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Il manuale per dittatori. Lettura consigliata a Lukashenka

Anna Zafesova

L'uomo forte bielorusso sta sbagliando tutto a Minsk, ma ha ancora una possibilità: ritirarsi. Appunti per autocrati

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In Bielorussia sono stati arrestati più di seimila manifestanti, le violenze della polizia hanno causato la morte di due persone, questo è il numero dichiarato, gli scioperi delle principali industrie statali vanno avanti, sciopera anche la casa automobilistica Belaz e anche i musicisti della Filarmonica di Minsk, e circa cinquecento ceo di società tecnologiche hanno minacciato di spostare la loro attività dalla Bielorussia se la repressione non si ferma.

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In Bielorussia sono stati arrestati più di seimila manifestanti, le violenze della polizia hanno causato la morte di due persone, questo è il numero dichiarato, gli scioperi delle principali industrie statali vanno avanti, sciopera anche la casa automobilistica Belaz e anche i musicisti della Filarmonica di Minsk, e circa cinquecento ceo di società tecnologiche hanno minacciato di spostare la loro attività dalla Bielorussia se la repressione non si ferma.

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Se Aljaksandr Lukashenka riuscirà a evitare la fine del suo collega romeno e si ritirerà – come gli consiglia con insistenza da giorni Vladimir Zhirinovsky, il giullare nazionalista che dice quello che il Cremlino pensa – in pensionamento forzato in una dacia in Russia, magari accanto a quella di Viktor Yanukovich, potrà trascorrere la vecchiaia a stilare un manualetto per i dittatori, con tutti gli errori da evitare.

 

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Un agile opuscolo pieno di esempi attinti dall’esperienza personale. Per esempio, imprigionare la propria concorrente principale alle elezioni per farle registrare un video in cui legge con voce terrorizzata un testo di resa da un foglietto, per poi buttarla fuori dal paese, senza nemmeno permetterle di cambiarsi.

 

Oppure ammassare le centinaia di arrestati nei cortili dei commissariati di polizia e farli picchiare in pieno giorno, con i parenti dei bastonati dall’altra parte del muro che sentono i gemiti e riescono perfino a registrare e diffondere i filmati delle torture. Oppure di definire quelli che scendono in piazza contro di lui dei “criminali disoccupati” e intimare loro di trovare subito un lavoro, prima di finire in galera. Oppure di permettere ai poliziotti di aprire il fuoco contro le finestre delle case e spaccare a manganellate le automobili parcheggiate. Oppure mostrare alla tv di stato ragazzini e ragazzine con i volti tumefatti dalle botte, spacciandoli per pericolosi sovversivi. Manifestazioni intimidatorie che dovrebbero incutere terrore nella popolazione.

 

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Ma se non sei Stalin, e nemmeno Pinochet, la fanno soltanto arrabbiare. Yanukovich, che nel 2013 fece picchiare i ragazzi a Kiev, ottenendo soltanto l’arrivo in piazza dei padri e non più solo dei figli, potrebbe tenere dei seminari sull’argomento.

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Ma Lukashenka non ha mai voluto prendere lezioni da nessuno, e riesce a far infuriare non solo i propri sudditi, ma anche il suo unico protettore estero, mostrando in tv un “organizzatore delle proteste” arrestato dai servizi segreti bielorussi che esibiscono come prova della “colpevolezza” del malcapitato una mazzetta di dollari e rubli, una ennesima e pesante allusione alla “mano di Mosca” che ha già spinto molti influenti esponenti del regime putiniano a mostrare il pollice verso nei confronti del dittatore di Minsk.

 

Quos Deus perdere vult, dementat prius, o come sintetizza stupefatto il direttore del Kyiv Post Matthew Kupfer: “Lukashenka sta uccidendo la sua presidenza a bastonate”. Il presidente bielorusso sta seguendo il paradosso dei dittatori, con la stessa inevitabilità dell’alcolizzato convinto che non farà la fine dei suoi amici di bevute. L’avidità del dittatore richiede un controllo totale.

 

Funziona fino a che viene appoggiato da una maggioranza alla quale ha qualcosa da offrire. Quando smette di funzionare – perché viene meno il consenso, perché collassa l’economia, perché è passato un quarto di secolo e i suoi elettori si sono estinti – il regime monolitico che sembrava la salvezza diventa una condanna. La struttura rigida è quella che crolla prima. E se per 26 anni hai eliminato qualunque ipotesi “moderata”, un’opposizione legale, i media, le istituzioni, i potentati economici, nel momento in cui il trono vacilla non resta più spazio per il compromesso, ma solo per un corpo a corpo.

 

Lukashenka è stato il primo autocrate post sovietico a prendere il potere alle elezioni, un populista reazionario che ha anticipato di due decenni l’avvento dei suoi colleghi europei. Vladimir Putin, che poi è diventato il caposcuola del genere, ha sempre guardato al collega bielorusso con il malcelato disprezzo che si riserva allo zotico cugino di campagna, ma condivide con lui l’idea “celodurista” che il leader non si abbassa a negoziare, perché i veri uomini non devono chiedere mai. Una scorciatoia che ha già portato a un vicolo cieco, dal quale è difficile uscire vivi, dittatori arabi, asiatici e latinoamericani.

 

Chi si lascia valvole di sfogo nei media, partiti semiautonomi e intellettuali dissidenti al guinzaglio lungo vive di più, e a volte muore perfino nel proprio letto. Ma la dittatura, che affascina spesso come un mistero complesso, in realtà predilige soluzioni semplici, contrapposizioni binarie e impalcature rigide, e delegare e condividere sono due parole che gli autocrati aborriscono. Il paragone con il Maidan di Kiev regge poco: l’Ucraina era una democrazia e Yanukovich soltanto un aspirante autoritario, che ha negoziato (male) con un’opposizione legale e strutturata in partiti e, quando ha lanciato un bagno di sangue, un Parlamento legittimo ha preso in mano la situazione. Tra Lukashenka e il suo popolo c’è solo il cordone della polizia, e il suo rifiuto di abolire la pena di morte ora rischia di ritorcersi contro di lui.

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