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Nel rifugio dei cancellati

Micol Flammini

Si chiama Substack ed è una piattaforma di newsletter dove si stanno rifugiando le firme sfollate della cancel culture

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Quando Substack è stato fondato, era il 2017 e i fondatori si trovavano tutti a San Francisco, in pochi avevano colto quale fosse la missione di questa nuova piattaforma di newsletter.

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Quando Substack è stato fondato, era il 2017 e i fondatori si trovavano tutti a San Francisco, in pochi avevano colto quale fosse la missione di questa nuova piattaforma di newsletter.

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L’intenzione degli ideatori era quella di creare un altro modello per l’editoria, una comunità alternativa diretta a una cerchia di utenti, magari ristretta ma preziosissima, e basata su due princìpi: l’assenza di pubblicità e il valore aggiunto della scelta. Chi approda su Substack, secondo il ceo Chris Best, deve sentirsi libero di gestire il proprio impero di media, deve sentirsi eletto (perché gli utenti decidono se pagare o no una newsletter o l’altra), deve sentirsi invogliato a creare.

 

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E quando nel 2017 a San Francisco venivano messe giù le basi per questa nuova piattaforma i fondatori forse non si aspettavano che sarebbe diventata il rifugio di tante firme importanti. Si immaginavano più un piccolo ma curato palcoscenico per esordienti e appassionati, ma presto Substack è diventato il posto in cui ritrovare, e salvare, le idee di quelli che David Brooks, sul New York Times, definisce “i pensatori eterodossi” che in tempi di conformismi, di destra e di sinistra, e di cancel culture non trovano più spazio e non vogliono nemmeno più cercarlo nei media tradizionali.

 

Substack, ormai punto di incontro di nomi importanti, si sta sviluppando sempre di più e proprio il fatto che sempre più scrittori iniziano a considerarlo come il salvatore della loro libertà ha fatto sì che la piattaforma si trasformasse in un affare. La scorsa estate la società ha raccolto circa 15,3 milioni di dollari, consentendo agli autori di costruire le proprie reti di abbonamenti trattenendo il 10 per cento delle entrate.

 

La prima idea è stata quella di guardare al mondo dei media e dell’editoria al contrario, provare a immaginarlo nel futuro: guardare il passato, gli ultimi trent’anni in cui la distribuzione dell’informazione, soprattutto online, si è basata su un modello sostenuto dalle pubblicità, e immaginare (e anche indirizzare e cambiare) i prossimi trent’anni dell’informazione. Che secondo i fondatori di Substack saranno completamente diversi, innovativi, saranno proprio modellati dalla possibilità di scelta dei lettori: scelgo te, scrittore, perché mi piace quello che scrivi, come lo scrivi e sono disposto a pagare per leggerti.

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Fedele a queste idee, la piattaforma sta crescendo, sta mettendo a punto nuove strategie di business, e si è trasformata nel punto di incontro, nel rifugio di tutti coloro che in questi anni non hanno più trovato il loro spazio nei giornali o, sentendosi poco a loro agio, se ne sono andati.

 

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Così è stato per Andrew Sullivan, che ha lasciato il New York Magazine pochi giorni fa e adesso cura una newsletter su Substack che ha già sessantamila abbonati. La newsletter si chiama The Weekly Dish e gli ha consentito di riprendersi la libertà che, a causa di quella che lui chiama “nuova ortodossia”, aveva ormai perso sulle pagine del New York Magazine. Nel suo ultimo articolo in cui annunciava che era pronto ad andarsene, scriveva: “In questo mondo maniaco e manicheo, non hai nemmeno lo spazio per non dire nulla”. E questo spazio lui lo ha cercato attraverso la sua newsletter.

 

Su Substack si è ritrovato anche Matt Taibbi, collaboratore di Rolling Stone, ex reporter in Unione sovietica, di sinistra ma contestato dai circoli democratici per la sua abitudine a non aderire appieno alle idee liberal, di cercare “la complessità morale”, come scriveva Sullivan, nelle cose.

 

Per esempio, è un antitrumpiano scettico sul Russiagate. Anche la rivista conservatrice The Dispatch – fondata da Stephen Hayes e diretta da Jonah Goldberg, giornalisti conservatori insofferenti all’Amministrazione Trump – è approdata su Substack e le sue idee stanno funzionando: scrive Brooks che sulla piattaforma la rivista sta guadagnando circa 2 milioni di dollari all’anno con diecimila abbonati.

 

Tra i nomi noti che sono approdati al mondo delle newsletter si trova anche quello del giornalista politico di sinistra Judd Legum che nel 2018 ha aperto la sua newsletter su Substack, si chiama Progress Information, e conta 113 mila abbonati. In una recente intervista ha detto che l’idea che uno scrittore possa essere imprenditore di se stesso lo aiuta a produrre meglio, e sapere quante sono le persone disposte a pagare per leggere i tuoi contenuti, contenuti che crei soltanto per loro, è esaltante.

 

Legum aveva già iniziato un’esperienza simile, ma era il 2012 e aveva aperto un suo blog dal nome ThinkProgress, era un blog di successo, molto letto negli ambienti politici ma, racconta, non gli aveva dato la stessa sensazione di libertà e di produttività. Tanto più che l’èra dei blog è finita in fretta, chiusa definitivamente dall’arrivo dei social network, soprattutto di Facebook.

 

Substack ha cercato di guardare tutto quello che era accaduto negli ultimi anni e di dare un’alternativa, non inseguendo il passato, ma immaginando il futuro. La sua esistenza adesso sta aiutando chi cerca un rifugio in tempi di cancel culture, di pretese di “chiarezza morale”, del pensiero uniforme, ed è diventato il posto dei cancellati, di destra e di sinistra. Un bel mondo, per ora, ma non senza rischi, avverte David Brooks. Non è detto che il dibattito che sta facendo di Twitter il direttore del New York Times, come ha scritto Bari Weiss, non possa arrivare anche fino a Substack.

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