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Quante crisi, Europa mia

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Solidarietà, collaborazione, libertà di circolazione. Le parole chiave dell’Ue sono in difficoltà, tra la crisi dei rifugiati e l’epidemia. Il nostro racconto (e una canzone), a un metro di distanza

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L’epidemia che ogni paese gestisce a modo proprio, mentre la Commissione ripete: collaborazione. La crisi migratoria che si riaccende, straziante e irrisolta, mentre la Commissione ripete: solidarietà (alla Grecia che sospende il diritto d’asilo). La sfida sull’ambiente nel suo giorno migliore, con Greta Thunberg presente, mentre la Commissione ripete: neutralità, ma non sa come scattare le photo opportunity ché un metro di distanza, in foto, è tantissimo. Il bilancio dei primi cento giorni della Commissione di Ursula von der Leyen s’avvicina e, dice il giornalista-veterano delle questioni europee Christian Spillman che sottolinea anche il fallimento del negoziato sul budget pluriennale, “le preoccupazioni si moltiplicano”. I problemi aumentano e le soluzioni non si trovano, mentre solidarietà, frontiere, libertà di circolazione – i pilastri del progetto europeo – vanno rapidamente in crisi.

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L’epidemia che ogni paese gestisce a modo proprio, mentre la Commissione ripete: collaborazione. La crisi migratoria che si riaccende, straziante e irrisolta, mentre la Commissione ripete: solidarietà (alla Grecia che sospende il diritto d’asilo). La sfida sull’ambiente nel suo giorno migliore, con Greta Thunberg presente, mentre la Commissione ripete: neutralità, ma non sa come scattare le photo opportunity ché un metro di distanza, in foto, è tantissimo. Il bilancio dei primi cento giorni della Commissione di Ursula von der Leyen s’avvicina e, dice il giornalista-veterano delle questioni europee Christian Spillman che sottolinea anche il fallimento del negoziato sul budget pluriennale, “le preoccupazioni si moltiplicano”. I problemi aumentano e le soluzioni non si trovano, mentre solidarietà, frontiere, libertà di circolazione – i pilastri del progetto europeo – vanno rapidamente in crisi.

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Proviamo a capire che cosa succede – da almeno un metro di distanza (proteggendoci con il Foglio lungo un metro, ovviamente).

   

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Il fronte turco

L’accordo siglato nel 2015 tra Unione europea e Turchia è scaduto lo scorso anno. In quattro anni Bruxelles ha versato ad Ankara sei miliardi di euro, voleva un aiuto per contenere l’immigrazione clandestina. L’accordo è stato avviato il 29 novembre del 2015, a chiederlo fu Angela Merkel, a convincere i paesi membri a stanziare quella cifra fu sempre Angela Merkel, eppure da quel patto, tanto vituperato, la Germania fu quella che ottenne di meno, visto che già nella primavera del 2016 Berlino aveva accolto almeno un milione di rifugiati con tutte le conseguenze politiche che ne sono scaturite. Più volte il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha minacciato di voler aprire le porte ai migranti e lasciarli andare verso l’Europa, più volte ci ha ripensato. Ora, ad accordo scaduto e con la crisi umanitaria causata dalle bombe dei russi e dell’esercito siriano assadista contro la regione di Idlib, il presidente turco sta rimettendo di nuovo in discussione l’accordo.

 

Alexandra Stiglmayer è una ricercatrice del think tank Esi e ha contribuito alla stesura del piano tra Bruxelles e Ankara. Di quel piano, ci dice, abbiamo ancora bisogno, ma bisogna anche lavorare per essere sicuri che funzioni meglio. “In Turchia ci sono circa 4 milioni di rifugiati, la maggior parte sono siriani, molti però anche afghani, iracheni, pachistani”. I soldi stanziati, quei sei miliardi di euro, potevano sembrare tanti, molti paesi dell’Ue erano disposti a metterne un miliardo e non di più, “ma se si va a vedere, ogni rifugiato al mese ha bisogno di 31 euro e 25 centesimi per l’assistenza sanitaria, per le scuole, per la costruzione di nuove strutture. La Turchia ha fatto molto e adesso si aspetta che il piano continui”. Ma l’Ue è rimasta in silenzio e con la nuova ondata di profughi dalla Siria si torna a parlarne. “La Turchia in alcuni momenti si è sentita sola e adesso teme l’arrivo di circa un milione di persone da Idlib, la situazione è al limite”.

 

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A proporre quel patto sono stati i turchi e portarlo avanti è anche nei loro interessi, ci sono però condizioni critiche, confini delicati ai quali si aggiunge la stanchezza dei turchi. “I rifugiati sono circa il 5 per cento dell’intera popolazione turca e, come è successo anche in Europa, in Turchia la popolazione è stanca, nei confronti di quei campi ci sono sentimenti contrastanti e le persone credono che Ankara abbia fatto troppo”. Parole che conosciamo bene in Unione europea, da noi hanno avuto anche un riflesso elettorale. Parte dell’accordo era la promessa di procedere anche a un ricollocamento sul territorio europeo dei rifugiati che vivono nei campi turchi, “in quattro anni l’Ue ha accolto circa trentamila persone, la Turchia avrebbe voluto molto di più, si parlava di centinaia di migliaia”.

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Per Erdogan è importante far vedere ai suoi cittadini che c’è un nuovo accordo con l’Unione europea, alle elezioni locali il suo partito, l’Akp, non ha ottenuto quanto previsto, ha anche perso Istanbul e, come l’Ue sa bene, la presenza dei campi di rifugiati ha avuto il suo peso.

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Il fronte greco

Il punto delicato è il confine tra Grecia e Turchia. Martedì l’arrivo dei tre presidenti europei, Ursula von der Leyen, Charles Michel e David Sassoli, alla frontiera è stato un modo per dire ad Atene che l’Unione europea c’è. La Grecia ha davvero bisogno dell’Unione europea, ha bisogno di misure concrete, di denaro, che ha avuto e non sempre ha speso bene ma lì, sul territorio greco, vivono tantissimi rifugiati e poi ci sono 90 mila domande di asilo ancora pendenti. “Il numero dei rifugiati in Grecia cresce sempre di più”, ci dice Alexandra Stiglmayer. “Alcuni tra gli irregolari sono riusciti a lasciare la Grecia, dalle isole sono passati alla terra ferma, dalla terra ferma ai Balcani e dai Balcani nei paesi europei. Si sono affidati a trafficanti ed è questo il sistema che va fermato”.

 

Assieme alla crisi dei migranti (in Grecia nel 2015 arrivavano fino a 10 mila persone al giorno e i numeri sono scesi, nel 2018 erano circa 81, fonte Commissione europea), la Grecia ha anche affrontato una crisi finanziaria importantissima, ne è uscita, il controllo del Fondo monetario internazionale è finito soltanto lo scorso anno. Adesso ad Atene c’è un nuovo governo, il premier Kyriakos Mitsotakis ha preso delle misure che mai prima Alexis Tsipras aveva pensato di prendere: ha sospeso l’esame delle richieste d’asilo invocando l’articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. L’articolo prevede che i paesi membri, in situazioni di emergenza causate dall’afflusso di cittadini di paesi terzi, possano adottare misure temporanee. In realtà sospendere il diritto d’asilo non è legale, al confine martedì von der Leyen non ne ha parlato e anzi ha definito la Grecia “uno scudo”.

 

Seppur in difficoltà, la Grecia non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. “Certo l’Ue ha mandato dei soldi, più di due miliardi, ma la Grecia non è riuscita a gestirli bene”. In questi anni la Grecia ha lavorato con lentezza, ha delle pratiche burocratiche riguardo alla gestione delle richieste d’asilo che non sono efficienti, ci dice Stiglmayer, ci mette del tempo, troppo, a decidere chi deve essere rimandato in Turchia e chi può rimanere. “La Grecia ha dei problemi amministrativi, va aiutata a implementare il suo sistema, non basta dire che è il confine dell’Unione europea, come hanno detto tutti martedì, ha bisogno di un aiuto concreto, anche per migliorare le condizioni nei campi”. “ Se gli irregolari sanno che vengono rimandati indietro, cominceranno a diminuire, questo è uno dei punti che non ha funzionato dell’accordo. Bisogna lavorare su questo: chi non ha i requisiti per l’asilo deve essere rimandato indietro, la richiesta d’asilo dovrebbe essere esaminata in due mesi”. Anche in Grecia l’immigrazione e la difficilissima condizione sulle isole ha dato una grande mano alla crescita di Alba dorata, il partito greco di estrema destra, colpevole di numerosi atti di violenza contro i centri per i rifugiati. Scrive il Guardian che adesso 68 tra le personalità più in vista del gruppo sono accusate di appartenere a un’associazione criminale.

  

  

Il problema è la Siria

Le forze russe e assadiste continuano a bombardare in modo indiscriminato il popolo siriano. La commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sulla Siria ha detto lunedì che la Russia ha commesso “crimini di guerra” in Siria colpendo con le bombe obiettivi civili – “non ci sono attacchi diretti a specifici obiettivi militari”, in particolare quando vengono colpiti ospedali, mercati e campi di siriani in fuga dalle loro città di provenienza. Secondo il report, che sarà presentato la settimana prossima al Consiglio per il diritti umani dell’Onu e che conferma le notizie date da ong e alcuni media, i bombardamenti sono fatti “con l’intenzione esplicita di terrorizzare la popolazione” e costringerla così a spostarsi. Hanny Megally, che fa parte della commissione d’inchiesta, ha detto ai giornalisti a Ginevra: “Stiamo vedendo questo fatto con chiarezza a Idlib”, la regione che il rais siriano, Bashar el Assad, vuole riconquistare “pollice per pollice” (come tutta la Siria) e che la Russia colpisce incessantemente da mesi.

 

Nel report si parla anche di crimini da parte di milizie legate alla Turchia nella zona curda. Oggi il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, va a Mosca per incontrare Vladimir Putin. Erdogan aveva già offerto una tregua-spartizione della regione di Idlib, per evitare la crisi umanitaria – chi scappa arriva in Turchia – ma la proposta non è stata accolta. Oggi si potrebbe arrivare a un altro accordo, ma l’assenza della posizione europea in questo confronto che ha un impatto enorme proprio sull’Europa è visibile, e preoccupante. Il rapporto tormentato tra l’Ue ed Erdogan è un fatto, ma l’origine della crisi è nell’incapacità di dire a Siria e Russia di fermare i bombardamenti sui civili. La Siria non si ferma perché vuole riprendere il controllo di tutto il paese, ma le ragioni russe hanno molto più a che fare con l’Ue. La crisi dei rifugiati è storicamente l’elemento più destabilizzante per la tenuta dell’Ue: i movimenti sovranisti e populisti non avrebbero avuto tanta forza senza il flusso di immigrati (basti pensare all’AfD tedesca, che nasceva come un partito anti euro ma è diventata rilevante quando è diventata anti immigrazione). La Russia non ha bisogno di finanziare questi movimenti, è sufficiente terrorizzare i siriani e costringerli a scappare. Quando Angela Merkel dice che spera che l’incontro tra Putin ed Erdogan “vada bene” intende questo: fermate i bombardamenti.

  

Ue, il tempo perso

Non starà forse diventando un po’ trumpiana questa Ue che si presenta al confine, che non rimprovera la Grecia per i proiettili, per le manovre delle motovedette che circondano i profughi siriani in mare? A Trump i metodi di Mitsotakis sono piaciuti, “si è congratulato”, ha detto il primo ministro greco. L’Unione europea non sa come recuperare il tempo perso e tutte le riunioni trascorse a discutere di immigrazione, finite senza un disegno comune sulla politica migratoria. Già Viktor Orbán ha ricominciato: c’è la crisi migratoria, l’invasione, blocchiamo i confini. Non c’è una crisi, ma c’è il tempo per prevenirla, probabilmente Bruxelles siglerà un nuovo, controverso accordo con la Turchia, anzi, “una dichiarazione congiunta” come viene chiamato ufficialmente l’accordo, ma si spera che si volti indietro e che capisca che una politica migratoria comune è fondamentale. Riassumiamo le mancanze in tre domande. E Dublino? E il veto dell’est? E il budget? La riforma di Dublino, che prevedeva l’introduzione di un meccanismo di redistribuzione automatica dei richiedenti asilo, è stata rinviata. A bloccarla è stato il veto dei paesi dell’est: Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia. Il 20 febbraio, al vertice straordinario per discutere del budget pluriennale, i paesi membri avrebbero anche voluto parlare di questo, di limitare l’erogazione dei fondi prevista per quei paesi che finora non hanno mai accolto e si sono opposti alla redistribuzione delle quote di richiedenti asilo. Il vertice, che secondo le premesse sarebbe dovuto durare per un intero fine settimana, tra giorni passati a litigare e notti insonni a bisbigliare e a fare accordi, è fallito invece il giorno dopo. Non c’è un piano per fare in modo che una parte dei migranti che si trova sul confine turco-greco possa essere ammesso in Europa. L’Ue cerca di prevenire una nuova crisi migratoria e tutti parlano della necessità di proteggere i confini, quelli di tutti. Von der Leyen ha detto che rinforzerà Frontex, che ora si chiama Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, ma per ora la soluzione sembra passare ancora per la Turchia.

 

 

Zuzana, dove sei?

Le elezioni in Slovacchia di sabato scorso si sono chiuse con un risultato ambiguo. O meglio, con un risultato che ci lascia tutti un po’ spaesati e con la domanda: ma lo scorso anno Bratislava non stava abbracciando una rivoluzione liberale? Alle elezioni parlamentari ha vinto il centrodestra populista. Chi ha perso è sicuramente il centrosinistra, populista anche lui, che aveva governato per anni e che aveva come leader Peter Pellegrini, il premier finito in ospedale poco prima del voto per una polmonite. Ma ha perso anche la presidente, Zuzana Caputová, anima europeista e liberale della politica slovacca che sembrava aver improvvisamente addolcito i lineamenti di Visegrád. Avvocato anticorruzione, la sua vittoria e il buon risultato del suo partito, il Ps, alle elezioni europee di maggio, avevano fatto credere che il vento progressista potesse arrivare ovunque, anche a est. Invece no. Il suo partito non è nemmeno entrato in Parlamento e ieri Zuzana Caputová ha dato a Igor Matovic il mandato di formare un governo. Matovic, leader del partito Persone normali – che ormai per la vulgata populista “normale” è sinonimo di volgare, brutto e anche nemmeno troppo intelligente – potrebbe guardare ovunque per formare un governo, non si unirà mai ai socialdemocratici di Pellegrini, ma è pronto a scendere a patti con Sme Rodina, un partito nazionalista ed euroscettico. Eppure è stata la stessa voglia di cambiamento a segnare la vittoria di Caputová prima e di Matovic poi, la stessa voglia nata dalla morte di Ján Kiciak, il giornalista ucciso per le sue inchieste. Il governo socialdemocratico non si è dimostrato molto propenso a indagare e cercare i colpevoli, il premier di allora, Robert Fico si è dimesso e anche tanti suoi ministri. La gente ha manifestato giorno e notte e nelle urne ha dato le sue risposte. Quel che aveva funzionato con la Caputová era lei, il suo carisma, la sua determinazione, il suo coraggio, qualità che avevano fatto sbiadire i valori del suo partito che nel nome della solidarietà europea si è detto anche disposto ad accogliere migranti, la Slovacchia ne ha accolti tre dal 2015. Bratislava non è pronta per questo, il Ps si è presentato con un leader meno dinamico e tutti si sono concentrati più sul programma elettorale che su di lui. Qualcuno nelle urne avrà magari anche scoperto che Ps sta per Progresívne Slovensko, Slovacchia progressista. E per ora, il progresso può aspettare.

  

Toh, chi si rivede in Turingia

Al terzo giro di votazione, ieri il governatore uscente della Turingia, Bodo Ramelow, è stato riconfermato al suo posto. Ramelow è della Linke, il primo partito in questa regione, ma qualche settimana fa non era stato nominato dal Parlamento locale a causa dell’alleanza sciagurata tra liberali, cristianodemocratici e AfD. Fu nominato un liberale, che subito si dimise, e soprattutto a dimettersi è stata la leader della Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, ex delfina della cancelliera Merkel. L’alleanza con l’AfD, cioè il crollo del cordone sanitario contro i partiti estremisti, ha causato un trauma dentro al partito al governo, che ora si dovrà dotare di un altro leader (che sarà sicuramente un uomo, bianco, cattolico e del Nord Reno-Vestfalia). In Turingia intanto sembrava che toccasse proprio alla Cdu traghettare la regione verso una nuova elezione, ma ieri è stata di nuovo la giornata di Ramelow, tornato al suo posto, ma ferito.

  

Che poi è un po’ come ci sentiamo anche noi, ma abbiamo trovato un antidoto. Ce l’ha suggerito il nostro podcast di riferimento, The Europeans: è la canzone islandese all’Eurovision, e soprattutto il suo video. Ci sentiamo come la nonna che copre gli occhi al nipote.

 

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