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Per la Cassazione i traffici di Erdogan in Libia non sono un delitto politico

Luca Gambardella

Arriva una sentenza notevole sulla Bana, la nave che trasportava armi a Tripoli per conto della Turchia. E l'ambasciata libanese decide di proteggere Ali Abou Merhi, l'uomo vicino a Hezbollah coinvolto nella violazione dell'embargo

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Roma. Per la prima volta un tribunale italiano è stato chiamato a decidere sulle interferenze dei paesi stranieri nella guerra in Libia. Con una sentenza della Cassazione dello scorso 30 giugno, i giudici hanno stabilito che la violazione dell’embargo delle armi nel paese a opera di una nave libanese di nome Bana, messa al servizio della Turchia, non può connotarsi come un delitto politico. La sentenza ha un significato notevole, che si intreccia con uno scenario politico e militare già intricato per il coinvolgimento nella guerra libica di tanti paesi terzi: Italia, Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia, solo per citarne alcuni. Ognuno di questi si è schierato con una delle fazioni in conflitto: da un lato c’è il governo di unità nazionale (Gna) di Tripoli, guidato da Fayez al Serraj e riconosciuto dalla comunità internazionale; dall’altro c’è il generale della Cirenaica Khalifa Haftar, che da poco ha incassato diverse sconfitte che lo hanno ricacciato verso est, facendo fallire la sua offensiva su Tripoli.

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Roma. Per la prima volta un tribunale italiano è stato chiamato a decidere sulle interferenze dei paesi stranieri nella guerra in Libia. Con una sentenza della Cassazione dello scorso 30 giugno, i giudici hanno stabilito che la violazione dell’embargo delle armi nel paese a opera di una nave libanese di nome Bana, messa al servizio della Turchia, non può connotarsi come un delitto politico. La sentenza ha un significato notevole, che si intreccia con uno scenario politico e militare già intricato per il coinvolgimento nella guerra libica di tanti paesi terzi: Italia, Russia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia, solo per citarne alcuni. Ognuno di questi si è schierato con una delle fazioni in conflitto: da un lato c’è il governo di unità nazionale (Gna) di Tripoli, guidato da Fayez al Serraj e riconosciuto dalla comunità internazionale; dall’altro c’è il generale della Cirenaica Khalifa Haftar, che da poco ha incassato diverse sconfitte che lo hanno ricacciato verso est, facendo fallire la sua offensiva su Tripoli.

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La Turchia è uno dei paesi che viola in modo più sistematico l’embargo dell’Onu in Libia: con un ponte aereo e navale che va avanti almeno dallo scorso gennaio, Ankara ha permesso al suo alleato Serraj di difendere Tripoli.

 

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Il caso della Bana è un esempio di come la Turchia abbia aggirato i divieti internazionali per rifornire di armi i suoi alleati in Libia. Il 30 gennaio scorso la nave, scortata da due fregate turche, è stata una delle prime a essere tracciata e seguita, passo dopo passo, durante il suo viaggio dal porto di Mersin, in Turchia, a quello di Tripoli. La Bana aveva tentato di nascondersi dai radar spegnendo il segnale satellitare Ais, ma la portaerei francese Charles De Gaulle e la Gorgona della Marina militare italiana avevano comunque intercettato i movimenti della “nave fantasma”. A bordo c’erano carri armati, automezzi con lanciarazzi, mitragliatrici, esplosivi e altri armamenti. “Erdogan non mantiene la parola data”, aveva detto Emmanuel Macron, che aveva accusato Recep Tayyip Erdogan di avere violato l’intesa raggiunta alla Conferenza di Berlino, quella che avrebbe dovuto rilanciare il dialogo per un cessate il fuoco in Libia.

 

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Così, dopo avere scaricato il materiale a Tripoli, la Bana si è diretta a Genova, per riprendere la sua attività ufficiale, quella del trasporto di auto dall’Italia alla Libia. Ma una volta attraccata, un ufficiale di coperta ha deciso di scendere a terra e di rivelare alla polizia marittima italiana i dettagli del traffico di armi di cui si era reso responsabile – in modo inconsapevole, a suo dire – insieme al resto dell’equipaggio. Da qui sono arrivati il sequestro della nave e l’arresto del comandante, un cittadino libanese di nome Youssef Tartoussi. Ad aggravare la vicenda c’è che il proprietario della Bana, Ali Abou Merhi, è un imprenditore libanese vicino a Hezbollah. Tra il 2015 e il 2017, diversi membri di questa ricca famiglia di Beirut finirono sotto le sanzioni imposte dal Dipartimento del Tesoro americano per un traffico mondiale di droga e riciclaggio di denaro.

 

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Ma torniamo al processo in Italia. La Cassazione ha ridimensionato di molto le accuse formulate dai pm Marco Zocco e Maria Chiara Paolucci, e ha stabilito che nel caso della Bana il traffico di armi non può configurarsi come delitto politico disciplinato dall’articolo 8 del codice penale. Il procuratore aggiunto di Genova, Francesco Pinto, aveva spiegato al Foglio di credere molto nell’ipotesi del delitto politico, su cui anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, come previsto dal codice penale, aveva dato la sua autorizzazione. In tal caso la Bana sarebbe diventato quello che in gergo è definito un leading case, cioè in un precedente giuridico notevole. Secondo quanto previsto dall’articolo 8, ogni reato commesso all’estero da cittadini stranieri in grado di danneggiare un interesse dello stato sarebbe perseguibile in Italia. “La natura anche in parte politica del reato è da ricollegarsi alla volontà di sostenere, tramite la consegna delle armi, una delle fazioni in lotta sul territorio libico”, avevano scritto i procuratori nella memoria inviata alla Cassazione. Ma i giudici hanno rigettato l’ipotesi, riconoscendo a carico del comandante della nave solo l’articolo 10, quello che disciplina il delitto comune commesso dallo straniero all’estero. “Era una contestazione assurda”, spiega al Foglio l’avvocato di Tartoussi, Cesare Fumagalli. “L’ipotesi del delitto politico è stata cassata perché né la nave, né il comandante, né altri membri dell’equipaggio erano libici collocabili nell’una o nell’altra fazione e nessuno di loro era turco. Quindi l’armatore che mette a disposizione la nave e l’equipaggio, noleggiati poi dal governo turco per trasferire armi a una fazione e condizionare gli assetti politici ed economici di un paese, sono soggetti estranei a quella finalità”.

 

L’ambasciata libanese, interpellata dal Foglio, ha invocato il diritto alla privacy e non ha voluto commentare le indagini sul traffico di armi e sul coinvolgimento di un personaggio controverso come Abou Merhi. “Non possiamo dire nulla”, si è limitato a rispondere un funzionario dell’ambasciata che ha rifiutato di identificarsi: “Chi sono io? Io sono l’ambasciata del Libano”, ha detto.

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