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Intervista con Di Maio, ora anticinese ed europeista

Daniele Ranieri

I rapporti con l’Egitto. Il colloquio con Draghi (“incontro proficuo”). Gli elogi dalla Merkel. La Libia da difendere “con i denti”. La prossima missione militare dell’Italia contro i terroristi e le misure contro le infiltrazioni della Cina. Parla il ministro degli Esteri

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Di Maio dice che i pozzi dell’Eni in Libia sono asset geostrategici dell’Italia e quindi “vanno difesi con i denti”. Di Maio racconta l’elogio ricevuto dalla Merkel (mi si avvicinò e mi disse: “Mi parlano bene di te”). Di Maio spiega la necessità della prossima missione militare dell’Italia – già autorizzata e finanziata – contro i terroristi nel Sahel africano, perché “se quei paesi collassano i problemi arriveranno fin da noi”. Di Maio elogia il potere negoziale dell’Unione europea perché è molto più alto di quello dei singoli paesi e quindi conviene a tutti i paesi membri che sia l’Unione europea a negoziare verso l’esterno – ed è lo stesso argomento usato dall’ex primo ministro britannico Tony Blair qualche mese fa.

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Di Maio dice che i pozzi dell’Eni in Libia sono asset geostrategici dell’Italia e quindi “vanno difesi con i denti”. Di Maio racconta l’elogio ricevuto dalla Merkel (mi si avvicinò e mi disse: “Mi parlano bene di te”). Di Maio spiega la necessità della prossima missione militare dell’Italia – già autorizzata e finanziata – contro i terroristi nel Sahel africano, perché “se quei paesi collassano i problemi arriveranno fin da noi”. Di Maio elogia il potere negoziale dell’Unione europea perché è molto più alto di quello dei singoli paesi e quindi conviene a tutti i paesi membri che sia l’Unione europea a negoziare verso l’esterno – ed è lo stesso argomento usato dall’ex primo ministro britannico Tony Blair qualche mese fa.

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Mentre trascrivo le risposte che il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, mi ha dato per telefono dal suo ufficio alla Farnesina sento che sto male per Marione. Marione, al secolo Mario Improta, era un disegnatore che guidava sui social l’orda dei grillini della prima ora. Era uno che glorificava l’ideologia del movimento con vignette molto aggressive e rappresentava alla perfezione (ha lasciato il Movimento qualche mese fa) l’irruzione in Italia del populismo sui resti della Seconda Repubblica. Uno che disegna l’Europa come Auschwitz, un lager da cui dovremmo scappare, oppure come un mostro che trascina in catene l’Italia raffigurata come una bella schiava vestita con il tricolore, o ancora vede la Germania come una matrigna cattiva che costringe l’Italia a lavare il pavimento. Sto male (si fa per dire: è un artificio retorico) per lui e per tanti altri, come il sottosegretario Manlio Di Stefano e Alessandro Di Battista, che dicevano cose appena meno sanguigne. E sto male anche per Davide Casaleggio, fondatore del Movimento 5 stelle e proprietario della Casaleggio Associati, che oggi secondo i giornali è il custode di quel che resta della matrice grillina originaria.

 

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Il trentaquattrenne ministro Di Maio è stato a lungo l’uomo messo in giacca e cravatta in testa all’orda a fare da portavoce e capo politico. Poi l’orda alle sue spalle si è in gran parte dissolta, ha cambiato tono, ha perso spinta propulsiva e Di Maio è rimasto sempre lì in testa, con un curriculum enorme – in due anni è stato vicepremier e ha occupato tre ministeri – e davanti la prospettiva di non essere più eletto a causa della confusa regola dei grillini sulla ineleggibilità di chi ha già fatto mandati in Parlamento. Ma questa, la prima volta di Luigi Di Maio con il Foglio, è un’intervista tutta e soltanto di politica estera. Anche se, come vedremo, è difficile parlare del mondo senza toccare quello che succede in Italia. È stata fatta mercoledì 8 luglio tra l’una e le due del pomeriggio ed è divisa in quattro blocchi: Europa, Libia, Cina e resto del mondo. In più c’è stata una domanda aggiuntiva via WhatsApp a proposito dell’incontro con Mario Draghi, ex presidente della Banca centrale europea.

  

L’UNIONE EUROPEA PIÙ FORTE

Pedro Sánchez, il capo del governo spagnolo, ha detto in un’intervista al Corriere che Italia e Spagna hanno dato una risposta titanica alla crisi coronavirus e che lui crede che questa risposta sia un passo verso gli Stati Uniti d’Europa. Anche secondo lei la risposta dell’Italia alla crisi coronavirus è un passo verso un’Unione europea più forte?

“Sicuramente in questi giorni non si discute soltanto di quante risorse e quali nuovi strumenti finanziari bisogna mettere sul tavolo, ma anche di come riformare le istituzioni europee. Oggettivamente ne stavamo già parlando prima della pandemia, era stata lanciata la conferenza sul futuro dell’Unione europea, proprio perché anche nel mandato di Ursula von der Leyen – al quale abbiamo partecipato anche noi, come forza politica e come forza di governo – c’era una profonda revisione del sistema istituzionale europeo. Dove si approderà dipenderà anche da noi e da come in questi giorni sapremo cogliere l’occasione di una Ue più unita. Cioè, se il Next Generation Eu sarà un piano ambizioso, necessariamente avremo la spinta politica a livello europeo anche per disegnare un’architettura istituzionale più ambiziosa. E credo che su questo convengano tutti. Ma aggiungo di più. E’ un momento in cui a livello di altre entità sovranazionali si discute di come diventare più forti, la Nato ha nominato un Comitato dei saggi, le Nazioni Unite parlano della revisione delle regole interne da anni, c’è un’esigenza in questo momento di rafforzare le istituzioni internazionali e sovranazionali per affrontare delle sfide globali. Tra queste c’è anche il coronavirus”.

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Visto che parliamo di Europa e strumenti finanziari, parliamo di Mes: è sempre un tabù o ci sono condizioni alle quali diventerebbe accettabile?

“Guardi, su questo lo dico con molta chiarezza: è stato il presidente Conte a dire che non serve. Poi io aggiungo in questo momento anche un’altra cosa, noi stiamo facendo un negoziato per un piano – Next Generation Eu – ambizioso, con tante risorse, e l’Italia è il primo promotore di questo piano, quindi è molto importante in questo momento nel negoziato ambire al massimo risultato. Gli strumenti singoli, Sure, Bei, Mes, sono una parte di un negoziato molto più grande che ambisce a creare il Recovery Fund, quindi anche dal punto di vista del negoziato condivido la linea del presidente del Consiglio che dice: adesso è il momento di negoziare, non parliamo di altri strumenti, perché altrimenti ci indeboliamo nella fase negoziale”.

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Quindi è una tattica negoziale? Non nominiamo il Mes perché altrimenti ci indeboliamo.

“Non credo che sia una tattica negoziale. Credo che se noi stiamo ambendo a usare un altro strumento, molto più grande, ed è bene che la nostra ambizione si concentri su quello”.

 

Per ora qual è l’incontro che l’ha più colpita in questa esperienza da ministro degli Esteri? Ha cambiato idea su qualche cosa in questo periodo passato al vertice della Farnesina rispetto a prima – e in particolare rispetto a quando i Cinque stelle erano un movimento di opposizione?

 “La prima è sicuramente la liberazione di Silvia Romano. Non la liberazione in sé perché sapevo che i nostri servizi ci stavano lavorando da tanto tempo e anche il nostro corpo diplomatico, ma la speculazione che si è fatta su una ragazza di 25 anni, solo perché indossava il velo dopo quasi due anni di prigionia, e anche l’ipocrisia di chi voleva attaccarla, di chi per nascondere la propria cattiveria continuava ad attribuire al governo i motivi degli attacchi, come se mostrare la liberazione di una nostra concittadina possa essere una colpa, e questo da parte di persone che non hanno nemmeno il coraggio di guardarsi allo specchio. Non so, magari qualcuno voleva che nascondessimo Silvia Romano, questa sicuramente è una delle cose che mi ha colpito di più. Mi arrivavano richieste da tutta Italia per chiedere la liberazione, per chiedere di lavorare alla liberazione, abbiamo lavorato sei mesi, la nostra intelligence mi ha fornito la prova in vita mesi prima e noi non potevamo dirlo alla famiglia, siamo riusciti a liberarla e si sono scatenati un odio e una cattiveria incredibili nei suoi confronti. Quando invece basta considerare che quella ragazza aveva 23 anni quando è stata rapita ed è rimasta in stato di prigionia per un anno e mezzo per capire di che sofferenza stiamo parlando. L’altra cosa che mi ha colpito tra gli incontri, parlare con lo zio di Chico Forti. E’ un tema che noi stiamo seguendo con grandissima attenzione. Il Covid ha rallentato alcune procedure che avevamo avviato con il governo degli Stati Uniti, ma ripeto su Chico Forti l’attenzione è alta e credo sia opportuno seguire il caso con un profilo adeguato, perché secondo me un atteggiamento sobrio e di dialogo con il governo americano può portare molti risultati. E infine le racconto uno scambio avuto con la cancelliera Angela Merkel durante la conferenza di Berlino quando – quasi nessuno lo sa – si è avvicinata e mi ha detto: ‘Io ho sentito parlare bene di lei, Di Maio. Mi parlano bene del suo lavoro’. Insomma, è stata una cosa che era difficile da immaginare nella mia vita ed è stata un’altra cosa che mi ha colpito da ministro degli Esteri”.

 

E l’incontro con Mario Draghi?

“Guardi, è stato un incontro istituzionale come ne tengo molti altri. In qualità di ministro degli Esteri è naturale che io interloquisca e abbia un dialogo anche con l’ex presidente della Bce Mario Draghi. Non ci vedo nulla di strano. C’è stato uno scambio di vedute su vari temi specificatamente in virtù del ruolo che ha ricoperto ai vertici della Banca centrale europea. È stato un incontro cordiale e proficuo, mi ha fatto un’ottima impressione”.

 

A Londra il governo di Boris Johnson deve fronteggiare la crisi coronavirus e in più deve realizzare ancora la Brexit, che di sicuro non si può dire compiuta.

“La scelta di uno stato di uscire dal progetto europeo non è mai stata considerata, da parte di un paese fondatore come l’Italia, una vittoria. Detto questo il referendum del 2016 è stato una scelta sovrana, va rispettata, il popolo inglese non va punito per questa scelta e credo anche che in più di un’occasione, con le ultime elezioni politiche che ci sono state nel Regno Unito, si sia dimostrato che il popolo britannico vuole andare in questa direzione. Quindi il nostro obiettivo adesso è: prepararci al futuro, piuttosto che giudicare il passato. Bisogna sostenere il negoziatore per l’Unione europea sulla Brexit, Michel Barnier, per ottenere il miglior risultato dal punto di vista del mercato unico europeo, e allo stesso tempo noi dobbiamo fare in modo che l’accordo di recesso non danneggi l’economia italiana, anzi che i rapporti commerciali vadano avanti. Non cadrei nella tentazione, questo lo dico sempre agli stati europei, di chiuderla bilateralmente perché il peso negoziale che l’Unione europea ha nei confronti della Gran Bretagna nell’accordo di recesso è molto più grande del peso del singolo stato che va a negoziare bilateralmente. Questo è molto importante”.

  

L’Unione europea ci viene utile perché ha il peso di una moltitudine di stati, non di un governo…

“Sì sì, più volte ho sostenuto, per esempio anche con gli accordi di rimpatrio sui migranti, che quando interviene l’Unione europea il peso negoziale è molto più grande perché banalmente per quanto riguarda i rapporti commerciali parla a nome di tutto il mercato unico e non del mercato interno di un singolo paese, e ha un potere economico molto più forte”.

 

GUERRA IN LIBIA. PARLARE CON TUTTI, MA MANDEREMO SOLDATI A TRIPOLI E NEL SAHEL

In Libia il governo italiano ha tentato per tutti i quattordici mesi di guerra civile seguiti all’attacco a sorpresa del generale Khalifa Haftar contro Tripoli nell’aprile 2019 di mediare tra le due parti. La triangolazione è andata male, soprattutto perché entrambe le parti hanno degli sponsor stranieri che mandano soldi, armi e uomini per far andare avanti la guerra. E questo ha messo l’Italia – e un po’ tutti in Europa, ma noi siamo più coinvolti – in una posizione imbarazzante, costretta a dover inseguire le bizze dei libici e a riceverne rifiuti. Alla fine sul campo ha prevalso Tripoli grazie all’intervento armato della Turchia e per ora la situazione è sospesa: la Libia è sempre divisa in due e tutti sono tornati ai punti di partenza, ma con molte più armi e molta meno fiducia di prima.

 

La Libia è un paese che ci interessa molto per tante ragioni. L’Italia durante questa guerra civile di quattordici mesi si è tenuta equidistante dai due contendenti, Fayez al Serraj e Khalifa Haftar. Eppure era stato Haftar a cominciare la guerra, con il suo attacco contro Tripoli, e ad annullare tutto il processo di pace. È stato giusto trattare entrambi allo stesso modo? Non avremo dato troppo credito a Haftar? In fin dei conti è stato costretto a ritirarsi. Inoltre il governo di Serraj è un nostro alleato, abbiamo degli accordi importanti con Tripoli, e però nel momento della crisi non abbiamo preso una posizione netta a suo favore.

“Credo che dobbiamo partire dall’obiettivo: il nostro obiettivo è sempre stato quello di creare una soluzione politica globale per le parti libiche, condannando il ricorso all’azione militare. Per questo motivo in questi mesi abbiamo avuto il dialogo come unico strumento di iniziativa politica, e per fare questo abbiamo dovuto mantenere aperti i canali di comunicazione con tutte le parti libiche. Però questo non va confuso con l’equidistanza. Da un lato c’è chi ha dato il via a un’offensiva con conseguenze drammatiche e dall’altra c’è il governo legittimo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Ora che il governo di Tripoli ha assicurato il controllo della capitale e ripreso il controllo della Tripolitania abbiamo di fronte una priorità, che è quella di tornare a negoziare e concludere un cessate il fuoco duraturo. Per fare questo tutte le parti libiche devono mostrare moderazione, e vale per tutti gli attori coinvolti in Libia, il loro ruolo dev’essere autenticamente costruttivo. Abbiamo sempre scelto di tenere un canale di comunicazione aperto con tutte le forze libiche, ma allo stesso tempo i nostri rapporti con Tripoli non si sono mai allentati, neppure nella fase più acuta della crisi. Lo dimostra la permanenza della nostra ambasciata a Tripoli, nella capitale libica, che è stato secondo me un importante segnale di sostegno al governo di accordo nazionale in un momento di grandissima difficoltà e grazie all’ambasciatore Buccino abbiamo potuto tenere aperto un dialogo autentico di cooperazione e direi di amicizia. A questo si aggiunge il fatto che, come mi è stato confermato a Tripoli lo scorso 24 giugno, in Libia c’è una grande voglia di Italia. Ora per il nostro paese si tratta di mettere a frutto questo capitale di credibilità. Io credo che lo stiamo facendo. Lo facciamo con delle azioni che sono in linea con la nostra postura, come l’operazione di sminamento che faranno i nostri soldati. Abbiamo confermato gli impegni alla collaborazione e allo sviluppo e poi faremo altri interventi. A questo si aggiunge il fatto che, oltre a garantire sovranità e integrità della Libia e sostenere il popolo e le istituzioni libiche, abbiamo sempre lavorato per difendere i nostri asset geostrategici, e per fare questo stiamo lavorando allo sblocco dei pozzi, e quindi all’esportazione di petrolio e gas. Dobbiamo dirci chiaramente che l’Eni è lì. I nostri asset geostrategici sono lì. La nostra ambasciata è lì per tutelare anche i nostri asset geostrategici e lo facciamo anche con l’ottica di poter cogliere nuove opportunità legate proprio all’amicizia che abbiamo con il governo di Tripoli”.

  

Quindi ci crediamo in questo governo Serraj a Tripoli?

“Personalmente ho sempre sostenuto che noi dobbiamo aiutare il popolo libico, abbiamo avuto sempre ottime relazioni con il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite. Lo sminamento significa salvare vite, ci sono bambini che sono saltati in aria sulle mine qualche settimana fa. Significa rafforzare una presenza che già c’è, i militari in Libia, con l’ospedale di Misurata. Significa rafforzare la cooperazione allo sviluppo con gli aiuti ai municipi che abbiamo confermato [sono gli accordi fatti dall’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, nel 2017] e significa anche permettere alle nostre aziende che stavano lavorando in Libia – e che devono riprendere alcuni lavori che stavano svolgendo là – di lavorare in sicurezza”.

 

Il senatore Fabrizio Ortis, capogruppo del Movimento 5 stelle alla commissione Difesa, ha detto che il Movimento sostiene con convinzione l’avvio delle nuove missioni militari all’estero, in particolare l’operazione Takuba nel Sahel, che è vicino alla Libia. Anche lì si tratta di difendere i nostri interessi?

“Io credo che lì prima di tutto abbiamo interesse come Europa a non far fallire degli stati. Perché se alcuni stati del Sahel – che sono già in grandissima difficoltà – collassano, il livello di instabilità ci porterà terrorismo e altri flussi migratori, sono due cose separate, sono due fenomeni, a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste. Quindi lavorare in Sahel sempre con una postura italiana, che è appunto una missione Medevac, significa avere la possibilità di partecipare alla stabilizzazione di un’area che è poi anche strettamente connessa alla Libia. Perché l’instabilità di quelle aree ad esempio fornisce anche mercenari che vanno da quelle aree alle fazioni libiche. Questo è molto importante”.

[N.B. Missione Medevac vuol dire che l’Italia dentro una Coalizione internazionale si occuperà del soccorso dei feriti e della loro evacuazione, lo facevamo anche in Iraq durante la guerra contro lo Stato islamico. In questo tipo di missioni all’estero di solito vanno le forze speciali].

 

Lei spesso cita il principio di non ingerenza, che impone di non interferire con quello che succede negli altri stati. Ma non c’è il rischio che il principio di non ingerenza diventi uno scudo per i regimi che si comportano male? Dai Balcani al Ruanda, ci sono stati molti casi dove un intervento più rapido della comunità internazionale avrebbe salvato vite umane. Aderire sempre e comunque al principio di non ingerenza potrebbe impedire all’Italia di avere una politica estera più significativa.

“Il principio di non ingerenza è nei nostri valori costituzionali ed è anche quello che abbiamo ribadito ancora una volta dopo la Seconda guerra mondiale e che ha ispirato la nascita di organizzazioni sovranazionali come le Nazioni Unite. Un ministro degli Esteri non può che rispettare il principio di non ingerenza e tra l’altro fa parte anche dei miei valori come persona. Questo però non vuol dire che non dobbiamo denunciare le gravi violazioni dei diritti fondamentali ovunque si verifichino. Utilizzare il dialogo, che è lo strumento principale della nostra politica estera per riuscire a ottenere risultati politici – anche in conflitti armati – non deve essere scambiato con lo stare in silenzio davanti alle grandi violazioni. Questo non significa neanche che non siamo pronti a difendere con i denti i nostri asset geostrategici, ma è importante farlo sempre con la postura dell’Italia, che ha sempre rappresentato un valore aggiunto, ovunque fosse nel mondo”.

 

Quindi quando dice difendere con i denti intende anche i nostri asset in Libia, per esempio?

“Io ho sempre detto: aiutare il popolo libico garantendo sovranità e integrità della Libia e allo stesso tempo tutelare i nostri interessi”.

 

IL PROBLEMA CINA

Alessandro Di Battista ha scritto sul Fatto quotidiano che l’Italia ha “un rapporto privilegiato con Pechino che, piaccia o non piaccia è anche merito del lavoro di Di Maio. La Cina vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europee tale relazione”. Come a dire che più dell’Unione europea a noi dovrebbe interessare il rapporto con la Cina. Lei ha sponsorizzato il memorandum d’intesa con la Cina, la pensa come Di Battista?

“Penso che dobbiamo fare una premessa. L’Italia è saldamente nella Nato, abbiamo valori euroatlantici molto chiari, gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato e la nostra collocazione è questa. Significa che l’Italia è un paese autonomo, per carità, ma prende sul serio ogni preoccupazione dei suoi alleati. Poi, per quanto riguarda Pechino, in Europa ci sono paesi che hanno rapporti molto più stabili che l’Italia. Penso alla Germania, che è il paese in Europa con più rapporti con Pechino. Ma nessuno si sogna di dire che la Merkel è amica di Xi Jinping. L’Italia è in occidente e se ha delle buone opportunità di avere relazioni commerciali è giusto che ci provi, nell’interesse delle proprie aziende, rispettando però i principi di sicurezza e di stabilità dell’alleanza. Io credo che le relazioni internazionali sul piano politico ed economico nel mondo globalizzato di oggi non si possano basare sul principio di esclusività o di alternatività, la nostra economia e soprattutto il nostro export hanno bisogno di tutti i mercati. Però ricordiamoci sempre che questo non può mettere mai in dubbio la nostra collocazione internazionale, che è nella Nato e nell’Unione europea di cui siamo un paese fondatore. Ricordo anche che quando mi sono candidato a capo politico del Movimento 5 stelle io ho messo le cose in chiaro anche nella mia forza politica. Sono stato colui che ha sempre detto – c’è una mia intervista al Financial Times del 2015 – che il Movimento deve sostenere questa posizione: restare saldamente nella Nato. E sono quello che come capo politico ha detto chiaramente che non si usciva dall’euro e che si restava nell’Unione europea. E su questi capisaldi ho fondato la mia elezione a capo politico e poi a candidato premier del Movimento 5 stelle. Sono in questo governo con una convinzione ancora maggiore rispetto a queste tematiche”.

  

A proposito delle scelte che occorre fare con la Cina e con l’America, Repubblica ha scritto: “La scorsa settimana una macchina del governo italiano si è presentata al cancello principale di Villa Taverna a Roma, la residenza dell’ambasciatore Usa, Lewis Eisenberg. Dentro quella vettura c’era il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Non era un incontro di routine. Sul tavolo diversi gli argomenti da affrontare, ma su tutti ce n’era uno che per l’alleato statunitense è dominante: la rete 5G (la più moderna infrastruttura di telecomunicazioni)”.

“Con Lewis Eisenberg c’è un bellissimo rapporto e un’amicizia molto salda che è cresciuta anche in questi anni di governo, in cui abbiamo dovuto e voluto affrontare le preoccupazioni dei nostri alleati sul 5G. Sono preoccupazioni che teniamo fortemente in conto, abbiamo approvato in due anni tre decreti legge che riguardano il rafforzamento della sicurezza sul 5G e del perimetro di sicurezza nazionale. Su questo voglio dire chiaramente che – al netto del fatto che l’Italia ha il 30 per cento del pil che è fatto dalle esportazioni, quindi come ho detto tuteliamo gli interessi commerciali rafforzando le partnership commerciali con altri stati – se i nostri alleati sono preoccupati rispetto alla sicurezza nazionale noi dobbiamo tenerne conto. Abbiamo fatto tre decreti per rafforzare le nostre normative sul 5G, tanto è vero che la Golden Power adesso ha delle maglie strettissime che si applicano a tutte le telecomunicazioni, non soltanto al 5G. Però mi lasci dire anche un’altra cosa, che io sostengo sempre quando incontro i nostri amici americani: a livello di Unione europea dobbiamo lavorare per un’iniziativa che renda omogenea la sicurezza delle telecomunicazioni rispetto alle minacce. Se il tema è che oggi l’Italia ha, credo assieme alla Francia, la normativa più rigida sul 5G, è nostro dovere ed è quello su cui voglio lavorare nei prossimi mesi è un’iniziativa europea che renda omogenee le misure di sicurezza sul 5G e sulle telecomunicazioni. E questo secondo me non è che serve soltanto a rassicurare i nostri alleati, con i quali condividiamo informazioni sensibili continuamente, ma è importante per la sovranità di uno stato: la sicurezza delle proprie infrastrutture strategiche di telecomunicazione”.

 

Mi corregga se ho capito male, lei vuole una normativa a livello europeo su questa cosa?

“È chiaro. Perché è fondamentale che noi andiamo a tutelare a livello europeo le infrastrutture strategiche. Così abbiamo anche la possibilità di condividere le informazioni trattate con più serenità”.

 

La Cina azzera l’autonomia di Hong Kong con la forza e costruisce campi di internamento colossali per reprimere la popolazione uigura, possiamo permetterci di continuare a ignorare questi fatti ancora a lungo?

“Non possiamo permetterci di ignorarli e non lo abbiamo fatto. Credo che in Italia e in Europa nessuno abbia ignorato quanto sta accadendo a Hong Kong e dal 21 maggio scorso, da quando Pechino ha deciso di promulgare la legge sulla sicurezza nazionale, l’Italia si è già pronunciata sette volte sulla questione, cinque con l’Unione europea, una con il G7 e una volta io stesso, a margine del Consiglio degli affari generali del 29 maggio. Io proprio in quell’occasione, in cui si è discusso di Hong Kong, ho ribadito la seria preoccupazione dell’Italia per gli effetti della scelta cinese, perché non deve minare la tenuta del principio un paese due sistemi. E la posizione italiana che noi stiamo portando avanti in tutti i contesti è preservare la stabilità, la prosperità, l’autonomia e i diritti fondamentali di Hong Kong. E secondo questo approccio ci siamo espressi più volte in tutte le sedi – Consiglio dei diritti umani a Ginevra e tante altre – perché il nostro obiettivo è difesa e rispetto dei diritti umani e tutela delle minoranze etniche, anche con particolare riferimento allo Xinjiang [la regione degli uiguri]. Tutte le volte in cui l’Italia ha preso posizione sono nero su bianco, continuiamo a farlo, e lo facciamo per preservare il principio di ‘un paese, due sistemi’”.

 

Certo, ma se le dichiarazioni non bastassero? L’Italia, sempre di concerto con altri paesi, prenderebbe altre misure oppure per ora restiamo alle dichiarazioni di condanna?

“Credo che ancora una volta i consessi internazionali saranno i consessi in cui si discuterà di questo tema e si cercherà di capire come riuscire a fermare quelle iniziative che minano la tenuta del principio ‘un paese due sistemi’, ma al momento è fondamentale discuterne nelle sedi internazionali, non ci possono essere azioni di un singolo paese”.

 

LA VENDITA DELE FREGATE ALL’EGITTO E LA RICERCA DELLA VERITÁ SU REGENI

Che cosa succede con l’Egitto? Perché l’Italia non riesce a farsi rispettare? Passano gli anni e sembra che nelle relazioni tra il Cairo e Roma siamo noi la parte debole – quando invece non è così. E’ successa una cosa gravissima, uno studente italiano è stato trucidato più di quattro anni fa, e ancora non ne siamo venuti a capo. Si rende conto che se i Cinque stelle fossero all’opposizione e saltasse fuori che il governo vende armi all’Egitto ci sarebbero proteste tutti i giorni?

“Noi consideriamo la questione dell’assassinio di Giulio Regeni una priorità e le dirò: non vale solo in questo governo, ma anche in quello precedente. La verità sull’assassinio di Giulio Regeni rappresenta il primo tema che noi poniamo a tutti i livelli, ne sono testimone io, sia nel precedente governo da vicepremier sia in questo da ministro degli Esteri abbiamo sempre posto come primo punto il tema delle verità per Giulio Regeni. Ho avuto modo anche di ribadirlo al mio omologo, al ministro degli Esteri egiziano Shukry, in una lettera che gli ho scritto lo scorso 18 giugno: il nostro obiettivo è ottenere piena luce sull’assassinio. Abbiamo agevolato l’incontro tra le procure, cerchiamo di spingere nella direzione di ottenere più informazioni possibili. Allo stesso tempo, ovviamente, abbiamo con la controparte egiziana un altro genere di interlocuzioni che riguardano per esempio la Libia. L’Egitto è uno degli attori nel Mediterraneo con cui non si può non parlare. Il nostro atteggiamento è sempre stato: avere il massimo dialogo franco ed esigente sulla verità per Giulio Regeni con le autorità egiziane, abbiamo preteso progressi e ci aspettiamo progressi tangibili e significativi nell’identificazione dei responsabili del delitto, ma il nostro impegno assoluto per la ricerca della verità non può prescindere dal mantenimento di un’interlocuzione con l’Egitto perché l’Italia ha interesse a mantenere stretti rapporti anche per il ruolo che svolge l’Egitto nel Mediterraneo – per esempio per la Libia, la lotta al terrorismo, ai traffici illeciti. Su questo necessariamente l’Italia deve interloquire con Il Cairo. Ma il primo tema e dico anche il tema che non permette di normalizzare le relazioni è proprio il caso di Giulio Regeni. Fin quando non ci sarà la verità sarà difficile normalizzarle. Questo è il tema fondamentale. Il tema delle fregate non compromette la ricerca della verità. Come quando parliamo della Libia e interloquiamo ai tavoli, sono stato anche al Cairo per affrontare il tema libico, questo non compromette la ricerca della verità. E la stessa presenza dell’ambasciatore lì, non è che compromette la ricerca della verità, anzi è un altro degli strumenti con cui noi possiamo fare pressione sul governo per ottenere la verità”.

  

Colpisce quel “finché non arriverà la verità non ci sarà la normalizzazione”. È possibile dare dei tempi, considerata l’attesa che c’è in Italia sul caso Regeni? È possibile dire una data entro la quale il caso dovrebbe essere risolto? Perché è da quattro anni che tutto il paese è appeso a quello che dice l’Egitto e ogni volta gli egiziani spingono un po’ più in là i tempi.

“Capisco benissimo l’esigenza dei tempi, soprattutto per la famiglia, che non posso nemmeno immaginare che cosa abbia provato e che cosa stia provando. Ciò che però voglio dire è che quando sono arrivato al ministero degli Esteri le procure non si parlavano da un anno. Io sono arrivato a settembre al ministero, le procure a gennaio hanno fatto un incontro tecnico e dopo il Covid hanno fatto una videoconferenza e probabilmente ci saranno altri incontri nel prossimo periodo e lì ci aspettiamo oggettivamente qualcosa di concreto. In una relazione internazionale, i tempi sono sempre: il prima possibile. E noi lavoriamo per ottenere risultati il prima possibile. Dovete tenere presente che l’interlocuzione delle procure parte da una novità, il fatto che il procuratore al Cairo è cambiato, quindi anche le relazioni attuali tra le due procure che abbiamo riavviato e che si sono rimesse in moto necessitano di accelerare partendo dal presupposto che l’obiettivo è ottenere il risultato il prima possibile”.

  

A essere sempre troppo diplomatici si finisce per perdere la voce: ci sono state occasioni in cui avrebbe agito con più determinazione – se tutto fosse dipeso da una decisione del ministro degli Esteri?

 “Il ministro degli Esteri non può che credere nella diplomazia. La diplomazia, il dialogo, la moral suasion, fanno parte della nostra Costituzione. Io credo che sia l’unico mezzo con cui si ottengono risultati stabili. Se per determinazione si intendono le armi o l’uso della forza, io ricordo che noi oggi stiamo usando la diplomazia per risolvere i problemi causati dall’uso della forza in passato. Guardiamo alla Libia, ma guardiamo anche a tanti altri scenari. E quindi ciò che posso dire è che in questo momento senza diplomazia avremmo un mondo in guerra, la diplomazia ha evitato le guerre. Si può essere più o meno determinati, ma sempre dentro gli argini della diplomazia – e della democrazia”.

 

Molti in Europa vedono un secondo mandato presidenziale di Donald Trump negli Stati Uniti come un rischio molto alto.

“Con l’Amministrazione Trump abbiamo avuto ottimi rapporti, parlo dei due governi di cui ho fatto parte, del resto l’Italia ha sempre avuto ottimi rapporti con gli Stati Uniti. Non dipende esclusivamente dal presidente che viene eletto, ma abbiamo ottimi rapporti con gli Stati Uniti perché condividiamo valori, condividiamo alleanze e condividiamo percorsi comuni. Detto questo, di solito non faccio previsioni su competizioni elettorali che si svolgono in altri paesi, dico che il legame di amicizia fra i popoli è plasmato dalla storia e sono certo che Washington rimarrà in ogni caso un nostro prezioso alleato, nella lotta al terrorismo, nella promozione di diritti umani, nella tutela dello stato di diritto, in tutti quei temi – pace sicurezza salute e prosperità globali – che rappresentano l’architrave del nostri obiettivi e dei nostri valori”.

  

Però Trump ha alcune tentazioni, come uscire dalla Nato, che ci metterebbero nei guai e se avesse un secondo mandato potrebbe insistere in quella direzione.

“Con il presidente Trump abbiamo sempre parlato di Nato, non abbiamo mai parlato di uscita dalla Nato (ride) e lo stesso vale per me. L’Alleanza atlantica oggi rappresenta uno degli strumenti fondamentali su cui si fonda la pace in cui siamo in questo momento come occidente, e che ci permette di evitare altri problemi in altri quadranti del globo, quindi personalmente penso che agli Stati Uniti ci legano valori comuni che sono nel Dna dei nostri due stati, al di là delle Amministrazioni, sia in Italia sia negli Stati Uniti”.

 

Il caso dei presunti finanziamenti dal Venezuela è già stato archiviato dall’opinione pubblica, nel senso che non se ne parla più, ma la vostra posizione a favore di Maduro era esplicita negli anni scorsi. E’ cambiata, nel frattempo?

“Il secondo mandato del presidente Maduro è fondato su elezioni che non sono credibili e infatti l’Italia come tutti i partner occidentali non le ha riconosciute. E’ un momento che è marcato da una sempre più preoccupante deriva autoritaria, che va invertita, il nostro obiettivo è garantire un futuro di serenità e prosperità al popolo venezuelano e per questa ragione noi abbiamo sempre sostenuto che quelle elezioni non fossero credibili e non potessero essere l’inizio di un mandato per il presidente Maduro. L’obiettivo è quello di riuscire a innescare un nuovo processo politico che riporti a elezioni, legittimate, e quindi magari anche sotto l’egida delle Nazioni Unite”.

  

Nuove elezioni in Venezuela sotto l’egida delle Nazioni Unite?

“Serve che il processo politico possa essere monitorato da un garante internazionale super partes, che io non vedo altrove se non nelle nostre Nazioni Unite”.

  

I Cinque stelle hanno sempre molto insistito sul principio della trasparenza in politica, ma sono sicuro che alla Farnesina ha molto apprezzato la possibilità di lavorare con discrezione per il paese, i successi diplomatici non avvengono alla luce del sole: forse non si può fare tutto in streaming, come volevano i Cinque stelle delle origini?

“Ora, dividendo i due piani perché una cosa sono i negoziati sugli accordi internazionali e un’altra cosa è il processo interno a una forza politica, però ricordo che già nella precedente legislatura il Movimento 5 stelle quando faceva le riunioni di gruppo parlamentare – che erano le riunioni più importanti per decidere le elezioni politiche – non le faceva in streaming perché tutti comprendono che la fase della negoziazione o la fase di pianificazione della strategia se resa pubblica elimina il peso contrattuale al tavolo. Quindi l’importante è l’output, l’importante è ciò che il negoziato partorisce e non solo dev’essere trasparente come risultato ma a favore del bene collettivo. E’ così che lavoriamo alla Farnesina, magari si lavora per anni a un negoziato, si lavora per anni a ottenere il rilascio di un ostaggio, e poi però si arriva al risultato e lo si rende pubblico”.

 

Procedimento discreto, risultato alla luce del sole.

“Non si potrebbe fare altrimenti, perché altrimenti verrebbe meno qualsiasi peso contrattuale per ottenere il risultato. Probabilmente non esisterebbe il risultato”.

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