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Lo smarrimento di Trump

Mattia Ferraresi

L’epidemia segna il collasso di una leadership americana malata. Nel vuoto, altri volti emergono

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Circolano in questi giorni video devastanti che mettono in sequenza decine di dichiarazioni salienti di Donald Trump sull’epidemia del nuovo coronavirus a partire dal 22 gennaio, il giorno in cui è stato registrato il primo caso negli Stati Uniti. Il presidente dice “non siamo preoccupati, abbiamo tutto sotto controllo”, qualche giorno dopo spiega che “abbiamo per lo più contenuto” il contagio, poi dice al paese che “molti esperti pensano che andrà via in aprile”, che “migliaia di persone che guariscono senza fare niente, alcuni vanno anche al lavoro come se niente fosse”, che “il vaccino arriverà presto” e lui “non si prende alcuna responsabilità”. Se dovesse darsi un voto da uno a dieci sulla gestione dell’epidemia finora? “Dieci”. Si passa poi agli ultimi giorni, quelli della resipiscenza e della metafora bellica, del “nemico invisibile”, dei medici in trincea, del “ho preso sul serio il virus dall’inizio”. Infine, la conclusione da antologia: “Sentivo che si trattava di una pandemia prima ancora che fosse dichiarata una pandemia”. Tutto questo per tacere dell’ossessione, emersa in lui abbastanza tardivamente, per la qualifica cinese del virus, probabilmente interiorizzata guardando Fox News e ascoltando il solito giro di consiglieri che fa capo a Stephen Miller.

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Circolano in questi giorni video devastanti che mettono in sequenza decine di dichiarazioni salienti di Donald Trump sull’epidemia del nuovo coronavirus a partire dal 22 gennaio, il giorno in cui è stato registrato il primo caso negli Stati Uniti. Il presidente dice “non siamo preoccupati, abbiamo tutto sotto controllo”, qualche giorno dopo spiega che “abbiamo per lo più contenuto” il contagio, poi dice al paese che “molti esperti pensano che andrà via in aprile”, che “migliaia di persone che guariscono senza fare niente, alcuni vanno anche al lavoro come se niente fosse”, che “il vaccino arriverà presto” e lui “non si prende alcuna responsabilità”. Se dovesse darsi un voto da uno a dieci sulla gestione dell’epidemia finora? “Dieci”. Si passa poi agli ultimi giorni, quelli della resipiscenza e della metafora bellica, del “nemico invisibile”, dei medici in trincea, del “ho preso sul serio il virus dall’inizio”. Infine, la conclusione da antologia: “Sentivo che si trattava di una pandemia prima ancora che fosse dichiarata una pandemia”. Tutto questo per tacere dell’ossessione, emersa in lui abbastanza tardivamente, per la qualifica cinese del virus, probabilmente interiorizzata guardando Fox News e ascoltando il solito giro di consiglieri che fa capo a Stephen Miller.

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Circolano video che mettono in sequenza il delirio trumpiano sul virus, da “è tutto sotto controllo” a “sentivo che era una pandemia”

Il che peraltro ignora il fatto che le forniture sanitarie degli Stati Uniti dipendono in larga parte dalla Cina e che una delle ragioni per cui l’America ha a disposizione un numero molto limitato di tamponi è la politica commerciale dell’Amministrazione nei confronti di Pechino. L’impietosa carrellata di contraddizioni non è soltanto la testimonianza della cronica incoerenza del presidente: per scoprire quella è sufficiente scorrere per qualche istante un punto qualsiasi della sua timeline di Twitter. E’ piuttosto l’immagine sintetica del collasso di una leadership. E tale collasso non è un fenomeno che riguarda una persona soltanto, ma l’esito di un’azione collettiva che, in questo caso, prevede una combinazione di cinici calcoli elettorali, consiglieri fraudolenti, yesman che vivono nel terrore di finire nella nomination del reality della Casa Bianca, spin-doctor fuori controllo, negazionisti e teorici del complotto, macchine della propaganda che ripetono lo stesso messaggio all’infinito. Trump ha cambiato completamente linea sul virus, e ora si arroga poteri emergenziali, evoca stimoli complessivi da mille miliardi di dollari (più di quelli per la crisi del 2008) e fa dichiarazioni belligeranti per risolvere la situazione che è “very bad”. Non può che essere una buona notizia, ed è lecito domandarsi se l’inversione di marcia sia stata suggerita dal più grande crollo della Borsa in un singolo giorno, dallo studio di Neil Ferguson e dei suoi colleghi dell’Imperial College di Londra secondo cui la strategia dell’immunità di gregge avrebbe ucciso circa 2,2 milioni di americani, oppure dall’anchorman di Fox News Tucker Carlson che a un certo punto ha deciso di andare di persona a Mar-a-Lago per convincere il presidente che il Covid-19 era una minaccia di proporzioni catastrofiche. Ma il processo di disgregazione della credibilità dell’Amministrazione è molto più profondo di un repentino cambio di idea, genere che il presidente ha praticato impunemente fin troppo in tempi ordinari. Nelle circostanze straordinarie che viviamo il gioco non tiene, l’impalcatura del reality crolla e improvvisamente sulla scena si crea il vuoto.

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La lezione dei governatori. Larry Hogan, del Maryland, disponeva chiusure quando Trump considerava il virus un’influenza

Il collasso è avvenuto per fasi. Seguendo i consigli degli advisor, specialmente quelli economici, all’inizio il presidente ha preso la strada del diniego e della minimizzazione sulla base di considerazioni sulla gestione del consenso e delle prospettive elettorali, le sole questioni in grado di muovere l’interesse di Trump. Nel frattempo, Sean Hannity, Trish Regan e la pattuglia di Fox News – con l’eccezione di Carlson – portavano avanti la linea della negazione, perfettamente in linea con la mentalità cospirazionista che galoppa nelle praterie di Fox, suggerendo che si trattava di un’esagerazione dei media mainstream per spaventare e destabilizzare. Qualunque crisi, si sa, finisce per danneggiare chi è alla Casa Bianca. La prospettiva poi di pesanti ricadute sull’economia, che storicamente sono collegate a performance deludenti dei presidenti in cerca di rielezione, ha subito allarmato un presidente che fino a questo momento ha sempre saputo che poteva contare sull’andamento dell’economia per convincere fette di elettorato che altrimenti gli sarebbero ostili. Il consigliere economico Larry Kudlow si è dunque affrettato a spiegare che il contagio era stato già contenuto e tuttora si ostina a dire che l’emergenza da pandemia, con tutte le conseguenze che si porta dietro, si risolverà nel giro di settimane, non di mesi o anni.

 

I consiglieri negazionisti, i calcoli elettorali, le prospettive di recessione, Fox News e l’onnipresente Jared Kushner

Al consesso si è aggiunto anche l’onnipresente Jared Kushner, prima anche lui nella veste di minimizzatore che punta il dito contro i media che cospirano per distruggere Trump, poi promosso a capo di un’opaca task force, in aggiunta a quella ufficiale guidata dal vicepresidente Mike Pence, per coinvolgere nella “guerra” al virus anche il settore privato. La squadra di Kushner si è mossa in modo disordinato tra la West Wing e i corridoi del dipartimento della Sanità, presidiato da Alex Azar, segretario di estrazione non trumpiana che nella gestione del coronavirus si è trovato spesso in tensione con il presidente, senza mai arrivare allo scontro. Sul Financial Times, Edward Luce ha opposto alla leadership corrotta e egoriferita di Trump la rettitudine stoica di Marco Aurelio, che ha affrontato l’epidemia ascoltando i consigli degli esperti del tempo e mettendosi a disposizione del popolo mentre i patrizi riparavano fuori città. E’ un paragone che schiaccerebbe probabilmente qualunque leader, ma l’opinionista del quotidiano inglese nota che in questa crisi non mancano i punti di riferimento dotati di risolutezza e buon senso, e cita a proposito il primo ministro irlandese Leo Varadkar.

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Il collasso della leadership americana ha creato però un’opportunità. Le proporzioni tragiche della crisi in corso richiedono che qualcuno, nel vuoto, si faccia avanti, qualcuno su cui il popolo possa fare affidamento per avere una parola chiara. Nella nebbia dell’emergenza è apparso Anthony Fauci, il direttore dell’istituto nazionale per le malattie infettive, uno dei pilastri del National Institute of Health, il centro per la ricerca medica del governo. Nominato dalla task force di Pence, Fauci è diventato il volto e voce pubblica della risposta americana alla pandemia, e ben presto gli americani si sono accorti che il profilo dell’infettivologo era l’esatto opposto di quello del presidente. Fauci si muove nei briefing e nei salotti televisivi con voce posata e ferma, conduce gli ascoltatori in percorsi logici, cura i dettagli della comunicazione, è animato dalla prudenza, sa dire “no” in modo cortese ma fermo e non teme di rispondere “non lo so” quando effettivamente non ha una risposta adeguata. La sua figura mite di quasi ottantenne brizzolato trasmette autorevolezza senza cadere nella tentazione della spocchia. Fauci non si scalda, non irride, non usa i social, ha la pazienza di spiegare anche a chi sembra non voler capire, non fa pesare le sue superiori conoscenze e non crede che la scienza possa risolvere tutti i problemi dell’universo. Quando si è trattato di dire cose in contrasto con l’umore presidenziale, lo ha fatto in modo chiaro ma senza vis polemica: non ha nascosto, ad esempio, la sua frustrazione per la mancanza dei tamponi e ha chiarito che il vaccino per il nuovo coronavirus non sarà mai disponibile nel giro di pochi mesi, cosa che invece a un certo punto Trump si era messo in testa (o meglio: qualcuno dei suoi, per piaggeria, lo aveva confortato in questa falsa speranza, che a quel punto gli era apparsa come una certezza scientifica indubitabile). All’inizio della sua presenza pubblica nei briefing, il New York Times ha avvicinato Fauci per chiedere un’intervista, ma lui ha declinato spiegando che tutto ciò che diceva ai media doveva essere prima concordato e approvato dalla Casa Bianca. Il quotidiano ha riferito la cosa come l’ennesimo sopruso di un’Amministrazione che sottomette e imbavaglia anche quei pochi, convocati forse per un errore del sistema, che potrebbero dire la verità, ma in realtà la garanzia di un canale di comunicazione istituzionale ha conferito a Fauci l’autorità e la gravitas che non avrebbe avuto se fosse stato soltanto uno scienziato indipendente che dava qualche consiglio al governo. Che sui social siano comparsi appelli per Fauci 2020 è normale: difficile immaginare un leader più lontano dal modello fumoso e spocchioso dell’inquilino della Casa Bianca. Tutto si può dire di Trump ma non che non abbia fiuto per i prodotti televisivi che funzionano. Dopo l’ennesimo giro di interventi nei vari salotti televisivi del superscienziato, Trump ha notato, fra lo scherzoso e il minaccioso, che Fauci stava diventando una “star televisiva”. Nei due giorni successivi Fauci è scomparso dal briefing. Non sarebbe la prima volta che Trump oscura qualcuno dei suoi collaboratori perché per un momento, durante una puntata del reality, gli ha fatto ombra.

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Dalle nebbie della Casa Bianca è emerso il super scienziato Anthony Fauci, volto autorevole e della risposta americana al virus

Nel crollo della leadership di Washington di fronte a una minaccia globale c’è un altro elemento vagamente confortante, cioè il sistema federale. Se l’iniziativa del governo centrale è fondamentale per fissare la strategia nazionale, sono gli stati, le città, le contee e i vari enti locali quelli che decidono della chiusura delle scuole, delle attività commerciali. Sono loro che ordinano i lockdown, dirigono le forze di polizia e hanno il potere di fare tutto ciò che è necessario per mettere in atto il distanziamento sociale. Mentre Trump era perso nel labirinto delle sue contraddittorie elucubrazioni, molti governatori hanno iniziato a fare. Un esempio su tutti è il governatore del Maryland, il repubblicano Larry Hogan, un ex immobiliarista che è anche il presidente dell’associazione nazionale dei governatori. Il 26 febbraio, nel pieno della fase del delirio da contenimento, Trump ha detto che nel giro di pochi giorni i casi di coronavirus negli Stati Uniti sarebbero stati ridotti a zero. Quattro giorni più tardi Hogan ha convocato una conferenza stampa per spiegare che la decisione di chiudere le scuole era imminente, ha sospeso tutti gli eventi pubblici e dato disposizione al settore privato di organizzarsi per far lavorare i dipendenti da casa. In quel momento in Maryland non c’era nemmeno un caso di COVID-19. I primi di marzo, quando il presidente spiegava che il virus sarebbe scomparso con l’arrivo del caldo, ha firmato una legge emergenziale che cancellava tutti gli spostamenti dei dipendenti pubblici e ha istituito una linea di supporto per le domande dei cittadini. Lo stesso giorno in cui Trump ha detto che l’emergenza “sarà risolta in fretta” Hogan ha chiuso, fra le altre cose, il porto di Baltimore e ha mobilitato al guardia nazionale. A nome dei governatori di tutti i cinquanta stati ha chiesto al presidente di spiegare se il governo potrà fornire nuovi respiratori agli stati che ne hanno bisogno. La risposta è stata insoddisfacente: “Sono i governatori che di fatto stanno guidando i loro stati e prendendo le decisioni importanti, perché se è vero che il governo federale ha dato alcune linee guida, che ora stanno cambiando, non ha dato in realtà direttive chiare”. Nel vuoto lasciato da Trump, altri leader si fanno largo.

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