Donald Trump con la Bibbia in mano davanti alla chiesa episcopale di St. John a Washington (foto LaPresse)

Per Donald Trump la parola riconciliazione è una sconfitta da evitare

Eugenio Cau

Dopo sette giorni di proteste violente il presidente americano non smette di alzare i toni. La photo opportunity con la Bibbia. L’ossessione per il “dominio”

Milano. Al settimo giorno di proteste violente e di scontri, con cinque morti, decine di feriti e centinaia di arresti, l’America avrebbe bisogno di un momento di riconciliazione e pacificazione. Ma il presidente, la figura che nei momenti di crisi dovrebbe unire i cittadini dietro di sé e convincere manifestanti e forze dell’ordine alla calma, sta facendo l’esatto contrario. Da quando sono cominciati i disordini, Donald Trump ha cercato in tutti i modi di alzare il livello dello scontro, perché anche le proteste, esattamente come la diplomazia e le politiche commerciali, per lui sono un gioco a somma zero, qualcosa che o si vince o si perde, e per vincere bisogna dimostrare “forza soverchiante” e “dominio”, come ha twittato ieri pomeriggio.

 

Lunedì, quando in Italia era già notte, Trump ha avuto un’ottima occasione per mostrare un gesto di unità e distensione: dopo un discorso incendiario in cui ha promesso di mandare l’esercito nelle strade d’America (i presupposti non erano molto distesi, in effetti), è andato alla chiesa di St. John a Washington, una parrocchia episcopale dove tradizionalmente i presidenti americani assistono alla messa. Un momento di preghiera e raccoglimento avrebbe avuto il potere di unire la nazione, ma Trump non era interessato. Per sgomberare la strada verso la chiesa, che Trump ha percorso a piedi attorniato da agenti del Secret service, la polizia ha lanciato fumogeni e granate stordenti ai manifestanti che occupavano pacificamente Lafayette Square. E la visita a St. John si è trasformata in una photo opportunity: il presidente si è fatto fotografare con una Bibbia in mano, senza aprirla. 

Come ha detto Mariann Budde, il vescovo episcopale di Washington, Trump non ha pregato davanti alla chiesa e non ha ricordato le vittime di questi giorni, ha brandito una Bibbia a favor di fotocamera.

 

Raddoppiare la posta e rifiutare la riconciliazione è il modo in cui Donald Trump ha condotto tutta la sua carriera imprenditoriale e politica. Ha continuato a farlo in questi giorni con tweet durissimi, quando ha incitato i governatori a non mostrarsi deboli, quando ha promesso, lunedì, l’intervento dell’esercito. Ma un conto è puntare sulla polarizzazione e lo scontro quando si parla di Russiagate, di fake news, di primarie; un altro è farlo con milioni di cittadini in rivolta nelle città di mezza America. Le proteste sono pacifiche durante il giorno, ma la situazione è sempre peggiorata di notte.

 

Lunedì la città di New York ha imposto per la prima volta il coprifuoco a partire dalle 23, ma l’iniziativa non è servita a placare le violenze. Nella notte fra lunedì e martedì i grandi magazzini Macy’s, a Manhattan, sono stati saccheggiati, e per la notte di martedì il sindaco ha anticipato il coprifuoco alle 20. Trump, ovviamente, ha gettato benzina, twittando che “New York è andata perduta in mano ai saccheggiatori, ai teppisti, alla sinistra radicale e a tutte le altre forme di malviventi e feccia” perché il governatore democratico Andrew Cuomo ha rifiutato la sua offerta di mandare nelle strade una “guardia nazionale dominante”. Ci sono stati scontri con armi da fuoco tra la polizia e i manifestanti a St. Louis, in Missouri, e a Las Vegas. Ci sono stati scontri violenti anche a Los Angeles, Dallas, Louisville, Chicago, Philadelphia. Proprio a Philadelphia ieri Joe Biden, l’avversario di Trump alle elezioni di novembre, ha tenuto un discorso per condannare il modo in cui il presidente ha gestito la crisi: “L’America ha un bisogno disperato di leadership”, ha detto.

Tra lunedì e martedì due diverse autopsie, una indipendente chiesta dalla famiglia e una delle autorità del Minnesota, hanno confermato che la morte di George Floyd è stata un omicidio.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.