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La Tian'anmen rimossa

Giulia Pompili

Trentuno anni dopo il massacro quel pezzo di storia smette di essere ricordato. Anche a Hong Kong

Roma. Se oggi i carri armati invadessero le strade di Pechino, raggiungessero piazza Tian’anmen, e mettessero fine a giorni di proteste pacifiche con la forza, i social network si riempirebbero in un attimo di quelle immagini, le persone potrebbero raccontare in tempo reale la loro versione dei fatti, e sarebbe difficile cancellare tutto quel materiale, far finta che non sia mai accaduto. Per trentuno anni la rimozione del massacro di piazza Tian’anmen è stato uno degli obiettivi del Partito comunista cinese. Per trentuno anni la spina nel fianco di Pechino è stato il ricordo tenuto vivo dai cittadini di Hong Kong, con l’annuale fiaccolata a Victoria Park il 4 di giugno. Ma quest’anno quel ricordo non ci sarà. Il governo di Hong Kong ha vietato le manifestazioni fino al 4 giugno per dar seguito alle misure di sicurezza contro il virus. E’ il coronavirus, quello di cui parlano le autorità, ma anche del “virus politico” che potrebbe trascinare la città “nel baratro”, secondo la versione di Pechino. E’ l’ennesimo cambio di passo importante per la città, perché la maggior parte dei giovani che oggi manifesta perché vorrebbe la garanzia che il principio di “un paese, due sistemi” sia rispettato è nato molti anni dopo Tian’anmen, magari non ha mai vissuto neanche il periodo coloniale inglese. Oggi è un altro mondo.

 

Meno ricordo, meno informazioni, meno lezioni dalla storia. E’ per questo difficile anniversario che la minaccia del presidente Trump di “mobilitare l’esercito” contro le proteste di questi giorni si è caricata di significati evocativi. Le proteste di Hong Kong e quelle in America hanno in comune soltanto il fatto di essere proteste. Ieri circolava tra i canali telegram degli attivisti di Hong Kong una notizia: il 9 maggio scorso su Nathan Road , a Kowloon, uno straniero, forse del sud est asiatico, è stato fermato dalla polizia perché ubriaco e minaccioso. Siccome resisteva all’arresto, tre poliziotti l’hanno bloccato a terra, e uno di loro ha premuto il ginocchio sul suo collo per sette minuti. L’uomo è stato portato in ospedale, dov’è morto dopo poco. Ma non c’è stata alcuna indagine sulla polizia. Così come non ci sarà un’indagine sulle azioni della polizia a Hong Kong nel corso del 2019. E mentre l’Italia sembra avere una voce molto debole sulla questione Hong Kong, tra le poche iniziative della società civile va menzionata quella della fondazione Alexander Langer, che ha promosso un appello “prima che sia troppo tardi”, perché “perdendo Hong Kong il mondo perde l’ultimo territorio cinese con una libera stampa. L’ultima città internazionale dove il dibattito è ancora privo di quel terrore”. L’assenza di uno stato di diritto è l’aspetto più spaventoso della nuova legge sulla Sicurezza che sarà applicata a Hong Kong, ma è già la realtà in molte regioni cinesi.

 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.