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Dopo la Terza via, le sinistre europee sono ancora alla ricerca di una visione comune

David Carretta

È dai tempi di Blair che il socialismo nell’Ue non trova la sua anima. Lo scontro sul Recovery fund, e tutti gli altri

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Bruxelles. Il negoziato sul Recovery fund, oltre a mostrare le divisioni tra i 27 stati membri dell’Ue, ha messo nuovamente in luce la frattura interna alla famiglia del socialismo europeo, con due anime che vanno in direzioni opposte su solidarietà finanziaria, politiche redistributive e riforme macroeconomiche. Sui quattro paesi “frugali” che hanno frenato il negoziato sul Recovery fund, due sono guidati da primi ministri socialisti (Danimarca e Svezia), mentre gli altri due hanno nella maggioranza di governo componenti che appartengono al campo progressista (i Verdi in Austria e i liberali di sinistra D66 nei Paesi Bassi). Anche la Finlandia, che si è aggregata ai “Frugal four” durante i quattro giorni di Consiglio europeo, ha una premier socialista. Tre capi di governo del Pse del nord scandinavo – la danese Mette Frederiksen, lo svedese Stefan Löfven e la finlandese Sanna Marin – si sono scontrati con virulenza contro altri due capi di governo del Pse del sud – lo spagnolo Pedro Sánchez e il portoghese António Costa – oltre che con Giuseppe Conte, che è espressione della strana maggioranza tra i populisti del M5s e il Pd. Fino al risultato paradossale che è toccato a una cancelliera cristianodemocratica, Angela Merkel, e a un presidente liberale, Emmanuel Macron, fare da pacieri tra le due anime molto diverse del Partito del socialismo europeo.

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Bruxelles. Il negoziato sul Recovery fund, oltre a mostrare le divisioni tra i 27 stati membri dell’Ue, ha messo nuovamente in luce la frattura interna alla famiglia del socialismo europeo, con due anime che vanno in direzioni opposte su solidarietà finanziaria, politiche redistributive e riforme macroeconomiche. Sui quattro paesi “frugali” che hanno frenato il negoziato sul Recovery fund, due sono guidati da primi ministri socialisti (Danimarca e Svezia), mentre gli altri due hanno nella maggioranza di governo componenti che appartengono al campo progressista (i Verdi in Austria e i liberali di sinistra D66 nei Paesi Bassi). Anche la Finlandia, che si è aggregata ai “Frugal four” durante i quattro giorni di Consiglio europeo, ha una premier socialista. Tre capi di governo del Pse del nord scandinavo – la danese Mette Frederiksen, lo svedese Stefan Löfven e la finlandese Sanna Marin – si sono scontrati con virulenza contro altri due capi di governo del Pse del sud – lo spagnolo Pedro Sánchez e il portoghese António Costa – oltre che con Giuseppe Conte, che è espressione della strana maggioranza tra i populisti del M5s e il Pd. Fino al risultato paradossale che è toccato a una cancelliera cristianodemocratica, Angela Merkel, e a un presidente liberale, Emmanuel Macron, fare da pacieri tra le due anime molto diverse del Partito del socialismo europeo.

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I contesti politici nazionali giocano un ruolo importante nelle posizioni dei leader della sinistra scandinava nell’Ue. Molto prima che nell’Europa del sud, è in Scandinavia e in altri paesi del nord che i populisti – il Partito del popolo danese, i Veri finlandesi, i Democratici svedesi, ma anche il Partito per la libertà di Geert Wilders in Olanda – hanno attratto voti, pescando nell’elettorato popolare e operaio che un tempo costituiva la base della socialdemocrazia. Ma l’ostilità di Frederiksen, Löfven e Marin per i sussidi a fondo perduto agli altri stati membri e la loro insistenza sulle riforme da parte dei beneficiari dimostrano che la frattura ideologica con la socialdemocrazia meridionale è molto profonda. Dopo l’irruzione della Terza via di Tony Blair, la famiglia del socialismo europeo non si è ancora riconciliata in una visione comune su come gestire le risorse pubbliche e organizzare economia e società.

 

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“I prestiti forniscono un incentivo più forte per fare in modo che il denaro sia usato in modo efficiente”, spiegava il premier svedese Stefan Löfven prima del Consiglio europeo sul Recovery fund. Frederiksen aveva più volte insistito sul fatto che finanziare la ripresa economica della Danimarca per lei era prioritario rispetto alla solidarietà europea. Il problema scandinavo non sono tanto i soldi, ma dove e come viene usato il denaro. Nell’ultimo ventennio, Svezia, Danimarca e Finlandia hanno compiuto un lungo viaggio di riforme strutturali volte a preservare un modello di welfare state compatibile con la crescita. I mercati del lavoro sono diventati più flessibili con la Flexicurity. In Danimarca si va in pensione a 67 anni, in Finlandia e Svezia a 68 anni (con alcune eccezioni). Svezia, Danimarca e Finlandia sono ai primi cinque posti per spesa in ricerca e sviluppo rispetto al pil nell’Ue. Pur seguendo il proprio modello, la socialdemocrazia scandinava ha abbracciato alcune ricette della Terza via blairiana, a cui i loro compagni meridionali non hanno mai veramente aderito.

  

I socialdemocratici del sud hanno vissuto le riforme più come un’imposizione dall’esterno – dalla Troika, dall’austerità di Bruxelles, dai mercati – che come una scelta. Oggi Sánchez vuole smantellare la liberalizzazione del mercato del lavoro. In Spagna si va in pensione a 65 anni, mentre in Italia il Pd ha mantenuto quota 100. Il Recovery fund viene visto come una grande occasione redistributiva, più che come strumento per investire e rendere le economie più resilienti. La frattura europea tra Pse del nord e Pse del sud va oltre il Recovery fund. Gli scandinavi sono in prima linea per opporsi a regole sul salario minimo nell’Ue, che invece viene rivendicato da Italia, Spagna e Portogallo. I governi di Danimarca e Svezia hanno anche una posizione molto più dura su migranti e asilo.

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