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Il metodo cinese tra censura e autocensura

Giulia Pompili

L’arresto di un famoso professore dissidente è censura. Ma Pechino ottiene risultati grandiosi pure grazie all’autocensura (nostra)

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Roma. In un atto dimostrativo ed eloquente, ieri la polizia di Pechino ha arrestato Xu Zhangrun, cinquantasette anni, un accademico molto noto anche in occidente per i suoi articoli critici nei confronti del presidente cinese Xi Jinping. Docente alla prestigiosa università Tsinghua, Xu era già stato sospeso dall’insegnamento nel marzo dello scorso anno. Da quattro mesi era agli arresti domiciliari, perché nonostante tutto aveva continuato a far circolare delle critiche sulla gestione dell’epidemia da Covid da parte del governo cinese, e secondo varie fonti citate dal Guardian da tempo gli era proibito accedere a internet e ai social network. Un’amica di famiglia del professor Xu, Geng Xiaonan, ha detto ieri al New York Times che l’accademico e intellettuale si aspettava l’arrivo della polizia da un momento all’altro, e teneva una borsa pronta davanti alla porta di casa. Ieri mattina venti agenti si sono presentati nella sua abitazione, hanno portato via lui e hanno sequestrato computer e documenti. Secondo vari osservatori della Cina, si tratta di un tipico caso in cui l’azione pubblica e ostentata è un messaggio anche per gli altri: non c’è più spazio per la tolleranza e per chi ha da ridire sulla politica del governo. Sempre ieri Jacob Gunter, direttore della politica e della comunicazione della Camera di commercio dell’Unione europea in Cina, ha scritto su Twitter un lungo messaggio per dire che si arrende, che è piuttosto spaventato, e che inizia con la strategia dell’autocensura, non parlando più di politica sul social network: “Mi sembra chiaro che la Cina che ho conosciuto la prima volta quando sono arrivato nel 2010 non esiste più più. La Repubblica popolare vuole investimenti, tecnologia, competenza e marchi stranieri, ma non vuole gli stranieri o le nostre opinioni”.

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Roma. In un atto dimostrativo ed eloquente, ieri la polizia di Pechino ha arrestato Xu Zhangrun, cinquantasette anni, un accademico molto noto anche in occidente per i suoi articoli critici nei confronti del presidente cinese Xi Jinping. Docente alla prestigiosa università Tsinghua, Xu era già stato sospeso dall’insegnamento nel marzo dello scorso anno. Da quattro mesi era agli arresti domiciliari, perché nonostante tutto aveva continuato a far circolare delle critiche sulla gestione dell’epidemia da Covid da parte del governo cinese, e secondo varie fonti citate dal Guardian da tempo gli era proibito accedere a internet e ai social network. Un’amica di famiglia del professor Xu, Geng Xiaonan, ha detto ieri al New York Times che l’accademico e intellettuale si aspettava l’arrivo della polizia da un momento all’altro, e teneva una borsa pronta davanti alla porta di casa. Ieri mattina venti agenti si sono presentati nella sua abitazione, hanno portato via lui e hanno sequestrato computer e documenti. Secondo vari osservatori della Cina, si tratta di un tipico caso in cui l’azione pubblica e ostentata è un messaggio anche per gli altri: non c’è più spazio per la tolleranza e per chi ha da ridire sulla politica del governo. Sempre ieri Jacob Gunter, direttore della politica e della comunicazione della Camera di commercio dell’Unione europea in Cina, ha scritto su Twitter un lungo messaggio per dire che si arrende, che è piuttosto spaventato, e che inizia con la strategia dell’autocensura, non parlando più di politica sul social network: “Mi sembra chiaro che la Cina che ho conosciuto la prima volta quando sono arrivato nel 2010 non esiste più più. La Repubblica popolare vuole investimenti, tecnologia, competenza e marchi stranieri, ma non vuole gli stranieri o le nostre opinioni”.

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C’è una differenza sottile ma molto importante da considerare quando si parla dell’autoritarismo di Pechino. La censura diretta, infatti, il Partito comunista cinese la applica solo ed esclusivamente all’interno dei propri confini: non si parla di certi argomenti, non si critica il governo né le sue attività. Sempre più spesso, e lo abbiamo visto ancora di più durante il periodo di crisi del coronavirus, Pechino reagisce in modo autoritario contro coloro che non possono essere controllati, che non accettano più il patto sociale post-Tian’anmen, cioè ricchezza in cambio di poche pretese progressiste. L’esempio di Hong Kong è il più efficace: dopo anni di proteste e di richieste da parte degli attivisti, nel giro di un paio di mesi è stata approvata ed è entrata in vigore una legge che mette il silenziatore a tutti. All’estero la censura cinese non può essere applicata – si parla di Cina, si critica, si litiga sulla Cina – ma funziona alla perfezione l’autocensura.

 

 

Le parole proibite

Da anni, e senza che la maggior parte del mondo se ne accorgesse, la Cina ha lavorato molto sull’autocensura. Rendendo anche le potenze più libere ricattabili, trovando stratagemmi convincenti: man mano che Pechino si trasformava nella seconda economia del mondo, in grado di competere con la prima, gettava le basi per una piattaforma in cui tutti quelli che fanno affari con la Cina sanno esattamente quali argomenti evitare per non urtare il gigante. Tian’anmen, le minoranze, gli uiguri, il Tibet, Taiwan, Hong Kong. L’anno scorso il Foglio ha scoperto che il colosso delle telecomunicazioni Huawei ha aggiornato le linee guida di comportamento per i suoi dipendenti – cinesi e non – che ora non possono esprimere opinioni politiche, non solo sul posto di lavoro o in rappresentanza dell’azienda, ma in generale, anche sui social network. La norma di comportamento richiesta per lavorare in Huawei è così vaga che funziona perfettamente nel progetto di grande autocensura: nel dubbio, meglio non dirlo. Così funzionano, molto spesso, anche gli Istituti Confucio, che entrati nelle accademie – soprattutto finanziariamente – non impongono ufficialmente un’agenda di studi, ma i non-cinesi che ci collaborano sanno che alcuni argomenti devono necessariamente essere evitati. E’ per autocensura che domenica scorsa, durante l’Angelus, Papa Francesco ha deciso di non pronunciare un intero paragrafo dedicato all’ex colonia inglese. Non c’è stato alcun “intervento” da parte di Pechino, come pure ha scritto qualche giornale, semplicemente perché non c’è bisogno. Chiunque abbia degli affari da portare a termine con la Cina sa bene che l’autocensura è il modo migliore per farli filare. Tutti i paesi che si sono opposti a questo metodo – il Canada nel caso Huawei, il Giappone, l’Australia, la Francia – hanno subìto le ritorsioni da parte della Cina. E’ per questo che la politica economica e quella diplomatica con Pechino vanno di pari passo, e pensare di poter trattare tutto in modo separato, come fanno spesso i nostri, è un’illusione.

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