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Vita da apolide. Una serie Netflix per i senza stato

Giulia Pompili

Anche tra gli apolidi c’è una gerarchia. Si chiama Stateless ed è una serie tv australiana sui migranti che spiega il senso di perdere tutto

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La definizione di apolide, secondo le norme internazionali, è molto precisa. Si può diventare apolidi quando non è possibile ereditare la cittadinanza dei genitori, se la cittadinanza è negata dopo guerre, occupazioni, regime change. Ma c’è comunque una gerarchia anche tra gli apolidi: quelli riconosciuti, infatti, godono di (quasi) tutti i diritti dei cittadini dello stato in cui risiedono. E poi ci sono gli apolidi non riconosciuti, i senza stato.

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La definizione di apolide, secondo le norme internazionali, è molto precisa. Si può diventare apolidi quando non è possibile ereditare la cittadinanza dei genitori, se la cittadinanza è negata dopo guerre, occupazioni, regime change. Ma c’è comunque una gerarchia anche tra gli apolidi: quelli riconosciuti, infatti, godono di (quasi) tutti i diritti dei cittadini dello stato in cui risiedono. E poi ci sono gli apolidi non riconosciuti, i senza stato.

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“Stateless” è anche il titolo di una serie tv appena uscita su Netflix che parla del tema più importante per l’opinione pubblica di mezzo mondo, l’immigrazione. In Australia, come in America e in Italia, il dramma è politico e umano. I sovranisti qui da noi hanno spesso usato il “modello australiano” dei respingimenti per teorizzare la chiusura dei porti, l’affondamento dei barconi, eppure l’Australia, che come l’America è un paese di immigrati, ha un sistema completamente diverso da quello immaginato dai nostri.

 

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Un sistema imperfetto, doloroso, che cerca di fare i conti con i trafficanti di uomini, con l’integrazione, con la spinta populista anti immigrazione, con la sicurezza interna. Ma, ed è fatto forse più importante, il dibattito sull’immigrazione ha uno spessore diverso in Australia, soprattutto a livello politico.

 

“Il titolo della serie è usato in senso poetico, per affrontare il tema della perdita dell’identità e dell’appartenenza”, spiega Cate Blanchett, attrice australiana, ideatrice e produttrice di “Stateless”, in un podcast che è uscito in contemporanea con la serie, “Post Play: Stateless”. Tutti possono perdere qualcosa, ma dentro a un centro di detenzione per immigrati in Australia tutti perdono tutto. La serie racconta, in sei puntate, la storia di vari personaggi che in un modo o nell’altro si ritrovano lì, nel campo in mezzo al deserto. E’ ambientata all’inizio degli anni Duemila, quando il tema dei centri – sono prigioni? Non sono prigioni? E allora che cosa sono? – stava appena affiorando. 

 

Blanchett ripete, in tutte le interviste che ha fatto finora, che “Stateless” non è una serie politica. E’ una serie sulla sofferenza umana, sui senza stato che possono venire dall’Afghanistan o dall’Australia e hanno vissuto traumi diversi, con diverse intensità, ma poi da lì dentro vogliono solo fuggire. Scritta da sole donne australiane e diretta da sole donne australiane, la serie è stata criticata perché una delle protagoniste è una donna bianca australiana. Il personaggio di Sofie Werner, interpretato da Yvonne Strahovski, è però realmente esistito.

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E’ ispirato a Cornelia Rau, una donna con disturbo bipolare che è stata imprigionata per dieci mesi, tra il 2004 e il 2005, nel Centro di accoglienza di Baxter, vicino Port Augusta, nel sud dell’Australia. Quello fu uno dei primi centri a essere chiusi dopo le controversie legate al trattamento degli immigrati e alle proteste (e le fughe) che ne derivarono. Cornelia Rau scappava da una setta, non ricordava chi fosse, non aveva documenti con sé, fu riconosciuta soltanto quando la sua foto finì sui giornali. E i documenti, nella fiction come nella realtà, sono al centro di tutto: i trafficanti/truffatori, quelli che lasciano intere famiglie sulla spiaggia in attesa di un barcone che non arriverà mai, danno istruzioni in inglese.

 

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E mentre trasportano pachistani, tamil, afghani, curdi, dicono che i passaporti devono essere consegnati, lasciati indietro, perché l’unico modo per ottenere un permesso di soggiorno in Australia è dichiararsi senza stato. Ognuno di loro ha la sua storia, ognuno smette di essere sé stesso all’ingresso del centro di detenzione.

 

 

 

Non solo chi cerca asilo o una nuova vita in Australia. La forza della serie è quella di raccontare in modo efficace anche la vita degli altri: quella dei dipendenti dei centri di detenzione, che sfogano la propria rabbia o cercano solo uno stipendio, fino ai funzionari del governo che gestiscono le pratiche (il personaggio meglio costruito è forse quello di Claire Kowitz, del dipartimento per l’Immigrazione, che vorrebbe far andare avanti le cose come dice il governo, ma non sempre funziona).

 

In questi giorni il Parlamento australiano sta discutendo un emendamento alla legge sull’immigrazione che permetterebbe ai dipendenti dei centri di detenzione, che sono dipendenti amministrativi di società private e non Forze dell’ordine, di confiscare i telefoni cellulari dei migranti e di perquisire tutto ciò che ritengono, senza autorizzazione; quindi, in sostanza, di fare la polizia. I cellulari, però, sono considerati fondamentali per la tenuta psicologica di chi scappa e si trova nel limbo dei “senza stato”. “Stateless” non è una serie politica, ma fa intuire il perché.

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