donald vive di media e per i media, quindi la bestia nera è il Washington Post che chiama Amazon Post anche se Bezos lo ha acquistato separatamente nel 2013. “Il Washington Post che perde una fortuna è stato comprato da Jeff Bezos per ridurre le tasse alla sua compagnia no profit Amazon”, ha twittato Trump nel 2015. Quando è divenuto chiaro che The Donald avrebbe puntato alla Casa Bianca, sotto la testata del più importante quotidiano della capitale è apparso il motto “Democracy Dies in Darkness”, la democrazia muore nelle tenebre. Da allora lo scambio di accuse è diventato un duello di insulti, Twitter il primo campo di battaglia, poi i tribunali. Trump ha scritto che Bezos ha una nuova fidanzata, una giornalista televisiva; il tabloid conservatore National Enquirer, che già aveva anticipato il divorzio dalla moglie, si è scatenato. Durante la pandemia i vertici di Amazon sono stati in contatto regolare con la Casa Bianca così come è accaduto anche con Microsoft, Apple e Facebook. Ma il Washington Post non ha smesso di tirare fendenti alla gestione improvvisata e contraddittoria del Covid-19 da parte dell’amministrazione.

 

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Troppo veleno, Bezos è l’anti Trump più potente, ma anche più tipico, divide non unisce, verrebbe attaccato da sinistra come un nuovo Rockefeller e da destra come esponente di quel capitalismo progressista contro il quale gli ultra conservatori sono ormai pronti a combattere armi in pugno. Nato Joergensen da due ragazzi che frequentavano le scuole superiori ad Albuquerque, New Mexico, adottato da un immigrato cubano dal quale ha preso il cognome (diventerà poi ingegnere presso la Exxon), Jeffrey cresce in Texas; studente brillante, si laurea in Ingegneria elettronica a Princeton, si fa le ossa e i primi soldi a Wall Street. E’ un self made man dei tempi moderni, potrebbe diventare un candidato ideale, provocatorio, urticante, ma perdente anche se incarna quel sogno americano che la crisi rischia di trasformare in un incubo.

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Cook non è un radicale ed è diverso dal suo predecessore, tanto che la sua ascesa ha stupito quasi tutti. Ma è conscio dei propri limiti


 

Persino più immaginifico e visionario è senza dubbio Elon Musk uscito anche lui vincitore tra le macerie umane ed economiche della pandemia. La sua Tesla, snobbata, irrisa, incompresa dai costruttori di auto, è diventata la numero uno al mondo per valore di Borsa: con 300 miliardi di euro batte tutti i colossi come Toyota e Volkswagen. Accusata per anni di lavorare in costante perdita, ha messo a segno un profitto per il quarto trimestre consecutivo e nettamente oltre ogni stima, 104 milioni di dollari con entrate di 6,04 miliardi. Il successo del lancio spaziale andata e ritorno ha reso meno fantascientifico il progetto di portare l’uomo su Marte e magari colonizzare il pianeta rosso, per il quale si spende Musk. Forse non lo vedrà nemmeno la prossima generazione, tuttavia l’avventura è ricominciata grazie al “Re di Marte”, come lo ha chiamato la perfida Maureen Dowd sul New York Times, raccontando le vacanze insieme alla “Principessa galattica” Claire Boucher, la cantante canadese nota anche come Grimes, e al loro figlioletto di tre mesi dall’improbabile nome che sembra preso da un robot di Guerre Spaziali: X Æ A-Xii, abbreviato in X. Musk con la sua famiglia (o forse bisognerebbe chiamarla tribù) è ormai peggio di una rock star. Sposato tre volte, con sei figli a carico, innumerevoli fidanzate tra le quali Amber Heard, l’ex moglie di Johnny Depp il quale ama storpiare in Mollusk il nome Musk. E’ il prezzo della fama, della ricchezza, della sovraesposizione mediatica nella quale Elon naviga con il piacere dell’egocentrico appagato. Forbes lo ha appena incluso tra i cinque uomini più ricchi al mondo con un patrimonio di 75 miliardi di dollari, e lui: “Me ne frego. Alzo attorno a me il gigamuro di Berlino”.

 

Nato a Pretoria 49 anni fa, con passaporto canadese come su madre, cittadino americano dal 2002, Elon è stato svezzato con il cucchiaio d’argento in bocca (suo padre possiede una miniera di smeraldi nello Zambia), ma fin da piccolo ha sognato l’America “la terra dove sono possibili grandi cose”. Compiuti i 18 anni, si trasferisce in Canada, poi all’Università della Pennsylvania dove studia economia e fisica dei materiali, infine in California. E qui si tuffa nel mondo web con un’azienda di software e poi PayPal il suo primo successo. Nel 2002 arriva lo spazio e comincia a costruire con la Space X razzi riutilizzabili (i Falcon) e veicoli orbitali (i Dragon). Quarta tappa, appena un anno dopo, l’auto elettrica con Tesla chiamata in omaggio a uno dei più grandi inventori del secolo scorso, il serbo-americano Nikola Tesla genio dell’elettromagnetismo e delle onde radio. Nel 2006 arriva SolarCity (dal fotovoltaico alle batterie) che a sua volta genera la Gigafactory, per “rivoluzionare il mondo dell’energia”, come dichiara con la sua proverbiale modestia. Forse più per apparire che per convinzione, durante la pandemia si lancia in affermazioni riduzioniste e appoggia i gruppi anti lockdown. Il che solleva grossi interrogativi sulle sue inclinazioni politiche. E’ un libertario che vuole lo stato minimo, secondo alcuni. Un socialista non del tutto mascherato secondo altri. No, è di sinistra sui diritti civili e di destra su tasse e politica economica. Musk lascia credere di volta in volta che abbiano ragione gli uni e gli altri. Intanto potenzia l’immagine dell’uomo che si butta nelle sfide impossibili, fallisce e non smette di riprovare finché non la spunta, discendente diretto dell’imprenditore schumpeteriano, capitalista post-moderno che rispolvera i sogni risposti nel cassetto.


Bezos è l’anti Trump più potente, ma anche più tipico: divide, non unisce, verrebbe attaccato sia da sinistra sia da destra


 

Tim Cook non potrebbe essere più diverso: non un inventore, ma un fixer, quello che risolve i problemi, l’ideale meccanico dell’America, capace di aggiustare una macchina imballata, arrugginita, sconnessa. Dopo la morte di Steve Jobs sembrava che Apple fosse destinata a un declino forse lento, ma sicuro. I primi a crederlo erano i pescecani di Wall Street pronti ad azzannare la preda. Il successore Tim Cook non sembrava all’altezza di cotanto maestro. Nato il primo novembre 1960 a Mobile in Alabama, profondo sud, figlio di un operaio, laureato in ingegneria industriale, riflessivo, dall’aria di maestro Zen come lo definì Bono, gay dichiarato, lavora nell’azienda di Coppertino dal 1998 (ha ammesso di essere stato conquistato da Jobs dopo appena cinque minuti) ed è diventato amministratore delegato nell’agosto 2011 due mesi prima che il cancro divorasse Steve Jobs al quale Cook voleva donare parte del suo fegato. In nove anni ricavi e profitti sono più che raddoppiati. Quanto al valore di mercato, è salito da 348 milioni d 1.900 milioni di euro, più del prodotto lordo italiano. Wall Street insomma ha fatto autocritica, eccome. Il vero balzo è avvenuto dall’anno scorso e nemmeno la pandemia ha rallentato la corsa. Cook non ha inventato nulla di nuovo, anzi è come se Apple si fosse presa una pausa rispetto agli anni delle innovazioni continue escogitate da Jobs, ma in compenso è diventata più solida, ha confermato la sua leadership negli smartphone e costruito “una fortezza attorno all’iPhone: smartwatch, Air Pods, musica, video, tv. La Apple di Cook è un colosso che ha proseguito la sua crescita costruendo un impero di prodotti e servizi attorno alle rivoluzionarie invenzioni del fondatore”, ha scritto Trippe Mickle sul Wall Street Journal. Dopo il suo coming out nel 2014 (primo e unico tra i grandi manager ad aver ammesso la propria omosessualità), Cook ha rafforzato l’impegno per la privacy, la sostenibilità e i diritti umani. Eppure è stata molto criticata la scelta di continuare a puntare sulla Cina e di essersi piegato alle pressioni di Pechino consentendo di rimuovere le app legate alle proteste di Hong Kong. La sua spiegazione è diplomatica: la politica aziendale rispetta le leggi dei paesi in cui Apple opera. Cook non è un radicale ed è diversissimo dal suo predecessore tanto che la sua ascesa ha stupito quasi tutti a cominciare dai più stretti collaboratori di Jobs.


Elon Musk ha l’immagine dell’uomo che si butta nelle sfide impossibili, fallisce e non smette di riprovare finché non la spunta 


Introverso, umile, dedito al lavoro, conscio dei propri limiti, ha raccolto attorno a sé tecnici di prim’ordine e si muove con i piedi di piombo in campi inesplorati; non si concede all’esterno né ai giornalisti, non frequenta salotti, anzi durante un Thanksgiving è stato visto cenare da solo in un albergo per rilassarsi da una dura settimana con un buon pasto e un massaggio. Ha detto che vorrebbe essere un modello per i ragazzi bullizzati, per gli umiliati e offesi, oltre che per i gay in particolare i giovani che vengono emarginati e non riescono a confessarlo nemmeno in famiglia. Cerca il consenso, non lo scontro. In una audizione al Congresso si è “impegnato personalmente” ad aumentare il numero di donne e neri nei ruoli dirigenti, ma nulla più. Ha mantenuto la tradizione delle riunioni del venerdì, però ha cambiato uno dei capisaldi della vecchia gestione, accettando di distribuire dividendi agli azionisti come Carl Icahn, uno dei maggiori investitori di Wall Street, lo aveva invitato a fare. Per Jobs gli utili dovevano essere reinvestiti, Cook è più pragmatico. Anche per questo potrebbe diventare l’uomo che rimette insieme, anzi ricostruisce una America divisa e prostrata. Il suo rapporto con Trump è buono, senza dubbio migliore rispetto a quello degli altri big di Silicon Valley. “Sapete perché? – ha dichiarato il presidente – Perché lui mi chiama e gli altri no”. The Donald è fatto così, il suo ego innanzitutto. Apple finanzia in modo equanime Democratici e Repubblicani (anche se Cook ha votato una volta per Obama e nel 2016 per Hillary Clinton), ma Trump si è spinto fino a Austin, roccaforte liberal del Texas, per visitare la fabbrica di Macbook apprezzando il fatto che Cook abbia investito negli States; inoltre non ha potuto fare a meno di mandare i suoi consigli su come migliorare gli iPhone. Il capo di Apple ha apprezzato i tagli alle tasse e ha cercato di contrattare degli sconti a dazi e tariffe anticinesi. Tuttavia ha apertamente criticato l’amministrazione sulla politica ambientale, i diritti civili, i sostegni alle minoranze, l’immigrazione (si è schierato apertamente per il Daca il programma di protezione dei bambini entrati illegalmente negli Stati Uniti), la privacy tanto da aver respinto un ordine del tribunale di decrittare il telefonino di uno dei dimostranti coinvolto nei disordini razziali di San Bernardino (a quel punto, Trump ha invitato a boicottare Apple). Cook, dunque, non si dimostra prono alle scelte di Washington né succube della politica, anche se, come suo costume, preferisce trattare evitando una contrapposizione frontale se non necessario. Tutte queste caratteristiche lo rendono candidabile. Due anni fa ha escluso ogni suo coinvolgimento nella politica attiva: “Amo che le cose vengano fatte”, ha detto, “Non amo la macchina politica che lavora dietro le spalle, a qualsiasi partito appartenga”. Atteggiamento tipico di un manager, eppure proprio questa sua lontananza dalla “macchina politica”, diventa una virtù per chi voglia chiudere il ciclo delle violente contrapposizioni e dell’egotismo trumpiano. E’ un sogno, lo ripeto; ma se non svanisse all’alba del 16 agosto?

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