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Una pace da siglare tra Italia e Francia

Jean-Pierre Darnis

Basta un niente perché i rapporti di buon vicinato tra Roma e Parigi si spezzino. Screzi, sospetti e riavvicinamenti hanno scandito questi ultimi anni, ma ci sono molte motivazioni strategiche per un trattato bilaterale. Eccole

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Pubblichiamo un estratto del paper dell’Istituto affari internazionali “Una visione strategica delle relazioni franco-italiane: per un trattato bilaterale?” sulle relazioni franco-italiane.

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Pubblichiamo un estratto del paper dell’Istituto affari internazionali “Una visione strategica delle relazioni franco-italiane: per un trattato bilaterale?” sulle relazioni franco-italiane.

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I rapporti tra Francia e Italia rappresentano un punto cieco nella politica estera francese, mentre in Italia destano grandissima preoccupazione. Tra il 2017 e il 2019 una serie di episodi controversi segnano le relazioni tra Parigi e Roma. L’elezione di Emmanuel Macron alla presidenza della Repubblica francese ha dato il via a un ciclo negativo che si è poi aggravato nella primavera del 2018, quando la maggioranza M5S-Lega è salita al potere in Italia.

 

All’indomani delle elezioni del 2017, la presidenza francese pone un freno alla questione della ripresa dei cantieri Atlantico/STX da parte del gruppo italiano Fincantieri, uno stop che viene percepito come uno schiaffo da parte degli ambienti governativi ed economici italiani. Dopo il 1992, l’Italia ha avviato una serie di privatizzazioni e ha accelerato la trasformazione della sua economia pubblica per recuperare competitività giocando la carta europea. La Francia, invece, ha attuato la strategia opposta, ossia ritardare il recepimento delle varie direttive di liberalizzazione del mercato per mantenere la struttura delle imprese statali e dei monopoli interni. E’ in questo contesto di due calendari divergenti che si creano condizioni strutturali di non cooperazione tra i due paesi.

 

Il primo caso doloroso è quello dell’opa di Edf su Edison, bloccata nel 2001 dal governo Amato. Questo caso illustra il paradigma del divario tra Francia e Italia, quando un ente pubblico francese effettua un’operazione di investimento all’interno di un mercato italiano in piena apertura, mentre il mercato francese dell’energia rimane chiusissimo. Nel 2006, quando la società elettrica italiana Enel si unisce a Veolia per rilevare Suez, l’opa poi viene bloccata dal governo francese moltiplicati in settori apparentemente innocui come quello dei beni di lusso e dei latticini, a Roma si sono accumulate percezioni negative quasi di invasione. A questa prima lacerazione tra Parigi e Roma si sono rapidamente aggiunte le tensioni che riguardano la questione libica. Durante il vertice trilaterale di Trieste del luglio 2017, Paolo Gentiloni insiste con Emmanuel Macron e Angela Merkel sulla priorità da dare al problema migratorio, che già influisce sugli equilibri politici italiani. La risposta francese sarà quella di organizzare a fine luglio 2017 un incontro tra gli oppositori libici Haftar e Serraj per promuovere una soluzione del conflitto. Questa conferenza non segna un vero progresso nel trattamento della questione, ma offende gli italiani che si sentono esclusi. Possiamo rilevare divergenze strategiche, tra un’Italia abituata a coagulare le varie tribù libiche, anche nel quadro di una geopolitica del petrolio, e la visione antiterroristica francese attenta agli equilibri di potere.

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Sullo sfondo di questi dissensi, è necessario sottolineare il divorzio strategico che si è verificato tra Francia e Italia. L’intervento in Libia nel 2011 rappresenta un momento di rottura. La debolezza dell’esecutivo lascia l’impressione confusa di un’Italia che subisce l’accelerazione voluta da Francia, Regno Unito e Stati Uniti senza svolgere un ruolo di mediatore con il regime di Gheddafi. D’altro canto, le ragioni dell’interventismo francese rimangono mal capite dall’Italia che sospetta una volontà di espansionismo geopolitico alle sue spese, mentre l’equazione parigina non prende in considerazione Roma, il che rappresenta anche un problema.

 

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Dal 2013 in poi la Libia si sfascia gradualmente e le ondate migratorie si infrangono sulla Sicilia: rapidamente il teorema della responsabilità francese per i mali italiani prende piede. A questa visione di causalità tra intervento in Libia e crisi migratoria si aggiungono spesso interpretazioni sulle zone di influenza in Libia e sulla competizione per le risorse petrolifere. Quest’ultimo aspetto illustra la crescita di una lettura geoeconomica fiorente in Italia, lettura che proietta sulle azioni della società petrolifera Total la stessa griglia di lettura usata per l’italiana Eni, il che risulta fuorviante. D’altra parte, gli italiani osservano con una certa indifferenza e anche un pizzico di ostilità la sequenza di interventi di stabilizzazione che si sta svolgendo nella zona saheliana a partire dal 2013 con l’intervento francese in Mali. L’ondata di attacchi terroristici alla Francia nel 2015 accentua la priorità data alla lotta al terrorismo a Parigi, ma non provoca un’ulteriore convergenza con un’Italia che rimane segnata dalla crisi migratoria ma anche dalla percezione del proprio ruolo in Libia.

Il vertice bilaterale franco-italiano di Lione del settembre 2017 arriva al momento giusto per calmare le acque. E proprio durante questo vertice che viene evocato per la prima volta il progetto di un “Trattato del Quirinale”, un trattato bilaterale che potesse far progredire i rapporti tra Francia e Italia ispirandosi al modello franco-tedesco. Arriva tardi, però. Il 2018 è segnato in Italia dai toni esacerbati della campagna per le politiche con una forte denuncia della mancanza di solidarietà europea in materia di immigrazione. Il contesto si sta gradualmente indurendo, e il riferimento alla Francia diventa sempre più complesso. Già nel marzo 2018 un controllo effettuato dai doganieri francesi a Bardonecchia era stato caratterizzato da un’irregolarità amministrativa che aveva provocato una tempesta mediatica contro la presenza di agenti di polizia francesi sul territorio italiano. Va sottolineata la posizione piuttosto rigida del governo italiano: non solo non ricorda i termini dell’accordo bilaterale esistente che prevede la legittima circolazione delle forze dell’ordine da entrambi lati della frontiera, ma convoca anche l'ambasciatore francese. Questo epifenomeno è indicativo del clima dell'epoca, in cui un governo italiano di centrosinistra illustra la crescita del sentimento antifrancese nel contesto elettorale.

  

L’insediamento del governo Conte, nel giugno 2018, segna un ulteriore degrado nelle relazioni bilaterali. Pochi giorni dopo l’ambasciatore Masset viene nuovamente convocato dal ministro degli Esteri, Moavero Milanesi, dopo che un portavoce del governo francese aveva criticato il comportamento dell’esecutivo italiano nella gestione della nave Aquarius. Emmanuel Macron diventa rapidamente un simbolo negativo in Italia nel nome del rifiuto da parte di Roma della dittatura di Parigi sull’Europa. Cresce la retorica “contro l’Europa di Macron”, espressa in particolare dalla Lega e dal suo leader, il ministro dell’Interno Matteo Salvini, al quale poi risponde un discorso anti “Salvini e Orban” dal presidente francese, che utilizza questa posizione nel contesto dell’inizio della campagna per le europee. Questa legittimazione negativa incrociata tra Matteo Salvini ed Emmanuel Macron funziona a pieno fino alla prima metà del 2019.

  

In quel momento esplode la seconda parte della crisi diplomatica tra Francia e Italia. In primo luogo, le dichiarazioni del ministro e leader del Movimento 5 stelle Luigi di Maio che critica la politica del franco Cfa provocano la convocazione dell’ambasciatrice italiana a Parigi, Teresa Castaldo, da parte del Quai d’Orsay. Poi a febbraio l’incontro tra lo stesso Luigi di Maio e i rappresentanti di un comitato di gilet gialli in Francia porta al richiamo a Parigi dell’ambasciatore Christian Masset, un gesto particolarmente grave – l’ultimo esempio risale all’entrata in guerra dell’Italia contro la Francia nel 1940.

  

Una volta terminata la campagna per le europee, i toni si abbasseranno in tutta l’Unione. In Italia, la nuova coalizione che esce dalla crisi di governo del 2019 appare molto più compatibile con i principali partner europei. D’altro canto, il ritorno dell’Italia nel concerto dell’Unione, iniziato con l’elezione di David Sassoli come presidente del Parlamento europeo, è stato poi rafforzato dalla nomina di Paolo Gentiloni a commissario europeo. L’apparente normalizzazione provoca gesti forti, come quelli di Macron e del presidente tedesco Franck-Walter Steinmeier, che si precipitano a Roma non appena viene nominato il nuovo esecutivo, tanto è grande il desiderio di normalizzare i rapporti dopo un periodo travagliato. La Lega di Salvini non è l’unico responsabile del degrado delle relazioni con la Francia. Va ricordato che anche il M5S o Fratelli d’Italia hanno espresso posizioni molto critiche nei confronti della Francia. Inoltre, il forte deterioramento dei rapporti è avvenuto nel 2017, con il centro-sinistra al potere.

  

La crisi del Covid-19 rappresenta una fase successiva, la cui lettura non è priva di ambiguità. Il vertice bilaterale del febbraio 2020 a Napoli ha segnato il rilancio delle relazioni tra Francia e Italia, che si presentano con grande cordialità quando Conte e Macron passeggiano per le strade del centro storico. La visita del ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian a Roma all’inizio di giugno 2020 e quella del ministro della difesa Florence Parly a luglio illustrano la volontà di ripresa del dialogo diplomatico. Il dossier libico è diventato più complesso il che paradossalmente semplifica le relazioni dei due paesi. Né l’Italia né la Francia sembrano essere ben posizionate nel contesto di un importante ridimensionamento del campo di Haftar e della crescita del ruolo della Turchia. Francia e Italia si ritrovano relativamente emarginati e devono cooperare per difendere i loro interessi. Il Parlamento italiano ha votato la partecipazione alla missione Takuba, la forza europea di sostengo alla sicurezza nel Sahel. L’adesione dell’Italia a questa iniziativa europea voluta dalla Francia è un segnale diplomatico importante, perché, a eccezione di alcuni soldati inviati in Niger, l’Italia è stata assente dal teatro del Sahel. Possiamo quindi osservare segnali di ripresa della cooperazione sulle questioni sahelo-libiche, anche se tutto questo rimane fragile, dato l’alto grado di sospetto.

  

Anche il dossier europeo offre una lettura ambivalente. L’inizio della crisi da Covid-19 è stato segnato da un ripiego nazionale di tutti i paesi europei, con una reazione quasi-autarchica. L’Italia era allora in anticipo sulla curva di diffusione dell’epidemia, mentre gli altri paesi dell’Unione ritardavano le misure di contenimento. Ciò ha contribuito all’isolamento percepito dall’Italia nella prima fase della crisi, mentre si sono moltiplicate le polemiche per la mancanza di segnali concreti di aiuto da parte dell’Europa.

  

L’insoddisfazione nei confronti dell’Europa è proseguita anche in seguito, mentre l’Italia ha chiesto la generosità finanziaria europea sotto forma di un debito comune. L’iniziativa franco-tedesca per un piano di rilancio europeo ha però tagliato l’erba da sotto i piedi a questa critica, illustrando la valenza delle sinergie fra Parigi e Berlino. L’euroscetticismo italiano si è consolidato negli ultimi vent’anni circa, con la riattivazione del riferimento nazionale, scomparso nel dopoguerra, e i ricorrenti giudizi negativi su Francia e Germania. Possiamo ipotizzare una cultura nazionalista che si sarebbe affermata in Italia dalla fine del Novecento, basata su divisioni (sentimenti antifrancesi o antitedeschi) già presenti nella storia. L’accumularsi di problemi con la Francia, e l’incuria di una Francia che ha spesso trascurato questi attriti con una certa leggerezza, ha contribuito ad alimentare il risentimento.

  

E’ in questo contesto che la firma di un trattato bilaterale tra Francia e Italia, ispirato al modello franco-tedesco, viene nuovamente evocata. Per voltare pagina sui battibecchi franco-italiani, è importante rafforzare i meccanismi istituzionali bilaterali. La crisi di Covid-19 ha illustrato la validità del rapporto franco-tedesco, un esempio a cui si dovrebbe fare riferimento. Ma le condizioni di questo trattato sono cambiate negli ultimi due anni. Le lacerazioni tra Parigi e Roma stanno lasciando il segno. Dobbiamo riconoscere la fragilità del rapporto, difficile e risentito, che deve essere trattato come tale, evitando la visione culturalista francese che spesso tende a voler includere l’Italia in uno slancio positivo, ma andando anche oltre la visione troppo geopolitica e ristretta di un’Italia che ha dimenticato di proiettarsi nell’integrazione europea.

  

Mentre il modello di intervento dello Stato nell’economia e nell’industria sta tornando prepotentemente in auge, Francia e Italia esprimono a diversi livelli la loro adesione a un concetto di sovranità tecnologica, un’affermazione che illustra la volontà di strutturare una maggiore protezione attorno al controllo di alcune tecnologie e processi produttivi. Ciò implica anche l’istituzione di strumenti di reciprocità e di fiducia, elementi che sono stati carenti se guardiamo agli esempi nel settore dell’energia tra Francia e Italia. Tutto questo appare tanto più necessario in quanto l’estensione del perimetro strategico dell’industria causata dalla crisi del Covid-19 pone al centro dell’attenzione una serie di settori che stanno già creando poste in gioco bilaterali, come le reti e le telecomunicazioni. Si tratta qui non solo di immaginare strutture di vigilanza adeguate al dopo Covid-19, ma anche di assicurare gli investimenti futuri nel quadro intraeuropeo evitando blocchi.

  

La presidenza della Repubblica francese gode di un sostengo parlamentare solido fino a fine della legislatura, e la questioni dei rapporti bilaterali con l’Italia non rappresenta una posta in gioco particolarmente delicata nel dibattito interno. Il quadro è diverso in Italia dove le spinte euroscettiche rimangono forti fra le formazioni che compongono il Parlamento. Viene quindi difficile immaginare una convergenza dall’alto come si era pensato quando fu lanciata l’iniziativa di un “Trattato del Quirinale”. Il Trattato franco-tedesco del 1963 aveva lo scopo di porre rimedio alle relazioni postbelliche tra i due paesi sulla base di una forte ed esplicita volontà politica. Un trattato franco-italiano deve oggi avere come obiettivo il risanamento dei rapporti tra Parigi e Roma, ma inscrivendoli in una cornice diversa, funzionale al miglioramento del posizionamento europeo. Tra l’altro seguendo questo filone di pensiero sarebbe opportuno abbandonare il riferimento al Quirinale, frutto di una cortesia storica da parte dei francesi che leggono un paragono positivo con il Trattato dell’Eliseo. Un trattato bilaterale che instauri una serie di meccanismi insistendo su ambiti di cooperazione europea ma magari anche ambiti di cooperazione transfrontaliere potrebbe meglio cogliere un eventuale consenso politico.

  

Tuttavia, utili ricette possono essere tratte dal rapporto franco-tedesco. La spina dorsale del rapporto è costituita da meccanismi di consultazione : consigli ministeriali congiunti, presenza di ministri del paese partner ai consigli, scambio di alti funzionari che trascorrono diversi anni della loro carriera nell’amministrazione dell’altro paese, incontri ministeriali bilaterali. E’ infatti l’allestimento di una serie di cinghie di trasmissione che permette di approfondire la conoscenza reciproca e le reti, il che poi torna utile nel contesto europeo. L’iniziativa di recupero post Covid franco-tedesca rappresenta un fondamentale passo in avanti perché permette di compiere significativi progressi nel campo dell’integrazione. E’ in questo contesto che bisogna considerare l’evoluzione del rapporto bilaterale. Questo trattato non dovrebbe apparire come un rapporto esclusivo, ma come un meccanismo che faciliterà le convergenze all’interno di un’Unione europea che rilancia la sua integrazione nel quadro delle misure post Covid.

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