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Così il coronavirus ha spaccato la Francia

Jean-Pierre Darnis

Nessun insegnamento dal precedente cinese e da quello italiano, la chiamata alle urne nonostante l'epidemia, le divisioni sul protocollo Raoult e quelle tra centro e periferia. La sfida di Macron

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In Francia come in tanti altri posti nel mondo è calato il silenzio della quarantena. Un'atmosfera di eterna domenica spezzata solo dalle sirene delle ambulanze nei posti dove si concentrano il più alto numero di casi, come nelle province frontaliere con la Germania o nella regione parigina. La curva dei decessi a causa del Covid-19 segue la progressione della curva italiana con una decina di giorni di ritardo. Come già avvenuto in Italia, assistiamo a una serie di episodi ormai tragicamente familiari: quello della dedizione quasi sacrificale del personale medico che, fra i problemi di organico e di approvvigionamento di materiale, sembra un esercito coraggioso costretto a lottare con armi spuntate. Le varie riforme della sanità francese che ambivano a razionalizzare lo strumento e la spesa hanno lasciato le strutture sanitarie esangui. Prima della crisi del coronavirus si percepiva già questo malessere della struttura medica francese attraverso le difficoltà nel reperire medici generalisti o specialisti in alcune zone del territorio, in genere quelle ritenute meno attraenti, e tramite le tensioni sociali all’interno di una rete ospedaliera che da anni protestava per la riduzione dei posti letto e la contrazione dei servizi. Alcune contromisure erano state recentemente avviate, come la crescita del numero di posti al concorso di reclutamento per la carriera di medico, ma ci vorranno anni per vederne gli effetti. La crisi sociale ed economica negli ospedali francesi rimane un sottofondo amaro per una professione poco ascoltata negli ultimi decenni alla quale oggi si chiede l’impossibile, con il moltiplicarsi di problemi di risorse umane mentre l’onda epidemica guadagna terreno.

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In Francia come in tanti altri posti nel mondo è calato il silenzio della quarantena. Un'atmosfera di eterna domenica spezzata solo dalle sirene delle ambulanze nei posti dove si concentrano il più alto numero di casi, come nelle province frontaliere con la Germania o nella regione parigina. La curva dei decessi a causa del Covid-19 segue la progressione della curva italiana con una decina di giorni di ritardo. Come già avvenuto in Italia, assistiamo a una serie di episodi ormai tragicamente familiari: quello della dedizione quasi sacrificale del personale medico che, fra i problemi di organico e di approvvigionamento di materiale, sembra un esercito coraggioso costretto a lottare con armi spuntate. Le varie riforme della sanità francese che ambivano a razionalizzare lo strumento e la spesa hanno lasciato le strutture sanitarie esangui. Prima della crisi del coronavirus si percepiva già questo malessere della struttura medica francese attraverso le difficoltà nel reperire medici generalisti o specialisti in alcune zone del territorio, in genere quelle ritenute meno attraenti, e tramite le tensioni sociali all’interno di una rete ospedaliera che da anni protestava per la riduzione dei posti letto e la contrazione dei servizi. Alcune contromisure erano state recentemente avviate, come la crescita del numero di posti al concorso di reclutamento per la carriera di medico, ma ci vorranno anni per vederne gli effetti. La crisi sociale ed economica negli ospedali francesi rimane un sottofondo amaro per una professione poco ascoltata negli ultimi decenni alla quale oggi si chiede l’impossibile, con il moltiplicarsi di problemi di risorse umane mentre l’onda epidemica guadagna terreno.

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Una delle grida più frequenti provenienti dagli operatori della sanità è “dove sono le maschere”? In Francia nelle ultime settimane si sono varcate le varie soglie di allerta relative alla potenziale crisi del Covid-19 senza che un vero piano relativo ai materiali necessari sia stato messo in atto in modo tempestivo. Si è anche scoperto che la Francia era stata particolarmente virtuosa durante l'epidemia di H1N1 del 2009 costituendo uno stock di 1 miliardo di maschere chirurgiche semplici e 900 milioni di maschere FP2. Purtroppo, queste maschere non ci sono più a causa di un cambiamento di valutazione delle politiche e negli strumenti amministrativi che dal 2012 al 2017 ha smantellato sia lo stock di maschere sia alcuni strumenti di gestione amministrativa nazionale delle risorse per la salute. All’inizio della crisi del Covid-19, si è parlato di uno stock nazionale totale di 110 milioni di maschere semplici, mentre lo stock di maschere FP2 era semplicemente sparito. Ci sarebbe bisogno di almeno 40 milioni di maschere a settimana mentre la Francia ne produce soltanto 8 milioni.

 

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Questa Caporetto in termini di preparazione alla crisi potrebbe avere anche conseguenze politiche ulteriori. L’allora ministro della Sanità Agnès Buzyn e il primo ministro Edouard Philippe sono stati citati penalmente da un’associazione di medici per “messa in pericolo delle persone”.  Ma in modo più prosaico spiega anche perché dall’inizio della crisi la Francia si stia arrabattando con una serie di iniziative nazionali e locali per chiudere le falle della nave che sta affondando nella tempesta. I grandi gruppi privati come Airbus o Lvmh stanno organizzando operazioni di approvvigionamento di maschere in Cina ma dietro agli annunci di aerei che riescono a giungere a Parigi o Tolosa carichi di equipaggiamento si percepisce anche il livello di disorganizzazione globale. La situazione poi per i respiratori artificiali non è delle migliori, con un solo produttore sul territorio francese, Air Liquide, chiamato anche lui a fare miracoli.

  


  Bernard Usandizaga segue il discorso televisivo di Macron sull'allerta coronavirus (foto LaPresse)


 

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L’inizio della gestione della crisi è stato disastroso. La Francia, come l’insieme dei paesi europei e occidentali, non soltanto non aveva tratto le giuste conclusioni dall’epidemia cinese, ma poi non ha nemmeno reagito in modo tempestivo quando all’inizio di marzo la situazione stava precipitando in Italia. Tutti quanti hanno commesso l’errore di pensare che il virus originario di Wuhan fosse un problema esterno che non richiedesse un immediato trattamento interno. Quindi anche da questo punto di vista la Francia non ha colto l’opportunità di seguire subito le misure di quarantena italiane, cosa che avrebbe fatto guadagnare preziosissimi giorni per rallentare la diffusione epidemica. Dopo gli errori italiani nel non fermare Milano e poi nel tentennare fra la chiusura lombarda e quella nazionale, la Francia ha messo in scena il 15 marzo il pasticcio criminale del mantenimento del primo turno del voto alle Amministrative. Anche lì, le rivelazioni di casi di contagio fra assessori presenti quei giorni nelle sedi elettorali illustrano le conseguenze della decisione ma anche la gravità di un messaggio contraddittorio. Sebbene il presidente Emmanuel Macron volesse rimandare queste elezioni, ha ceduto il passo alla contrarietà dell’insieme delle formazioni politiche dell'opposizione e del presidente del Senato Gérard Larcher. Da questo momento il governo si è dedicato alla gestione della crisi, e lo ha fatto anche in modo onesto, con un ministro della Salute, il medico Olivier Véran, che svolge bene le sue funzioni. Ma di fronte ai ritardi e alle lacune dei piani governativi, assistiamo a una grande mobilitazione in Francia, un moltiplicarsi di risposte “fai da te,” dove le tantissime buone volontà individuali e collettive cercano di colmare i buchi del dispositivo globale. E' in corso una straordinaria mobilitazione civile per aiutare l’insieme dei comparti in sofferenza, con gesti di grandissima umanità. Anche lì, va osservata la grande similitudine con la situazione italiana.

 

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Ci sono poi anche polemiche rivelatrici. Ad esempio gli annunci del professore Didier Raoult, a capo dell’Istituto Ospedaliero Universitario Mediterraneo di Infezioni di Marsiglia, hanno suscitato parecchio scalpore. Questo ricercatore di fama internazionale insiste con una politica in controtendenza: non soltanto la sua struttura pratica test in modo estesissimo, opponendosi alle direttive nazionali, ma poi prescrive un trattamento a base di chlorochina associata ad antibiotici che con il suo team di ricerca presenta come un modo per migliorare le cure del Covid-19, soprattutto nelle prime fasi della malattia.

 


Il professore Didier Raoult nel suo ufficio di Marsiglia (foto LaPresse)


 

Al di là del dibattito scientifico e medico, accesissimo, bisogna osservare la polarizzazione in corso fra i “pro” e i “contro” del protocollo Raoult. Didier Raoult, malgrado il suo riconoscimento scientifico, appare come l’outsider di provincia, di Marsiglia, che deve lottare contro la casta medica e amministrativa parigina.Tra i vari politici che si sono affidati a Raoult c'è il sindaco di Nizza, Christian Estrosi, che dopo essersi dichiarato positivo al Covid-19 si è fatto prescrivere quel trattamento. Rappresenta uno degli esempi di chi sceglie Raoult come espressione della rivincita della periferia contro il centro parigino, ma anche del sud verso il nord. I responsabili di destra dei “républicains” esprimono spesso il sostengo al protocollo Raoult, come ad esempio il sindaco di Lourdes Philippe Douste-Blazy,  ma anche il leader di sinistra Jean-Luc Melenchon si è dichiarato favorevole alla possibilità di prescrizione del protocollo, tenendo in considerazione le situazioni disperate di alcune zone. Il dibattito intorno alla politica messa in atto a Marsiglia mette anche in luce la problematica dei test. Mentre si capisce sempre di più che è necessario testare in modo massiccio la popolazione, la Francia, come l’Italia, deve tornare indietro sulla politica iniziale di testare soltanto i pazienti con sintomi identificati. Quest’analisi sbagliata produce poi una serie di problematiche sulle capacità di fare i test. La Francia, come la maggior parte degli europei, si sta arrabattando.

  

 

Lungo la crisi del Covid-19 corre quindi anche la divisione fra centro e periferia. La crisi del coronavirus illustra i limiti del governo francese sulla Sanità e il fallimento nelle fasi di prevenzione e di gestione iniziale. Purtroppo questo giudizio negativo va anche pronunciato in Italia, dove ampie parti della società hanno negato a lungo i rischi e dove l’organizzazione su base regionale si è rivelata un impedimento per la messa in atto di una necessaria strategia nazionale, con un piano pandemico in larga misura disatteso.

  


 Emmanuel Macron (foto LaPresse)


 

Le prime lezioni delle risposte francesi e italiane illustrano i fortissimi limiti di entrambi gli stati in materia di prevenzione della crisi e spingono a pensare che per fronteggiare adeguatamente fenomeni di quest’ampiezza sarebbe importante finalmente concedere all’Unione europea alcuni poteri per la lotta contro le epidemie, autorizzando ad esempio la creazione di un commissario con delega alla Sanità europea, e poi creando anche un'Agenzia europea di lotta contro le pandemie con una serie di mezzi, ad esempio in termini di gestioni di stock di forniture strategiche. Questo fallimento degli stati-nazioni, paragonabile alle prime fasi delle guerre mondiali, deve farci diffidare di chi presenta con faciloneria soluzioni ancora più nazionali per uscire della crisi. Certamente nel contesto attuale lo stato si ripiega sulle funzioni regaliane e il mantenimento dell’ordine, una competenza squisitamente nazionale. Inoltre si ricorre a un certo patriottismo di stampo bellicoso per accompagnare gli sforzi di “lacrime, sudore e sangue” chiesti ad una ampia fetta della popolazione.  

 

Non bisogna pero' coltivare l’illusione che un ritorno alla patria offra garanzie di buon riparo contro i virus per l’oggi ma anche il domani. Di fronte a fenomeni così trasversali, l’uscita della crisi e le necessarie riforme debbono essere pensate a livello europeo con la creazione di meccanismi e nuove capacità, in modo tale da fare giocare pienamente l’efficienza e il rigore della Commissione Europea, sempre apprezzabile nell’insieme delle politiche di competenza. Un ripiego nazionalista può soltanto corrispondere al ritorno di un’autonomia autarchica che segnerebbe una regressione economica ancora più pronunciato, azzoppando paesi che, come l’Italia, hanno messo l’export al centro della loro strategia economica.

 

Dal lato dell’altro organo della governance europea, quel Consiglio composto dai rappresentanti dei governi nazionali, abbiamo osservato una serie di difficoltà a dare retta all’Italia sull’emergenza della situazione pensando a mezzi adeguati nel campo dell’economia. Ma non bisogna poi dimenticare che, in questa crisi, tutti i paesi, come i milanesi, hanno dimostrato di preferire gli aperitivi al senso di responsabilità: il diniego divampava quanto il virus e ognuno ha pensato di essere al riparo fino al momento in cui era quasi troppo tardi, mentre molti si erano fermati a un ragionamento puramente economico non rendendosi conto della gravità multi-settoriale della crisi.

 

Nelle ultime settimane non vi era quindi una condivisione di analisi fra i vari stati-membri, con un’Italia che dopo avere avuto difficoltà a imporre una narrativa analitica nazionale sul livello del pericolo, non riusciva a trovare consenso sulla gravità della crisi mentre alcuni Stati Membri ancora nicchiavano.

 

Purtroppo, il contagio divampa e a breve arretreranno le difese di questi stati con percezioni sminuite, richiamati poi al realismo dall’orrore delle situazioni. L’Italia rimane ancora in anticipo nei confronti del resto dell’Europa, il che spiega perché si sente a volte isolata. Ma il peggiorare delle situazioni in Francia, Spagna, Belgio o Germania sta già portando molti alla percezione di un dramma comune che richiede anche soluzioni europee comuni, che fino a ieri sembravano impossibili ma che domani, per forza delle cose, diventeranno le necessarie vie della sopravvivenza e di una futura ricostruzione.

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