L'ex presidente dell'Egitto Hosni Mubarak, in uno scatto del 2008 (foto LaPresse)

Il rais prima del rais

Rolla Scolari

Mubarak, autocrate cacciato dalla primavera araba, ha lasciato l’Egitto nelle mani di un autocrate ancora peggiore

Non ha avuto né il carisma del Gamal Abdel Nasser né le idee di Anwar el Sadat, ma ha guidato per 30 anni il popolo del più grande paese arabo. Ed è uscito di scena impersonando tutte le piaghe dell’Egitto moderno: la corruzione, la repressione, la brutalità della polizia, la povertà. Hosni Mubarak, morto oggi all’età di 91 anni, ha lasciato il potere l’11 febbraio 2011, sotto la pressione di una piazza sempre più arrabbiata. L’ex rais ha guidato la nazione dal 6 ottobre 1981, giorno in cui l’ufficiale Khaled Islambouli saltò giù da un mezzo blindato durante una parata militare e corse verso il palco gettando granate, sparando e uccidendo il presidente Sadat.

 

Quando Mubarak prese in mano l’Egitto, quella che il suo predecessore gli lasciava non era un’eredità fortunata. Il paese si trovava in crisi economica, isolato dal resto del mondo arabo e non ancora nelle complete grazie dell’occidente. La politica di liberalizzazione inaugurata dall’ex presidente Sadat, conosciuta come “Infitah”, apertura, che aveva incoraggiato gli investimenti stranieri nel paese, aveva portato l’inflazione a livelli altissimi.

 

Nel 1979, la firma del trattato di pace tra Egitto e Israele, voluta da Sadat assieme al premier israeliano Menachem Begin e costata la vita al primo, sancì l’ostracismo della Lega araba nei confronti del Cairo, che fu bandito dall’organizzazione per dieci anni. Isolato nella regione, l’Egitto non poteva permettersi di voltare le spalle agli aiuti, soprattutto economici, che gli arrivavano da ovest: dagli Stati Uniti, di cui oggi è tra i principali alleati nell’area, e dalla Banca mondiale. Mubarak scelse allora la strada della mediazione. Decise di ribadire il suo sostegno al processo di pace di Camp David e di inserirsi definitivamente in una logica di dialogo con Israele e Stati Uniti, di cui diventerà tra i principali interlocutori in medio oriente. Allo stesso tempo non rinunciò a ridare all’Egitto il suo tradizionale ruolo di guida dei paesi arabi, operazione che è culminata nel 1989 con il rientro a pieno titolo dell’Egitto nella Lega araba, e che è andata avanti per decenni. Il Cairo infatti dopo l’11 settembre – quando ha condannato gli attentati alle Torri gemelle, dichiarando il suo “sostegno totale” agli Stati Uniti, senza però acconsentire a mandare le proprie truppe in Iraq accanto a quelle della coalizione anglo-americana – si è spesso proposto come mediatore tra occidente e medio oriente. 


È morto oggi a 91 anni. Si guadagnò la fama di alleato moderato dell’occidente, ma in patria governò con leggi speciali


 

Se sul piano internazionale l’ex rais del Cairo si è guadagnato la fama di alleato moderato, sul fronte interno la situazione non è mai stata la stessa, come ha provato la rivolta che nel 2011 ha cambiato il corso dell’Egitto e della regione. Gli egiziani sono stati grati al presidente per aver saputo garantire al paese, nella prima parte del suo mandato, pace dopo le guerre con Israele, ma presto la popolazione ha iniziato a dimostrare la sua frustrazione nei confronti dell’immobilismo in cui versava la politica locale, della repressione politica brutale, della mancata libertà d’espressione e di stampa, della pervasiva corruzione delle élite al potere. La stabilità a tutti i costi è stato per decenni il mantra del rais. E’ per garantire la stabilità che sono state mantenute per decenni le leggi di emergenza, contro il terrorismo islamico del prima e dopo 11 settembre. Persino nei concitati giorni dell’inizio del 2011, con la piazza strabordante e un regime ormai zoppo, l’ex presidente incapace di soppesare la portata storica degli eventi nei suoi discorsi alla nazione ha utilizzato le solite antiche parole: “O me o il caos”. Il trucco non ha però più funzionato. La popolazione, ormai stufa di vivere sotto leggi draconiane, ne aveva abbastanza dei diritti umani negati. E’ stato l’ingegno di una giovane generazione frustrata a far cadere il sistema.

 

Gli eventi di piazza Tahrir raccontano una storia che ha attraversato la regione dal 2011 alle rivolte del 2019 in Sudan, Algeria, Iraq, Libano: la storia di un vecchio leader sempre più lontano dalla realtà. Dopo 30 anni al potere, Mubarak ha faticato a capire gli umori di un paese che, nella notte dell’11 febbraio ha festeggiato euforico le sue dimissioni. Condannato nel 2012 all’ergastolo per corruzione e per aver ordinato l’uccisione di oppositori e manifestanti, le sorti dell’ex presidente sono cambiate con l’ascesa al potere del presidente Abdel Fattah al Sisi, dopo la breve permanenza a palazzo del leader dei Fratelli musulmani Mohammed Morsi: è stato scagionato da ogni accusa nel 2017, e per reati minori gli è stato vietato di lasciare il paese. Le esequie (militari) si terranno oggi al Cairo: una sorte migliore di quella riservata al suo successore Morsi, collassato in un’aula di tribunale nel giugno 2019 dopo una lunga prigionia, e sepolto ai margini della capitale quasi in segreto. Se il nuovo regime ha ignorato la morte di Morsi, sarà interessante capire la sua risposta alla scomparsa di Mubarak, la cui dittatura pare oggi a molti – in una improbabile classifica tra autocrazie repressive – più tollerabile di quella dell’attuale rais al Sisi. Come ha scritto su Twitter ieri Michael Hanna, ricercatore della Century Foundation ed esperto di Egitto, il sistema di sicurezza egiziano ha capito che la caduta di Mubarak è legata anche al suo sforzo passato di creare una “opposizione politica controllata”, come “valvola di sfogo”: “Operano da allora affinché questo non accada di nuovo”.

 

Hosni Mohammed Mubarak è nato in un villaggio della regione del Delta del Nilo nel 1928 in una famiglia della classe media. La moglie, Suzanne, è di origini britanniche. Mubarak è diventato prima consigliere personale e poi vice di Sadat. Era un pilota di guerra, un generale dell’aviazione, l’uomo forte che fino a qualche anno prima del 2011 si svegliava alla mattina alle sei per andare in palestra o a giocare a squash. Come alto ufficiale e viceministro della Difesa, ha guadagnato peso militare per il ruolo svolto nell’organizzare l’attacco a sorpresa contro le forze israeliane nel 1973, nella guerra dello Yom Kippur. 


Oggi la sua dittatura pare più tollerabile di quella di Abdel Fattah al Sisi, che ha riabilitato Mubarak da tutte le accuse 


Dopo la morte di Sadat si è trovato a fronteggiare la minaccia islamista interna. In un primo momento ha giocato la carta della politica soft con i Fratelli musulmani, organizzazione formalmente bandita (oggi dichiarata dal regime terroristica), i cui rappresentanti avevano allora seggi in Parlamento. Nel 1990, ha dato il suo appoggio a Washington nella campagna contro l’Iraq invasore del Kuwait, guadagnandosi la fiducia dell’occidente. A discapito della calma interna. E’ infatti l’inizio di una serie di attentati terroristici di matrice islamista che hanno come obiettivo la destabilizzazione del paese e che colpiscono soprattutto i turisti. Lo stesso rais è scampato nel 1995 a un attentato: ad Addis Abeba, in Etiopia, mentre si recava a un vertice dell’organizzazione per l’Unità africana, il convoglio presidenziale finì sotto attacco. A salvargli la vita, la testardaggine del capo degli 007, che aveva insistito per far viaggiare il rais su un’automobile blindata. Omar Suleiman diventerà poi l’uomo più vicino al presidente e ai segreti di stato e il suo numero due. Dopo l’attacco, il governo mette in atto una dura repressione contro gli islamisti, con ondate di arresti e incarcerazioni, forte delle leggi marziali in vigore. Riesce così ad avere la meglio sulla componente in armi dei gruppi islamisti, senza però inimicarsi gli elementi più moderati, cui continua a garantire l’accesso alla vita politica. Quello cui Mubarak non ha saputo far fronte negli anni è stata la progressiva islamizzazione della società egiziana, stigmatizzata dalle manifestazioni del marzo 2003 contro la guerra in Iraq. In quei mesi, il regime aveva tollerato le proteste, bandite sotto le leggi di emergenza. La folla gridava allora slogan contro l’America e contro Israele. Un anno dopo, quando un piccolo gruppo di attivisti di lungo corso, non religiosi o islamisti, ma socialisti, comunisti, nasseristi, laici e liberali, è sceso per la prima volta in piazza al Cairo, la tolleranza del regime si è ristretta. Tra il 2004 e il 2005, il rais Mubarak affronta la prima vera contestazione popolare, che ha messo le basi per la rivolta del 2011: contro il suo sistema e contro l’idea che il figlio Gamal potesse essere nominato suo delfino. Il timore di una successione in stile dinastico, la volontà di riforme politiche e sociali, la richiesta di mettere fine allo stato di emergenza sono i motivi che hanno portato alla formazione del variegato movimento Kifaya, “basta” in arabo. Sotto la pressione americana e spinto dalla frequenza delle proteste, più che dagli esigui numeri dei manifestanti, Mubarak annunciò per la prima volta elezioni libere, che vinse nel settembre 2005. Le organizzazioni per i diritti umani e la comunità internazionale denunciarono i brogli. Poche settimane dopo il voto il suo più credibile rivale, Ayman Nour, capo del liberale al Ghad, fu messo in prigione con la presunta accusa di aver falsificato le firme per la formazione del partito. A dicembre, i Fratelli musulmani ottennero 88 seggi in Parlamento. E un mese dopo, a pochi chilometri di distanza, Hamas vinse nei seggi dei Territori palestinesi. L’America e l’Europa si spaventarono per una possibile ascesa degli islamisti e guardarono altrove. Così, dal 2005 al giorno delle sue dimissioni, il rais Mubarak non ha più accennato a riforme e aperture democratiche. Anzi, ha emendato la Costituzione per rafforzare il ruolo della presidenza. E ha sempre rifiutato, fino a qualche ora prima di lasciare il potere, di nominare un suo vice, una figura capace di rimpiazzarlo in caso di morte o emergenza. Per anni, in Egitto le chiacchiere politiche si sono focalizzate sul futuro del regime, sulla successione. Il figlio Gamal, il banchiere che ha spinto il paese verso le privatizzazioni e la liberalizzazione del mercato, è stato al centro di ogni discussione. Anche lo spettro di un passaggio di poteri dinastico ha contribuito ad alienare il rais dalla popolazione.

 

La rivoluzione di piazza Tahrir ha inventato un’altra via per arrivare al dopo Mubarak. È stata occasione mancata per le deboli e giovani forze liberali e opportunità colta per l’islam politico dei Fratelli musulmani. Si è poi arenata nel peggiore degli scenari possibili, quello di una controrivoluzione: l’attuale regime di al Sisi ha infatti eguagliato se non superato in capillarità, profondità e psicosi la repressione del sovrano assoluto Mubarak. E riportato l’Egitto nella paura.

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