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Il tramonto del populista Lukashenka

Anna Zafesova

Domenica si vota in Bielorussia e “l’ultimo dittatore d’Europa” non ha nessuna intenzione di perdere le sue seste elezioni consecutive dal 1994. Lo sguardo di Putin sul voto 

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“Non traditemi”. Un Aljaksandr Lukashenka stanco, rauco e pallido al punto da far sospettare di non aver superato il suo coronavirus da asintomatico, si lancia in una minacciosa dichiarazione d’amore al suo popolo, “cresciuto con le mie mani, al mio seno”, promettendogli che non consegnerà mai il suo paese in mani altrui, “non si abbandona l’amata”. Davanti a un Parlamento rigorosamente senza mascherine, il presidente bielorusso martedì ha mescolato minacce a Mosca che invia in Bielorussia i suoi mercenari del gruppo Wagner –  “si sta preparando un massacro a Minsk” – e insulti alle “povere ragazze” dell’opposizione guidata da Svjatlana Tikhanovskaja, ammonimenti ai giovani e promesse ai vecchi, a metà tra allusioni mafiose e delirio paranoico, dal quale si capisce che “l’ultimo dittatore d’Europa” non ha nessuna intenzione di perdere le sue seste elezioni consecutive dal 1994, e nonostante il suo 3 per cento nei sondaggi non ufficiali non ha e non vuole avere una exit strategy.

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“Non traditemi”. Un Aljaksandr Lukashenka stanco, rauco e pallido al punto da far sospettare di non aver superato il suo coronavirus da asintomatico, si lancia in una minacciosa dichiarazione d’amore al suo popolo, “cresciuto con le mie mani, al mio seno”, promettendogli che non consegnerà mai il suo paese in mani altrui, “non si abbandona l’amata”. Davanti a un Parlamento rigorosamente senza mascherine, il presidente bielorusso martedì ha mescolato minacce a Mosca che invia in Bielorussia i suoi mercenari del gruppo Wagner –  “si sta preparando un massacro a Minsk” – e insulti alle “povere ragazze” dell’opposizione guidata da Svjatlana Tikhanovskaja, ammonimenti ai giovani e promesse ai vecchi, a metà tra allusioni mafiose e delirio paranoico, dal quale si capisce che “l’ultimo dittatore d’Europa” non ha nessuna intenzione di perdere le sue seste elezioni consecutive dal 1994, e nonostante il suo 3 per cento nei sondaggi non ufficiali non ha e non vuole avere una exit strategy.

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Il tramonto di un leader populista – e Lukashenka lo è stato già vent’anni prima che il termine entrasse nel vocabolario politico corrente – non assomiglia all’autunno di un patriarca, ma all’ultima tournée di un vecchio comico: le battute consumate non fanno più breccia, la retorica non commuove e i concorrenti più giovani fanno il tutto esaurito con le barzellette su di lui. Un dittatore non può essere ridicolo. La forza degli autocrati postcomunisti si basava non solo sulla paura della repressione (comunque ridotta rispetto ai loro predecessori), ma soprattutto su una popolarità vera, autentica, su una maggioranza che non era frutto soltanto di censura e brogli. La legittimità di Putin e Lukashenka nasceva dalle urne, è per questo che il “padre” dei bielorussi ora urla al tradimento: doveva essere un amore, anzi, un’adozione, non un contratto. Ma il tempo passa, lo choc  post traumatico della fine del comunismo sparisce insieme con quelli che l’hanno vissuto, il radioso passato non è tornato e una nuova generazione scende nelle piazze, bocciando le barzellette che piacevano ai loro nonni come stupide e anche un po’ volgari.

    

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E’ un improvviso momento “Ok boomer”, cui Lukashenka (66 anni tra pochi giorni) e Putin (68 a ottobre) arrivano completamente impreparati. Sanno come gestire lo scontento di una minoranza, nelle urne e nelle piazze. Ma la vera fonte del loro potere era l’amore, e l’amore finisce, e capacitarsene è sempre difficile, e si finisce per accusare gli ex fratelli russi di aver ordito un golpe o un “massacro” in piazza, e ad arrestare i militari di Mosca che non potevano essere arrivati a Minsk senza il consenso di Lukashenka, e uno dei leader dell’opposizione scrive a Putin chiedendogli di non salvare colui che non può non considerare a sua volta un traditore.

   

Il futuro della Bielorussia si giocherà il 9 agosto, nelle urne e nelle piazze, ma si giocherà anche a Mosca. Se Lukashenka occulterà il “no” che il paese gli dirà domenica con la solita percentuale bulgara, si ritroverà con un Maidan sul modello di Kiev del 2014. E se, da innamorato possessivo, vorrà punire l’amata e trasformare un Maidan in una Tiananmen, avrà bisogno di Putin, perché perfino un’Europa troppo presa per guardare a est gli chiuderà tutte le porte. Per Putin perdere la Bielorussia che segue l’Ucraina verso l’Ue sarebbe mortale. Mentre conquistarla, con un Lukashenka costretto a consegnarsi a Mosca, potrebbe dare un’ultima boccata di ossigeno alla sua immagine di restauratore delle glorie imperiali. Ma Putin è alle prese con la propria crisi di tradimenti, con la piazza di Khabarovsk che chiede da un mese le sue dimissioni, e non può non aver considerato l’arresto degli uomini della Wagner una coltellata alla schiena. Teste parlanti vicine al Cremlino dicono a Tv e agenzie ufficiali che il “padre” dei bielorussi è un traditore che vuole vendersi all’occidente e Vladimir Zhirinovskij, l’ultranazionalista che esprime con provocazioni da giullare quello che Putin pensa, ha dato a Lukashenka un consiglio da amico: darsi alla fuga.

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