Dominic Raab (foto LaPresse)

L'ultimo tabù degli inglesi: fossimo stati reattivi, saremmo come l'Irlanda

Gregorio Sorgi

La strategia prudente adottata dall'Irlanda ha prodotto un tasso di mortalità di tre volte inferiore a quello britannico (4,55 contro 13,4) a fronte dello stesso numero di posti letto in terapia intensiva per abitante

Londra. Il governo di Londra non deve guardare lontano per capire come avrebbe potuto gestire meglio l’emergenza del coronavirus. La strategia prudente adottata dai vicini irlandesi, con i quali c’è una antica rivalità, ha prodotto un tasso di mortalità di tre volte inferiore a quello britannico (4,55 contro 13,4) a fronte dello stesso numero di posti letto in terapia intensiva per abitante. La penisola irlandese è un esperimento per valutare gli effetti di due approcci diversi per combattere l’emergenza. L’Irlanda del nord, amministrata dal governo di Londra, ha un tasso di mortalità di due volte superiore alla Repubblica irlandese, secondo le stime dell’esperto Michael Tomlinson.

  

A Dublino hanno coniato un termine per deridere l’hybris dei cugini inglesi: “Effetto Cheltenham”. Il riferimento è alla storica gara ippica che quest’anno si è svolta dal 10 al 13 marzo in piena emergenza da coronavirus. Le immagini delle tribune affollate di anziani signori vestiti con le giacche di tweed sono tra i simboli del fallimento della strategia inglese. Negli stessi giorni l’esecutivo di Dublino aveva già predisposto la chiusura di scuole e università, e annunciato l’annullamento della festa di San Patrizio, uno dei sacri riti dello stato irlandese. Il premier Leo Varadkar ha agito subito, facendo tesoro dell’esperienza dell’Italia, mentre i vicini inglesi hanno adottato una linea dura quando il virus si era già diffuso nel paese. L’Irlanda ha avviato un processo di chiusura graduale, iniziando con le scuole e le università, mentre la Gran Bretagna ha imposto il lockdown il 23 marzo dopo che le simulazioni dello scienziato Neil Ferguson dell’Imperial College avevano prefigurato un possibile collasso del sistema sanitario. Quando gli esperti scientifici del governo inglese teorizzavano l’immunità di gregge, il premier irlandese Leo Varadkar (un ex medico) consigliava ai suoi concittadini di restare a casa e svolgeva dei turni in ospedale per sottolineare la portata dell’emergenza. Il premier incoraggiava gli irlandesi “ad agire insieme, come una nazione, per salvare molte vite” negli stessi giorni in cui Boris Johnson dava un macabro annuncio al paese: “Molte famiglie perderanno i loro cari”. Il premier inglese è diventato un falco della chiusura a tutti i costi dopo avere inizialmente sottovalutato l’emergenza, come svelato da un’inchiesta del Sunday Times.

  

L’esperienza della Gran Bretagna ha spaventato gli irlandesi, molti dei quali leggono i giornali inglesi e hanno un parente che vive oltre confine. All’inizio dell’emergenza i cittadini si sono indignati davanti alle immagini dei pub di Dublino affollati il sabato sera, e hanno lanciato l’hashatag #shutthepubs per chiedere al governo di chiuderli immediatamente, come è avvenuto pochi giorni dopo. Nelle stesse ore i pub inglesi organizzavano dei drink all’aperto per chiunque volesse evadere dall’autoisolamento, e continuavano a trasmettere gli eventi sportivi. La decisione sciagurata di disputare la gara Liverpool-Atletico Madrid a porte aperte l’11 marzo ha alimentato la trasmissione del virus, come ha riconosciuto lunedì scorso la viceconsigliere medica del governo. Gli scienziati fanno notare che il diverso approccio dei leader potrebbe non essere stato l’unico fattore. La Gran Bretagna ha un’età media più alta dell’Irlanda e una densità di popolazione molto maggiore, che hanno rallentato la diffusione del virus. Il governo di Dublino ha anche svolto più tamponi, che potrebbero avere diminuito le stime del tasso di mortalità. Eppure molti inglesi si domandano cosa sarebbe successo se il proprio governo avesse seguito la lezione dei cugini irlandesi.

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