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Gran circo Bruxelles

Gli sguardi del Consiglio europeo

David Carretta

I riti, i simboli, gli aneddoti e i secchioni. Storie dal vertice dei 27 in cui i leader prendono decisione vincolanti, e non si può sbagliare

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Bruxelles. Una grande stanza che può ospitare trecento persone per garantire il distanziamento sociale tra 27 capi di stato e di governo, un presidente del Consiglio europeo e una presidente della Commissione, più un paio di altri alti funzionari, tutti costretti a indossare mascherine protettive e a evitare strette di mano, baci e abbracci e brindisi. Il vertice europeo del Recovery fund è iniziato, e sono passati cinque mesi dall’ultima volta che i capi di stato e di governo si sono riuniti in un Consiglio europeo: era il 20 e 21 febbraio. Il coronavirus appariva ancora come un’epidemia limitata alla Cina, anche se alla vigilia del Vertice erano stati individuati il paziente zero e altri cinque positivi a Codogno. 

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Bruxelles. Una grande stanza che può ospitare trecento persone per garantire il distanziamento sociale tra 27 capi di stato e di governo, un presidente del Consiglio europeo e una presidente della Commissione, più un paio di altri alti funzionari, tutti costretti a indossare mascherine protettive e a evitare strette di mano, baci e abbracci e brindisi. Il vertice europeo del Recovery fund è iniziato, e sono passati cinque mesi dall’ultima volta che i capi di stato e di governo si sono riuniti in un Consiglio europeo: era il 20 e 21 febbraio. Il coronavirus appariva ancora come un’epidemia limitata alla Cina, anche se alla vigilia del Vertice erano stati individuati il paziente zero e altri cinque positivi a Codogno. 

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La priorità era un’altra. Dopo due anni e mezzo di negoziati, occorreva trovare un accordo all’unanimità sul bilancio 2021-27 dell’Ue. Il Consiglio europeo si era concluso senza accordo per una manciata di miliardi in sette anni. Il veto dei paesi frugali, costretti a mettere ulteriormente mano al portafoglio a causa della Brexit, paralizza i negoziati. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, prima di lasciare Bruxelles, rassicurava sul coronavirus: “Siamo già al livello di massima preoccupazione”, bisogna “scacciare via qualsiasi allarmismo sociale, qualsiasi panico”. Poche settimane dopo l’allarmismo e il panico faranno venire giù in poche ore alcuni pilastri dell’Ue. Le richieste di aiuto dell’Italia su mascherine rimangono inascoltate. Francia e Germania bloccano le esportazioni di materiale protettivo e di respiratori. L’Ungheria alza unilateralmente le frontiere, seguita a ruota da (quasi) tutti gli altri, malgrado gli appelli della Commissione perché il virus non si ferma con i controlli su persone e merci ai confini. I lockdwon a catena mandano in ibernazione le economie degli stati membri. E quello che sembrava un problema principalmente italiano – una crisi sanitaria che si trasforma in collasso economico – diventa una tragedia europea per morti e caduta del pil. Oggi i leader ricominciano da dove si erano lasciati: la ricerca di un accordo sul bilancio 2021-27, a cui si è aggiunto un piano per la ripresa senza precedenti da 750 miliardi, che consentirà all’Ue di fare debito comune per aiutare gli stati membri più colpiti.

  

 

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In questi cinque mesi, caratterizzati da egoismi, scambi di accuse, rancori, ma anche slanci inediti di solidarietà, i capi di stato e di governo si sono visti solamente in videoconferenza. Prima a metà marzo per cercare di rimediare alla chiusura delle frontiere. Poi a fine marzo per scontrarsi su Mes e Coronabond, con una virulenza raramente vista nell’Ue. Successivamente in aprile per fare la pace e costruire un piano straordinario per affrontare l’emergenza, mettendo a disposizione 540 miliardi attraverso il Mes, Sure e la Bei per proteggere i debiti sovrani, i posti di lavoro e le imprese. Ancora a maggio per mettere il sigillo sull’accordo raggiunto all’Eurogruppo sul Mes. Infine a giugno per iniziare a preparare la discussione sul Recovery fund. Ma, quando si tratta di e sui soldi, la videoconferenza non basta più. Troppo complicato discutere a 27 via cavo, anche quando whatsapp e sms vengono in aiuto. Ragioni politiche e giuridiche costringono a prendere qualche rischio in più e, dopo cinque mesi, vedersi di nuovo in modo fisico. Il negoziato sul bilancio Ue – e il Recovery fund rientra nel budget – è così complicato che esige qualche rischio sanitario in più. Bisogna trattare su cifre complessive e singole poste, fare calcoli al volo per capire quale stato membro paga di più e quanto, accettare sconti per gli altri che fanno aumentare il conto nazionale, verificare se gli interessi delle proprie costituency (agricoltori, regioni più povere, ricercatori, studenti Erasmus) vengono tutelati, impegnare il proprio paese – e dunque il proprio Parlamento e i futuri governi – a stanziare risorse nazionali a favore dell’Ue per gli anni a venire o a accettare tasse europee.

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Il Consiglio europeo non è un vertice come tanti altri a livello internazionale. E’ una riunione formale, le cui conclusioni legano le mani dei paesi firmatari. Le 27 persone che si siedono attorno al tavolo non impegnano solo loro stesse, ma la firma sovrana dello stato che rappresentano. Dire “sì” alle sanzioni alla Russia al Consiglio europeo è una decisione carica di conseguenze da cui non si torna indietro facilmente. Accettare la neutralità climatica nel 2050 non è solo un “beau geste” nei confronti di Greta Thunberg perché mette in moto una macchina legislativa inarrestabile. Figurarsi sulle cifre di un bilancio da oltre un trilione di euro, a cui si aggiungono i 750 miliardi del Recovery fund per sostenere la ripresa dell’Ue. Una frase, una parola, a volte perfino una virgola delle conclusioni del Consiglio europeo possono spostare centinaia di milioni di euro a favore di un paese e il conto lo pagherà un altro. Le cronache raccontano che una volta Romano Prodi si appisolò durante un negoziato notturno sulla riforma del Trattato e si risvegliò con l’Italia che aveva perso un seggio al Parlamento europeo (fu recuperato al Consiglio europeo successivo aggiungendo il presidente ai 750 deputati). Merkel, che partecipa ai Vertici europei da quasi 15 anni, sa bene che ogni parola delle conclusioni conta. Come il premier olandese, Mark Rutte, che bazzica il Consiglio europeo dal 2010. Entrambi sono considerati i leader più abili – e temibili – in tutti i negoziati che toccano gli interessi del loro paese. Si preparano a lungo, studiano i dossier fino all’ultimo dettaglio, costruiscono coalizioni, si presentano con obiettivi prefissati, possibili alternative, linee rosse e vie di fuga, argomenti per convincere alleati e avversari. Salvo rarissime eccezioni, Merkel e Rutte possono sempre rivendicare veri successi. Non si può dire altrettanto degli altri capi di stato e di governo.

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Il Consiglio europeo è tutto un rito. E ogni leader ha il suo stile. I presidenti francesi – Emmanuel Macron come i suoi predecessori François Hollande, Nicolas Sarkozy e Jacques Chirac – arrivano sempre al palazzo “Europa”, dove si tengono le riunioni dei capi di stato e di governo, con grandi dichiarazioni di principio, battaglieri, sottolineando l’importanza del motore franco-tedesco, perché molto spesso la Francia si mette in scia della Germania. Rutte, che è un frugale, lascia macchina e autista fuori dalla sede del Consiglio europeo e supera i cancelli a piedi, con tutta la delegazione olandese. Il lussemburghese Xavier Bettel, premier di uno dei più piccoli stati membri, si presenta ai “door step” con la stampa sempre loquacissimo, a volte con la camicia fuori dai pantaloni (causa il viaggio in auto di un paio d’ore dal Gran Ducato), sparando dichiarazioni a effetto nella speranza di strappare qualche riga sulle agenzie. Giuseppe Conte è sempre impeccabile, con cravatta e pochette in ordine, anche nel pieno della notte dopo ore di discussioni e negoziati, quando gli abiti degli altri sono stropicciati quanto gli occhi. Il bulgaro Boyko Borisov è quello che se ne va prima degli altri, quando la riunione non è ancora finita, ma è il segnale che ci siamo quasi che consente ai giornalisti di prepararsi a una serie di conferenze stampa che prolunga il loro lavoro ben oltre la conclusione del Consiglio europeo.

  

Dentro la sala dove si riuniscono i leader, il rito del Consiglio europeo inizia con i saluti, le presentazioni per i nuovi arrivati, le pacche sulle spalle, i baci e gli abbracci (ma non questa volta). Entrare nella sala e restare isolato è già di per sé un segnale politico. Se Merkel ti ignora – ancora peggio se ti volta le spalle – vuol dire che sei messo al bando. Buona parte degli altri faranno altrettanto. Capitava regolarmente al greco Alexis Tsipras nel primo semestre del 2015, quando con Yanis Varoufakis portò il suo paese sulla porta di uscita della zona euro. E’ capitato un paio di volte nel 2018-19 anche a Giuseppe Conte, quando alla testa del governo giallo-verde sfidava le regole di bilancio. Mettere a repentaglio la zona euro significa mettersi contro tutti gli altri. Un peccato più grave di violare i principi dello stato di diritto, come accade con Viktor Orbán in Ungheria o i premier polacchi dei nazionalisti del PiS. A incrinarsi è la fiducia personale tra leader che sta alla base del funzionamento del Consiglio europeo. Ci si può scontrare, possono esserci battaglie epiche, vittorie e sconfitte. Ma è vietato far tremare le fondamenta della prosperità di tutti. I kamikaze o il gioco del pollo (della teoria dei giochi) sono banditi. Uno degli insegnamenti della crisi della zona euro del 2010-12, ma anche della risposta al coronavirus, è che l’Ue è pronta a fare grandi balzi in avanti nell’emergenza quando tutti sono pronti a collaborare. Merkel è pronta anche a perdere, quando sono in gioco gli interessi di tutti. E’ successo nel 2012, quando Mario Monti riemerse da un lungo negoziato alle 4 del mattino cantando vittoria. Tutti pensavano alla vittoria dell’Italia sulla Germania agli europei di calcio. Invece fu una vittoria contro la Germania sulla creazione dell’unione bancaria, che permise a Mario Draghi di lanciare lo scudo antispread dell’Omt.

  

Il rito del Consiglio europeo inizia con un discorso del presidente del Parlamento europeo. Solo quando ha lasciato la sala, iniziano le cose serie. Dopo il suono della campanella, ciascun leader può parlare per tre minuti per ogni punto all’ordine del giorno, ma in molti sforano il contingentamento. Un primo giro di tavolo può durare oltre tre ore senza che siano iniziati i negoziati. Ad ascoltare c’è un “Antici”: un funzionario che fa un resoconto scritto, che viene immediatamente trasmesso alle delegazioni per aggiornare i diplomatici sull’andamento della discussione. Le trattative sono in realtà state preparate dagli ambasciatori degli stati membri al Coreper, dagli sherpa dei capi di stato e di governo, dai ministri per gli Affari europei. Rimane il fatto che la bozza di conclusioni è oggetto di negoziati intensi. Quelli più seri avvengono negli uffici delle delegazioni nazionali – quello dell’Italia è di fianco all’Olanda – dove si tengono i bilaterali, trilaterali o quadrilaterali. Le ore passano, gli sherpa si incontrano tra loro e con i loro capi. Il presidente del Consiglio europeo a volte convoca minisummit con i protagonisti dei bracci di ferro (quasi sempre ci sono Merkel, Macron e Rutte). Il presidente della Commissione – la presidente con Ursula von der Leyen – gioca invece un ruolo secondario: presente a tutte le discussioni, viene interrogato, consultato, ma senza una reale capacità di incidere. Chi conta sono i capi di stato e di governo. E contano più quelli dei grandi paesi in un ordine politico-protocollare che è il risultato di un complesso algoritmo fatto di popolazione, pil, durata in carica del leader, autorevolezza. Le sessioni plenarie vengono convocate, interrotte, riconvocate nella prima serata del Vertice, che a volte diventa notte. Ci si rivede normalmente per una seconda giornata di discussioni, dedicata a questioni meno controverse. Fino alla fine del rito, quando c’è accordo sulle conclusioni. E tutti possono prepararsi a tornare a casa, con un passaggio più o meno rapido davanti alla stampa nazionale, prima di dirigersi verso l’aeroporto dove gli aerei di stato tengono i motori accesi.

   

A guidare il rito del Consiglio europeo è il suo presidente, che dal trattato di Lisbona è scelto per un mandato di due anni e mezzo rinnovabili dai capi di stato e di governo. Ciascuno ha avuto il suo stile. Il belga Herman van Rompuy – tra il 2009 e il 2014 – conduceva i negoziati tra i 27 come un mediatore tra fiamminghi e francofoni nel suo paese: preparava un compromesso precotto con Berlino e Parigi, lasciava tutti esprimersi, poi trascinava le discussioni fino all’alba, quando i leader esausti erano disposti a dare l’assenso a qualsiasi cosa pur di andare a dormire. Il polacco Donald Tusk – tra il 2014 e il 2019 – si è dato un profilo più politico, cercando di esercitare una leadership vera su temi come la Russia, la Brexit e la democrazia, anche a costo di essere costretto a marce indietro imbarazzanti perché Germania e Francia non avevano dato il loro accordo. Ma se la zona euro è ancora tutta intera lo si deve anche a lui: fu Tusk nel luglio del 2015 a richiamare Merkel e Tsipras nel suo ufficio per tentare un ultimo compromesso all’alba, quando la cancelliera aveva già deciso di lasciar la Grecia uscire dall’euro. Il belga Charles Michel – in carica da appena otto mesi – ha avuto un inizio difficile. Il suo primo Consiglio europeo a dicembre è stato dedicato all’addio del Regno Unito causa Brexit. Il secondo vertice in febbraio è fallito per il mancato accordo sul bilancio 2021-27. Poi è arrivato la crisi del Covid-19, durante la quale – almeno all’inizio – il presidente del Consiglio europeo che non è riuscito a persuadere i suoi ex colleghi a collaborare. Michel ha cambiato il suo capogabinetto (François Roux, un diplomatico belga vecchio stile, ha lasciato il posto al più giovane e dinamico Frédéric Bernard). Ma alcuni hanno iniziato ad avere dubbi sulle capacità di leadership di Michel. Almeno sul Recovery fund, però, sarà un altro leader a condurre il rito. Dopo che la Germania ha assunto la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, Merkel si è data la missione di portare a buon fine il negoziato. La cancelliera intende usare tutta la sua autorità per arrivare a un’intesa. Se non oggi e domani, in un altro vertice straordinario nei prossimi giorni. E' il compleanno della Merkel, e l’accordo sulla solidarietà è il regalo che ha scelto per sé, e per l’Europa.

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