PUBBLICITÁ

Il crimine di essere bianchi

Joshua Mitchell*

Una profonda distorsione del cristianesimo, quale è la politica delle identità, vuole sanare la storica ferita dell’America dividendo il paese in tribù razziali: da una parte i puri, dall’altra gli impuri

PUBBLICITÁ

Joshua Mitchell è docente di Political Theory alla Georgetown University di Washington. Il suo ambito di ricerca privilegiato riguarda i legami tra il pensiero politico e la teologia in occidente. Con questo articolo, inizia la collaborazione con il Foglio

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Joshua Mitchell è docente di Political Theory alla Georgetown University di Washington. Il suo ambito di ricerca privilegiato riguarda i legami tra il pensiero politico e la teologia in occidente. Con questo articolo, inizia la collaborazione con il Foglio

PUBBLICITÁ

   

Nessuna questione è oggi in America tanto controversa quanto quella razziale. E’ l’America davvero “sistematicamente razzista”, come sostengono i manifestanti di Black Lives Matter? Questa teoria, divulgata l’anno scorso dalla raccolta di saggi del New York Times “The 1619 Project”, circola da un certo periodo di tempo nel mondo accademico. L’omicidio di George Floyd, un nero, per mano di un poliziotto bianco, a Minneapolis, l’ha portata al centro della scena politica americana.

PUBBLICITÁ

     

Dal punto di vista statistico, gli omicidi di cittadini neri da parte delle forze di polizia sono più frequenti di quelli di cittadini bianchi. Tuttavia, se introduciamo nel rapporto anche la percentuale di crimini violenti commessi da neri, le statistiche non evidenziano alcun dato “sistemico”. Di fatto, anzi, in rapporto ai crimini violenti commessi risulta che sono i bianchi a essere uccisi dalla polizia più frequentemente dei neri. Ma questo argomento non ha cittadinanza nel dibattito di questi giorni. E nemmeno quello, avanzato da diversi esponenti conservatori afroamericani, secondo cui il problema più grande della comunità nera è la violenza perpetrata da neri su altri neri. Oggi, in America e nel resto del mondo, il nome di George Floyd è noto. Ma quante persone sanno il nome della bambina uccisa a Chicago di recente? A quanti importa? Cosa significa il fatto che così tante persone conoscono il nome di George Floyd e si mobilitano per porre fine al razzismo, mentre ignorano il nome di Natalia Wallace, la bambina nera di sette anni, innocente, colpita a morte nel corso di una sparatoria tra neri la sera del 4 luglio scorso?

   

Dal momento che sentiamo ripeterlo molto spesso in questi giorni, chiediamoci cosa significa che dobbiamo “porre fine al razzismo”. Negli anni Sessanta, al tempo della guida morale del reverendo Martin Luther King Jr., porre fine al razzismo voleva dire chiedere all’America di essere all’altezza della propria aspirazione a trattare tutti i suoi cittadini secondo il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge. Il reverendo King poteva, senza alcun imbarazzo, rifarsi alla Dichiarazione d’indipendenza del 1776 e al decreto di emancipazione di Lincoln del 1863. Quanto all’America restava ancora da fare nel campo dei diritti civili, era già contenuto e prescritto nei suoi documenti più sacri e non in contraddizione con essi – questa era l’opinione generale. Quando, nel 1963, l’Università dell’Alabama abolì la segregazione, l’idea era che anche i neri d’America avrebbero avuto l’opportunità di attingere al grande deposito di saggezza della civiltà occidentale – che Platone, Dante e Shakespeare non sarebbero più stati esclusiva dei bianchi. A rendere ancora possibile pensarla in questo modo era la comune disposizione morale americana – che tuttavia stava già iniziando a frammentarsi. Il protestantesimo, nella maggioranza degli americani, era ancora vibrante. 

   

PUBBLICITÁ

I protestanti americani erano ancora in grado di comprendere, a differenza di oggi, il senso che il libro dell’Esodo aveva per i neri d’America, così come il messaggio delle lettere di san Paolo che per “l’uomo nuovo” rigenerato nello spirito non c’è più “né giudeo né greco, né padrone né schiavo, né uomo né donna” (Gal 3, 28). Con questo san Paolo intendeva anche dire che, senza questa rigenerazione nello spirito, gli uomini non sono altro che un aggregato di tribù in lotta tra loro e ognuna al proprio interno.

PUBBLICITÁ

   

Gli americani capivano ciò che questo significava. Se volevano essere cristiani, dovevano smettere di essere tribali. Non potevano più, per usare il linguaggio odierno, invocare le loro “identità” e accontentarsi di fare quello.  Proprio perché erano cristiani, l’eguaglianza era importante. Il reverendo King parlava di eguaglianza ricorrendo ai passi delle scritture cristiane, e i credenti praticanti, sia bianchi sia neri, capivano la sua lingua.

PUBBLICITÁ

   

Nell’America di oggi è rimasto assai poco di questa configurazione degli anni Sessanta. Le confessioni protestanti un tempo maggioritarie sono a tutti gli effetti crollate – uno sviluppo cominciato in modo serio quando i soldati tornarono dalla Seconda guerra mondiale con la loro fede scossa, se non distrutta. Dopo la fine della guerra del Vietnam, gli americani, demoralizzati, cominciarono ad abbandonare le loro chiese in grandi numeri. Oggi la pratica religiosa declina di anno in anno e la maggioranza degli americani dichiara di non aderire ad alcuna confessione. Nemmeno la Chiesa cattolica se la passa bene. Per la delusione dei conservatori, si è arresa alla cultura americana sul controllo delle nascite e sull’aborto. Cosa ancora peggiore, la sua dottrina si è ridotta alla “giustizia sociale”, al punto che alcuni conservatori si sono chiesti se nei suoi attuali insegnamenti non ci siano più Marx e Nietzsche che i venerabili Padri della Chiesa. L’educazione di una volta, impartita da suore immuni al dubbio con metodi severi e spesso umilianti, è morta decenni fa. Oggi, nelle scuole cattoliche come in tutte le altre, ogni bambino riceve un premio, ogni bambino è “speciale”. Il Dio dell’ira che giudica con severità è stato rimpiazzato da un Dio dell’amore che accetta ogni bambino arrogante e autoindulgente così com’è.

    

Una cosa, però, non è sparita con il crollo del protestantesimo maggioritario e della Chiesa cattolica: il senso di colpa, insieme all’impellente bisogno di redenzione. Il cristiano capace di guardare con realismo alle cose vedrà che, anche se la Chiesa – ovvero ciò che perdona la colpa e dà la redenzione – viene degradata e abbattuta, il senso di colpa e il bisogno di redenzione restano con noi, perché sono inscritti nella condizione umana. La colpa non l’ha inventata il cristianesimo. Esso ha offerto un modo nuovo per redimersi da essa. Cristo ha indicato la via d’uscita da quello che era già il problema di Adamo. I discendenti di Adamo possono rifiutare la via di salvezza offerta da Cristo e dalla sua Chiesa, ma non possono liberarsi del fardello della colpa.

   


La categoria attraverso cui dobbiamo elaborare la colpa è il razzismo. Cosa possono dire su questo le chiese? Nulla    


    

Mentre abbandonavano la loro religione, gli americani iniziarono a flirtare con alternative secolari alla redenzione cristiana – la promessa salvifica del comunismo, oppure la negazione freudiana della radice religiosa della colpa e la speranza di trovare una redenzione nella psicoterapia –, ma nulla sembrava funzionare. Il senso di colpa era sempre più lancinante, e neanche le distrazioni della cultura consumistica riuscivano a metterlo a tacere. Anche la psicologia umanistica degli anni Ottanta e Novanta – che ora si rivela essere stata una copertura per l’emergente cultura del narcisismo – prometteva di seppellire la colpa una volta per tutte, senza esserne in grado.  

  

Oggi viviamo un’ulteriore fase di questo lungo sviluppo, in cui la colpa è di nuovo la questione centrale delle nostre vite. Marx, Freud e la psicologia umanistica d’un tratto non ci sembrano essere più di alcun aiuto, se non addirittura superficiali. Lo stesso vale per le chiese. La categoria attraverso cui dobbiamo elaborare la colpa, ci viene detto, è  il razzismo. Per la precisione il razzismo contro diversi gruppi identitari. Cosa possono dire su questo le chiese? Nulla, apparentemente. La parola razzismo non compare nella Bibbia, e nemmeno la parola identità. 

           


Lo slogan “porre fine al razzismo” non significa includere chi ne è fuori a partecipare ai benefici prodotti dalla civiltà occidentale


     

In un certo senso, stiamo attraversando un territorio nuovo. All’osservatore attento, tuttavia, non sfuggiranno gli strani paralleli tra questo apparentemente nuovo fenomeno che chiamiamo identity politics e il cristianesimo. La politica delle identità, come il cristianesimo, ha il suo peccato originale e il suo capro espiatorio “che toglie i peccati del mondo” (Gv 1, 29). Nel suo schema, il ruolo del peccatore irredimibile è occupato dal maschio bianco eterosessuale. Al tempo stesso egli è anche il capro espiatorio che, una volta sacrificato, libererà il mondo dai suoi peccati. Ecco di nuovo la speranza di mettere a tacere la colpa e di garantirsi la salvezza. 

   

Nello schema della politica delle identità, lo slogan “porre fine al razzismo” non significa affatto includere coloro che ne sono fuori a partecipare ai benefici prodotti dalla civiltà occidentale. Significa epurare il maschio bianco eterosessuale che ha costruito quella civiltà. Significa che il compito che ci viene ora assegnato è scovare ogni male perpetrato dai maschi bianchi occidentali e portare alla luce qualcosa di più profondo, il crimine della  whiteness, dell’essere bianchi.

     

All’interno di questo schema è logico il fatto che il nome di George Floyd, un uomo con molti precedenti penali, sia sulla bocca di tutti, ma invece a nessuno importi di Natalia Wallace, bambina nera di sette anni, innocente, uccisa in una sparatoria tra neri. Nel mondo costruito dalla identity politics il colpevole è per definizione il maschio bianco occidentale e tutti gli altri gruppi identitari possono accusarlo per le loro sofferenze, dal momento che essi per definizione sono  innocenti. I crimini commessi da questi gruppi autodefinitisi innocenti  devono  essere ignorati perché non quadrano con la narrativa di innocenza sottesa alla politica delle identità. E’ questo il motivo per cui la violenza perpetrata da neri su altri neri, di gran lunga la maggiore minaccia alla sicurezza dei neri d’America, rimane invisibile, e non c’è indignazione per la morte di Natalia Wallace.

   

“Porre fine al razzismo”, insomma, non c’entra niente col porre fine al razzismo. E’ l’eufemismo con cui viene chiamata la nuova eugenetica spirituale che caratterizza il nostro tempo. Il maschio eterosessuale bianco deve essere abbattuto; tutti gli altri, non importa quanto gravi possano essere i loro crimini, devono ascendere. La violenza dei neri su altri neri? Non importa a nessuno. La lunga storia dello schiavismo nel mondo musulmano? Nessuno ne parla. Per quanto orrende possano essere, le violenze perpetrate da questi e altri cosiddetti gruppi identitari non vengono fatte loro pesare perché per la politica delle identità essi sono, per definizione, le vittime innocenti – della schiavitù, del colonialismo eccetera. C’è un solo vero crimine, ed è la whiteness, l’essere bianchi.

    

Questa ricostruzione non spiega ancora, però, perché quanti partecipano alle proteste e ai disordini del movimento Black Lives Matter sono in grande maggioranza bianchi. La saggezza del libro della Genesi getta una luce sul motivo per cui così tanti bianchi sono tanto ossessionati dal “porre fine al razzismo”. Nel giardino dell’Eden, Adamo ed Eva a un certo punto si coprono con foglie di fico per non far vedere il fatto che sono nudi. I bianchi che aderiscono al movimento Black Lives Matter stanno facendo la stessa cosa: si stanno ammantando del loro “essere nel giusto”. Distruggono proprietà e arrivano, come si è visto, a fare la lezione a poliziotti neri schierati contro di loro pur di dimostrare che loro non sono come “gli altri” bianchi. Loro sono innocenti. Sono gli altri bianchi – i maschi eterosessuali bianchi che votano per Trump, che vogliono salvare i monumenti nazionali e le loro nazioni – a essere colpevoli. Il crimine è l’essere bianchi. I “giusti” sono quelli che si oppongono alla  whiteness  e che credono in Black Lives Matter. Il modo di “porre fine al razzismo” è perseguitare la  whiteness. I bianchi che partecipano alle proteste e ai disordini coprono con una foglia di fico la loro stessa  whiteness.

    

Quanto ho scritto finora non deve essere presentato come una difesa della whiteness. Tutt’altro. Il mio è un commento del modo alquanto malato in cui molte persone che si vedono come “bianche” pensano di potersi redimere da questa incancellabile macchia. Il senso di colpa bianco non risolve i problemi, anzi talvolta li peggiora. In uno di questi ultimi tentativi di “porre fine al razzismo”, dei bianchi hanno dato fuoco a negozi e imbrattato proprietà di neri, per poi tornarsene a casa nei loro quartieri privilegiati sentendosi a posto con se stessi. Ciò non aiuta a sanare la ferita razziale dell’America, ma solo a nutrire l’orgoglio di quanti pensano che, dicendo che la vita dei neri conta e partecipando alle manifestazioni e alle rivolte in nome di Black Lives Matter, avranno fatto la loro parte per curare una ferita che non si è ancora del tutto rimarginata. Ai tempi del reverendo Martin Luther King Jr. fu il cristianesimo a fare sì che l’America sanasse quella ferita. Oggi, una profonda distorsione del cristianesimo quale è la politica delle identità vuole sanare la ferita dividendo l’America in tribù razziali e dichiarando gli uni gli impuri e tutti gli altri i puri. Basta epurare il gruppo dei maschi bianchi eterosessuali e la ferita guarirà: ecco ciò che la politica dell’identità proclama. Se sei bianco, devi nasconderti dietro alla giustizia delle cause che fanno del maschio bianco eterosessuale il loro capro espiatorio – Black Lives Matter, il transessualismo, eccetera. Tutto ciò di cui il maschio bianco eterosessuale è autore – la nazione, il capitalismo, gli sporchi carburanti fossili, il razzismo, il patriarcato, la famiglia e la chiesa – deve essere combattuto. E’ questo l’unico modo per poter dormire bene la notte se ti concepisci come “bianco”. Ecco il mondo in cui viviamo oggi. Un mondo in cui assumere una posizione moralistica dà l’illusione di risolvere i problemi, ma in pratica non fa altro che esasperarli.

    

(traduzione di Giuseppe Perconte Licatese)

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ