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La selezione di Biden è stata lunga, non cercava soltanto una vice, ma una presidente

Luciana Grosso

Undici candidate, tantissime domande, gli avvertimenti e un requisito fondamentale: essere pronta da subito per iniziare a lavorare

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Milano. Che queste elezioni saranno irripetibili, ormai, possiamo darlo per assodato, giusto? E tra le tante cose che le rendono tali c’è anche la formazione del ticket Biden-Harris, inedito e rivoluzionario, per molte e varie ragioni assai più profonde (anche se forse meno simboliche e visibili) del genere o della sfumatura brunita della carnagione della candidata alla vicepresidenza.

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Milano. Che queste elezioni saranno irripetibili, ormai, possiamo darlo per assodato, giusto? E tra le tante cose che le rendono tali c’è anche la formazione del ticket Biden-Harris, inedito e rivoluzionario, per molte e varie ragioni assai più profonde (anche se forse meno simboliche e visibili) del genere o della sfumatura brunita della carnagione della candidata alla vicepresidenza.

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Il ticket Biden-Harris è già passato alla storia, non tanto per la sua lunga gestazione (in genere il nome arrivava a fine luglio, un paio di settimane in più non sono poi un dramma) quanto per il modo in cui è stato composto: attraverso un lunghissimo e maniacale processo di selezione, fatto di colloqui da superare, certosini controlli sulla biografia e difficili questionari a cui rispondere. Una specie di percorso a tappe, in fondo al quale c’era come premio il ruolo di vicepresidente. X Factor, ma con la Casa Bianca in fondo.

 

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La scelta della vice di Biden non è stata solo la scelta di una compagna di corsa, ma è stata soprattutto la scelta di una potenziale presidente. Biden ha 78 anni: le variabili di salute sul suo mandato sono tante e varie: potrebbe non finire il quadrienno, potrebbe doversi prendere lunghe pause dal lavoro e infine, difficilmente, a 82 anni, si ricandiderà per un secondo giro. Per questo la sua scelta è stata tanto soppesata, perché a lui non serviva solo un nome capace di tenere buone le aree del partito e dell’elettorato che non si riconoscono nella sua candidatura (lo aveva fatto Al Gore con Joe Liebermann, o John McCain con Sarah Palin); non serviva solo un nome capace di mettere al sicuro qualche stato in bilico (lo aveva fatto Hillary con Tim Kaine), non serviva solo qualcuno capace di arrivare, per età, esperienza, storia personale, lì dove il candidato non sa e non può arrivare (lo aveva fatto Barack Obama proprio con Joe Biden): no, questa volta serviva un potenziale futuro presidente. Per questo, il nome di Kamala non è stato scelto, come in genere accade, con la versione americana del Manuale Cencelli delle correnti, delle minoranze e degli stati, ma con un accurato processo di selezione.

 

Lo scrive in modo molto chiaro il Washington Post: “Tutte le donne papabili per il ruolo di vice di Joe Biden hanno dovuto prima affrontare le stesse domande, spesso difficili, attraverso un questionario iniziale, nel quale comparivano domande tipo: quale sarebbe la tua agenda? Quale pensi che sarebbe il soprannome di Donald Trump per te?”. (Nel caso di Harris quest’ultima domanda era facile: il soprannome esiste già ed è “Phony Kamala” “Kamala la Falsa”). Passato questo primo turno, seguivano una serie di colloqui con lo staff di Biden, indagini fatte da un team di giuristi e analisti su tutto quello che in passato ogni potenziale candidata aveva fatto, in politica e nella vita privata, e che potesse in trasformarsi in ragione di imbarazzo per il ticket. Infine, la rosa si è ristretta prima a 11 “finaliste” e poi a tre: Stacey Abrams (nera della Georgia, amatissima dalla parte radicale del partito, assai meno dai moderati), la senatrice Tammy Duckworth (di origini asiatiche, ha perso le gambe nella guerra in Iraq e siede sul seggio che fu di Obama), e poi, alla fine, alla sola Kamala Harris. E’ stata lei a passare il setaccio della selezione Biden, ma anche ad avere le caratteristiche di cui ha parlato il copresidente della campagna, Cedric L. Richmond: “Cercavamo qualcuno che condividesse i nostri valori, che potesse aiutarci a vincere e che – attenzione perché questo è importante – potesse essere pronto dal primo giorno”. Eccolo, buttato lì, tra mille cose, il punto, quello vero: Biden cercava qualcuno che potesse giovare e in nessun modo nuocere alla campagna, che potesse portare voti e non toglierne, che avesse il giusto colore di pelle e la giusta storia personale , ma soprattutto cercava qualcuno che fosse pronto, da subito, a lavorare. E di lavoro da fare ce n’è molto, senatrice Harris: da qui a novembre occorrerà parare i colpi che arriveranno da Donald Trump. Poi, possibilmente, c’è da vincere la Casa Bianca. E poi, forse, da novembre, c’è da fare la vice del presidente di un paese sconquassato e percosso dalla storia e da se stesso. E poi, senatrice, chissà.

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