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La Corea inizia a esportare i test-lampo per il virus. L’Italia vuole fare da sola

Giulia Pompili

Washington chiama Seul per renderli disponibili in America. Il modello sudcoreano dei test a tappeto non può essere applicato all’Italia: i tamponi sono ancora troppo pochi

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Roma. Almeno tre aziende di biotech sudcoreane hanno ottenuto l’approvazione preliminare della Food and Drug Administration per esportare in America i kit per il rilevamento del nuovo coronavirus. Secondo il magazine Bioworld, due di queste aziende sono la Seegene e la Kogene Biotech. La Seegene in particolare, azienda di Seul le cui quotazioni da giorni volano in Borsa, è stata la prima a sviluppare un kit diagnostico d’emergenza, approvato per il suo utilizzo dal ministero della Sicurezza alimentare e dei farmaci sudcoreano il 18 febbraio, cioè subito prima che il focolaio di Covid esplodesse nella città di Daegu. E’ un tema fondamentale, quello della produzione dei kit diagnostici, in questa fase di controllo della pandemia. La Seegene da sola, all’inizio dell’epidemia, produceva centomila kit diagnostici al giorno, e a questi vanno aggiunte le produzioni delle altre sei aziende di biotech sudcoreane che sono state autorizzate dal ministero di Seul a produrre i kit. Tutti i test si basano sul metodo di real time Pc, che analizza in tempo reale della reazione a catena della polimerasi (si chiama Real time Pcr), e dà un risultato affidabile tra le quattro e le sei ore. Sabato scorso il presidente americano Donald Trump ha telefonato al suo omologo sudcoreano Moon Jae-in, e non era solo una telefonata di cortesia. Trump ha chiesto alla Corea i kit diagnostici, e ha detto che la Food and Drug Administration li avrebbe approvati per l’uso “nel giro di un giorno”.

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Roma. Almeno tre aziende di biotech sudcoreane hanno ottenuto l’approvazione preliminare della Food and Drug Administration per esportare in America i kit per il rilevamento del nuovo coronavirus. Secondo il magazine Bioworld, due di queste aziende sono la Seegene e la Kogene Biotech. La Seegene in particolare, azienda di Seul le cui quotazioni da giorni volano in Borsa, è stata la prima a sviluppare un kit diagnostico d’emergenza, approvato per il suo utilizzo dal ministero della Sicurezza alimentare e dei farmaci sudcoreano il 18 febbraio, cioè subito prima che il focolaio di Covid esplodesse nella città di Daegu. E’ un tema fondamentale, quello della produzione dei kit diagnostici, in questa fase di controllo della pandemia. La Seegene da sola, all’inizio dell’epidemia, produceva centomila kit diagnostici al giorno, e a questi vanno aggiunte le produzioni delle altre sei aziende di biotech sudcoreane che sono state autorizzate dal ministero di Seul a produrre i kit. Tutti i test si basano sul metodo di real time Pc, che analizza in tempo reale della reazione a catena della polimerasi (si chiama Real time Pcr), e dà un risultato affidabile tra le quattro e le sei ore. Sabato scorso il presidente americano Donald Trump ha telefonato al suo omologo sudcoreano Moon Jae-in, e non era solo una telefonata di cortesia. Trump ha chiesto alla Corea i kit diagnostici, e ha detto che la Food and Drug Administration li avrebbe approvati per l’uso “nel giro di un giorno”.

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Perché il cosiddetto “modello sudcoreano” per il controllo dell’epidemia di covid non si limita solo al tracciamento dei contagiati o delle persone che potrebbero essere state esposte al virus. Oltre all’uso di tecnologie particolarmente avanzate, la Corea del sud, infatti, grazie a una stretta collaborazione tra aziende private di biotech e il servizio pubblico, ha avuto la possibilità di fare test a tappeto, cioè controllare chiunque sviluppi dei sintomi simil-influenzali oppure abbia avuto contatti diretti con contagiati. E’ una strategia che permette di sottoporre alla quarantena soltanto i malati, gli infettati oppure i sospetti, e che consente anche di curare un paziente sin dai primi sintomi, senza aspettare che la malattia si sviluppi fino alla polmonite. Visto quello che è successo in Corea del sud, ora che l’emergenza dell’epidemia si sta spostando in America, con la necessità sempre più urgente di fare diagnosi e isolare i contagiati, Trump ha telefonato a Seul.

 

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Da qualche giorno anche le regioni del nord Italia più colpite dall’epidemia parlano di test a tappeto, sul modello sudcoreano. In Italia però l’idea di testare tutti i sintomatici – o gli asintomatici che però lavorano in ambienti critici, come gli ospedali – è arrivata tardi, forse fuori tempo massimo. E uno dei motivi è che qui i test è difficile farli. Fino a pochi giorni fa i laboratori dell’Istituto superiore di sanità erano gli unici a gestire le diagnosi. C’è una ragione che riguarda il controllo degli standard di sicurezza e anche i numeri di un focolaio. Ma è anche un intoppo burocratico. La Germania, che è un altro interessante caso di studio per via della bassa mortalità dei pazienti affetti da covid (0,5 per cento) secondo varie analisi ha questi risultati perché fa più test e campiona un numero più ampio di persone. E’ arrivata a fare 500 mila test a settimana. Christian Drosten, direttore dell’Istituto di virologia del Charité hospital di Berlino, ha detto qualche giorno fa a Npr che “in Germania stiamo testando di più e quindi individuiamo focolai prima”, ma soprattutto che il motivo per cui si possono fare tanti test è che “non c’è un un sistema centralizzato di diagnosi. Non ci sono laboratori pubblici che vietano a quelli privati di fare i test. E’ un mercato libero sin dall’inizio”.

 

Solo da qualche giorno in Lombardia, Piemonte e Veneto anche alcuni laboratori privati sono stati autorizzati a fare i test di laboratorio. Il presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Franco Locatelli, ha detto ieri in conferenza stampa che i laboratori diagnostici in Italia “sono arrivati a 126. Ogni regione ne ha almeno uno di riferimento”. E’ uno sforzo notevole, visto che mancano non solo i laboratori, ma anche i tecnici che ci lavorano dentro e i reagenti. Ed è uno sforzo d’aggiornamento effettuato nel mezzo di una maratona. Eppure i test da acquistare all’estero ci sarebbero, come ha dimostrato la telefonata tra Trump e Moon, e i nostri rapporti diplomatici con la Corea del sud ottimi: a oggi, però, secondo varie fonti ascoltate dal Foglio, nessuno si è messo in contatto con le aziende sudcoreane per l’acquisto di kit diagnostici. La diplomazia italiana è molto attenta gli aiuti di altri paesi, e non alle pragmatiche collaborazioni.

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