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Che futuro ha il Partito repubblicano dopo il trattamento Trump?

Paola Peduzzi

Da John Lewis tutti i presidenti tranne The Donald. Le parole di Bush – “credere nell’America” – sono importanti

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Milano. Gli ex presidenti d’America si sono riuniti al funerale di John Lewis, il simbolo della battaglia per l’accesso ai diritti minimi di cittadinanza per la comunità afroamericana a metà del Novecento, e Donald Trump non c’era, lui non indugia in certi riti e simboli, va di fretta e da tutt’altra parte. I commentatori americani si sono dilungati nella cosiddetta “politica dei funerali”, analizzando le presenze e le assenze di Trump e cercando una coerenza introvabile perché neanche nel disprezzo questo presidente riesce a essere coerente, ma oggi suona ancora più rilevante la frase che disse la moglie del senatore John McCain quando scelse di non invitare Trump al funerale, il primo settembre del 2018. Vorrei che le cose, in questo giorno, si svolgessero “con dignità”, disse allora Cindy McCain, e ancora oggi i riti importanti della politica americana si svolgono con dignità quando Trump non c’è.

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Milano. Gli ex presidenti d’America si sono riuniti al funerale di John Lewis, il simbolo della battaglia per l’accesso ai diritti minimi di cittadinanza per la comunità afroamericana a metà del Novecento, e Donald Trump non c’era, lui non indugia in certi riti e simboli, va di fretta e da tutt’altra parte. I commentatori americani si sono dilungati nella cosiddetta “politica dei funerali”, analizzando le presenze e le assenze di Trump e cercando una coerenza introvabile perché neanche nel disprezzo questo presidente riesce a essere coerente, ma oggi suona ancora più rilevante la frase che disse la moglie del senatore John McCain quando scelse di non invitare Trump al funerale, il primo settembre del 2018. Vorrei che le cose, in questo giorno, si svolgessero “con dignità”, disse allora Cindy McCain, e ancora oggi i riti importanti della politica americana si svolgono con dignità quando Trump non c’è.

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A ricordare Lewis, c’erano Barack Obama, il primo presidente nero della storia, Bill Clinton, che era chiamato “il più nero dei presidenti”, e George W. Bush, che oggi con la sua presenza e le sue parole mostra, quasi più dei suoi colleghi, quanto Trump abbia distorto, maltrattato e poi preso in ostaggio la tradizione conservatrice degli Stati Uniti.

   

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Barack Obama ha, come sempre, rubato la scena a tutti. Ha salutato “il padre fondatore” John Lewis con un discorso potente e ritmato, ha raccontato perché Lewis ventenne – “era più giovane di Malia, la mia figlia grande” – fosse disposto a morire per una legge, il Voting Act, e perché oggi ancora è necessario battersi per il diritto di voto dei neri e delle minoranze, perché sono stati affinati altri modi meno espliciti, subdoli ed efficacissimi, per impedire di fatto a questi elettori di votare.

  

Come ha scritto lo stesso Lewis nel saggio postumo pubblicato due giorni fa dal New York Times, “la democrazia non è automatica”, va curata, controllata, nutrita, protetta. Bill Clinton ha ricordato che una delle abilità di Lewis e dei suoi “good troubles” era quella di trovare un angolo: “Avrebbe potuto essere rabbioso e determinato a cancellare i suoi avversari, cercava al contrario di convertirli”. La democrazia non è automatica ma deve essere contagiosa, un passaparola, la marcia che non si interrompe.

 

George W. Bush, che è meno bravo come oratore rispetto ai suoi colleghi e che si porta addosso le due guerre recenti degli Stati Uniti, in Afghanistan e Iraq, ha parlato poco più di cinque minuti, non ha ricevuto gli sdilinquimenti riservati agli altri due, ma ha ricordato Lewis come un uomo che ha saputo “affrontare rabbia e odio” senza diventare rabbioso e odiare tutti, un uomo che “credeva nell’America”. In questo dettaglio c’è la distanza che Bush con molti altri repubblicani – e cosa più importante, visto che siamo in campagna elettorale: donatori repubblicani – sta mettendo tra sé e Trump. Essendo un ex, Bush non deve fare i calcoli politici che toccano agli esponenti del Partito repubblicano che sono o aspirano a essere governatori, deputati e senatori – loro pensano al partito, alle maggioranze, allo scontro con i democratici, prematuramente rassegnati all’ingovernabilità del presidente Trump. Bush può farne una questione di valori conservatori, di tradizione culturale e soprattutto di fiducia nel paese che si guida, che in questo caso a sua volta guida parte del mondo. Se non credi nell’America, poi la prendi in ostaggio e ne fai quello che vuoi, o meglio: quel che ti serve. Il ruolo del Partito repubblicano è decisivo.

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La saggista Anne Applebaum denuncia chi collabora con Trump perché spacca in modo forse irreparabile il mondo conservatore. Il Lincoln Project, che è stato fondato da repubblicani ostili a Trump, risponde con ironia feroce a ogni bruttura del presidente, colpo su colpo per quanto dentro la bolla sociale. Peggy Noonan, che scriveva i discorsi a Ronald Reagan e che nel 2008 disse che la scelta di Sarah Palin alla vicepresidenza non era “un bene per il conservatorismo americano” e fu insultata dai repubblicani, ha scritto nella sua column sul Wall Street Journal: non facciamo l’errore di dare fuoco al Partito repubblicano. “Trump si sta dando fuoco da solo, qualcuno se n’è accorto?”, scrive la Noonan e quando lui non ci sarà più, il partito “andrà ripensato”. Le purghe e le fiamme di oggi non saranno un buon inizio, ma su questo conflitto si giocano molte chance elettorali di Trump, e continuare a porre le domande è quello che Lewis avrebbe definito “good trouble”.

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