PUBBLICITÁ

Non era un modello

Giulia Pompili

Giappone, Vietnam, ma soprattutto Australia. Il disastro di Victoria, lo stato più pro Pechino che ci sia. Ecco che cosa è andato storto

PUBBLICITÁ

Domenica scorsa, la sera prima dell’inizio del lockdown nello stato di Victoria, in Australia, moltissime persone sono andate a brindare per l’ultima volta prima di trascorrere altre sei settimane di nuovo chiusi in casa. Brindisi po’ ovunque ma non a Melbourne, la capitale, nonché seconda città per grandezza del paese, dove il lockdown va avanti già da settimane e nelle ultime misure è stato imposto anche il coprifuoco, dalle 8 di sera alle 5 del mattino.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Domenica scorsa, la sera prima dell’inizio del lockdown nello stato di Victoria, in Australia, moltissime persone sono andate a brindare per l’ultima volta prima di trascorrere altre sei settimane di nuovo chiusi in casa. Brindisi po’ ovunque ma non a Melbourne, la capitale, nonché seconda città per grandezza del paese, dove il lockdown va avanti già da settimane e nelle ultime misure è stato imposto anche il coprifuoco, dalle 8 di sera alle 5 del mattino.

PUBBLICITÁ

 

Nel resto dello stato di Victoria, nel sud dell’Australia, da una settimana negozi, ristoranti e bar sono stati costretti a chiudere di nuovo, dopo solo due mesi dall’allentamento delle misure restrittive della prima ondata. Il premier di Victoria, Daniel Andrews, ha annunciato lo stato di calamità e le limitazioni dureranno almeno per altre cinque settimane: non si può uscire se non per comprare generi di necessità, non si può fare esercizio fisico se non entro un raggio di cinque chilometri dalla propria abitazione, non si possono fare assembramenti, e naturalmente scuole chiuse.

 

PUBBLICITÁ

La mascherina è obbligatoria se si esce di casa. La chiamano la fase quattro, e il premier ha assicurato che però non ci sarà una fase cinque: “Dobbiamo far funzionare questa”. Eppure tra aprile e maggio l’Australia era considerata un caso di successo nel contenimento del coronavirus.

 

La Cnn il primo maggio scorso scriveva che il sud dell’Australia era considerato “il posto più sicuro sulla terra”, e che gli australiani erano i più invidiati del mondo. La curva dei contagi non solo era stata tenuta sotto controllo, ma era stata completamente appiattita. Poi qualcosa improvvisamente è cambiato. I primi focolai di Melbourne sono stati individuati qualche giorno dopo l’allentamento delle restrizioni della prima ondata. A seguito dei casi registrati, il tentativo è stato quello di localizzare il più possibile i focolai e procedere all’emergenza sanitaria soltanto nelle aree colpite. Uno dei primi provvedimenti ha riguardato le nove torri di abitazioni popolari della capitale, dove vivono circa tremila persone, soprattutto immigrati e rifugiati da Africa, Cina e Vietnam.

La Cnn a maggio scriveva che il sud dell’Australia era considerato “il posto più sicuro sulla terra”, gli australiani i più invidiati del mond

 

PUBBLICITÁ

Le torri, definite delle “navi da crociera verticali” per via della velocità con cui il virus si trasmette, sono state praticamente sigillate, senza dare la possibilità agli abitanti di uscire nemmeno per motivi di necessità cibo e medicinali venivano forniti dalla rete di assistenza comunale. La decisione e le conseguenti proteste degli immigrati hanno creato un caso politico sul trattamento delle categorie più a rischio.

 

PUBBLICITÁ

Però secondo le indagini degli scienziati, che hanno studiato le mutazioni del virus, l’origine dei contagi nello stato di Victoria avrebbe a che fare con gli hotel messi a disposizione dal governo per la quarantena di quattordici giorni degli stranieri in caso di ingresso in Australia. Ma non sarebbero stati gli stranieri a portare il virus nelle strutture, bensì alcuni dipendenti delle società impiegate dallo stato per controllare i soggetti in isolamento. E’ stata aperta un’inchiesta, che andrà avanti fino all’autunno, per capire chi non ha usato sufficienti accorgimenti per controllare i dipendenti di una società privata. A fine luglio, con la situazione ormai sfuggita di mano, il premier Daniel Andrews si è dovuto arrendere all’evidenza: questo approccio locale è impossibile, è diventato troppo complicato, e ha imposto su Melbourne un lockdown più generalizzato.

 

L’Australia non è il solo paese ad aver cambiato repentinamente strategia sulla pandemia. Anche paesi come il Vietnam, il Giappone, che fino a qualche mese fa erano raccontati come esempi di contenimento stanno tornando alla fase uno. “Per novantanove giorni, il Vietnam sembrava aver sconfitto il coronavirus”, ha scritto Hau Dinh dell’Associated press, “Non c’era stato neanche un contagio comunitario. Non una morte. Una manciata di casi di importazione sono stati isolati, ma il resto del paese stava tornando a una vita normale. Un paese da 96 milioni di persone veniva di continuo elogiato a livello globale come un successo straordinario”.

 

Poi il primo focolaio nella città costiera di Da Nang, dove erano presenti circa ottantamila turisti, soprattutto locali, tutti evacuati nel giro di pochi giorni. La città è stata messa in lockdown, ma nel frattempo il Vietnam ha registrato il primo morto di Covid-19, un settantenne residente a Hoi An, poco distante da Da Nang. Da quel momento piccoli focolai sono affiorati un po’ ovunque, dalla capitale Hanoi fino a Ho Chí Minh City. Anche quello che veniva considerato il “modello Giappone” - che secondo il governo di Tokyo era il segnale di una certa “superiorità” della cultura giapponese - nelle ultime settimane ha cominciato a perdere pezzi.

Dopo un mese di stato d’emergenza, le restrizioni, secondo gli esperti, sono state sollevate troppo presto, e non solo: per risollevare l’economia e non subire del tutto i danni causati dall’assenza di turismo internazionale, il governo del premier Shinzo Abe ha incentivato i viaggi all’interno del paese. Nel frattempo, la vita notturna di Tokyo ha fatto da acceleratore dei casi di Covid nella capitale, che da settimane gestisce un numero di nuovi contagiati quotidianamente sopra ai cento. Il vero mistero è la mortalità bassissima del virus nell’arcipelago giapponese, ben sotto il livello di guardia, che permette al governo di dire: non serve eliminarlo, basta convivere col virus.

Non è il solo paese ad aver cambiato repentinamente strategia sulla pandemia. Anche Vietnam e Giappone lo hanno fatto

Quando il premier David Andrews ha annunciato le ulteriori misure restrittive per lo stato di Victoria, domenica scorsa, erano stati appena registrati 429 nuovi casi di Covid-19 e tredici morti. Non un numero impressionante per una regione da sei milioni di abitanti, soprattutto se comparati con i numeri americani oppure alla situazione in Italia a metà marzo.

 

Ma il vantaggio di arrivare tardi all’emergenza pandemica significa anche avere dei sistemi di previsione più complessi e precisi, che aiutano a capire le mosse da fare. Secondo Andrews, senza un lockdown a livello regionale i numeri sarebbero continuati a salire molto rapidamente facendo probabilmente collassare la rete sanitaria. All’inizio di luglio era stato il premier stesso a tenere fuori dalla rosa delle possibilità misure più restrittive, chiedendo ai cittadini responsabilità: se non volete la chiusura totale allora rispettate le regole di distanziamento. Ma non è solo una questione di senso civico: gli ospedali, per esempio, hanno sospeso le chirurgie elettive soltanto il primo di agosto scorso, e ora si stanno preparando al peggio.

 

Come nel resto del mondo, il Covid-19 è una questione d’emergenza sanitaria che si trasforma in una battaglia politica. Secondo la stampa australiana, è stato il primo ministro Scott Morrison, del Partito liberale, a spingere il premier David Andrews, che fa parte del partito d’opposizione, quello laburista, a prendere provvedimenti urgenti per fermare i contagi nello stato di Victoria. Sembra una fotocopia di ciò che abbiamo vissuto anche in Italia: la responsabilità delle case di cura per anziani per esempio, che come sappiamo sono luoghi di contagio e di fragilità, è del governo federale, che viene accusato dal governo locale di non fare abbastanza. Il governo federale, invece, accusa il governo locale di prediligere l’aspetto economico a quello sanitario. Ma c’è poco da argomentare: secondo il ministero del Tesoro di Canberra, il nuovo lockdown sarà un disastro per l’economia anche nazionale, parliamo di numeri da “periodo di guerra”, ha detto il ministro Josh Frydenberg. Eppure, non si può fare altrimento.

 

Non è la prima volta che il governo locale di Victoria e quello centrale di Canberra si trovano a scontrarsi, e la pandemia ha solo aggravato situazioni preesistenti. Il premier Daniel Andrews, a capo dello stato sin dal 2014, è un entusiasta pro-Pechino: da tempo crede che far aderire lo stato, singolarmente, alla Via della Seta cinese sia un’opportunità per i suoi cittadini, per aiutare l’economia e creare nuovi posti di lavoro. E l’ipotesi di un accordo l’ha tirata fuori di nuovo all’inizio di giugno, quando il governo centrale di Scott Morrison era nel pieno di una crisi diplomatica senza precedenti con il presidente Xi Jinping.

Il governo federale è accusato da quello locale di non fare abbastanza. Il governo locale è accusato di pensare solo all’economia

 

L’Australia infatti è stato uno dei primi paesi a chiedere un’inchiesta internazionale indipendente sull’origine del coronavirus. L’ipotesi di una investigazione non è piaciuta a Pechino, che ha reagito punendo l’Australia estremamente dipendente dall’economia cinese bloccando le importazioni di manzo e mettendo dazi all’80 per cento sull’orzo. La situazione è peggiorata con l’introduzione della legge sulla sicurezza a Hong Kong da parte di Pechino e le continue scaramucce, nelle ultime settimane arrivate oltre il livello di guardia, nel Mar cinese meridionale, che la Cina rivendica senza basi legali.

 

E’ l’Australian, l’unico quotidiano nazionale in Australia del tycoon american-australiano Rupert Murdoch, ad aver investigato di più sugli interessi specifici di Andrews e dei suoi collaboratori con la Cina. E negli ultimi mesi sono uscite diverse inchieste che mostrano quanto il governo locale di Andrews fosse in qualche modo influenzabile dai progetti di propaganda e politici di Pechino. Nancy Yang, una delle più vecchie collaboratrici di Andrews, avrebbe “collegamenti diretti” con lo United Front Work Department, il braccio operativo delle operazioni d’influenza all’estero del Partito comunista cinese, e per tutto il periodo della pandemia ha diffuso sui social network teorie cospirazioniste sul virus, “probabilmente diffuso dai soldati americani in Cina”.

 

E c’è un’altra lezione che probabilmente Andrews ha imparato da Pechino: “Un gruppo di importanti esperti di malattie infettive in Australia chiede al governo di Victoria di essere più trasparente con i suoi dati sul coronavirus, e sostiene che l’enorme mancanza di dettagli sta ostacolando la capacità di analizzare correttamente la crisi in atto nello stato”, scriveva il Sydney Morning Herald qualche giorno fa. “La prima domanda da fare è: di quali dati è in possesso effettivamente il governo? Perché non ce l’hanno spiegato”, ha detto all’Herald John Mathews, epidemiologo dell’Università di Melbourne.

 

“Se il governo vuole guadagnarsi la fiducia della popolazione, allora dovrebbe essere trasparente sui dati e su cosa spera di fare per migliorare le cose”. Uno dei motivi per cui la gente ha iniziato a violare la quarantena, ha detto il docente, sono i tempi lunghissimi per avere i risultati dei tamponi. Non solo: l’altro enorme buco nero di conoscenza riguarda i più di settecento casi dei quali è impossibile rintracciare l’origine del contagio.

 

Più di settecento pazienti zero. “Una delle cose più importanti in qualsiasi è la democrazia è la trasparenza”, ha detto Mary-Louise McLaws, epidemiologa della University of New South Wales, sempre all’Herald. Senza dati, gli scienziati possono dare opinioni, ma non risposte.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ