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Il caso Trump, dialogo da opposti pianeti

Giuliano Ferrara e Mattia Ferraresi

Ferrara scrive a Ferraresi, che risponde. In gioco non c’è il giudizio sul fallito impeachment, ma il futuro delle democrazie come le conosciamo. La ferita incurabile alla rule of law contro il disincanto (cattolico) per le Città sulla collina

Caro Mattia,

il tuo pezzo di ieri sull’assoluzione senatoriale di Trump mi spinge oggi a scriverti, presto nella giornata e subito dopo la lettura, e a chiedere al direttore di inoltrarti il testo della lettera perché tu possa rispondere subito, se ne abbia voglia. Se pubblicato di sabato, lo scambio di opinioni sarebbe forse utile al lettore: non per lo spettacolino del dissenso tra un piccolo fondatore che come sai non osa dire il suo nome e un formidabile redattore che mi e ci ha fatto godere per anni da Washington e da New York con le sue corrispondenze in successione a Rocca (e non era facile quel privilegio della corona dopo il suo regno); no, l’interesse eventuale starebbe nel fatto che forse arriveremo a chiarire una faccenda di una certa importanza, e cioè se si viva in un mondo più o meno normale, in cui il potere ha delle regole universalmente accettabili oppure no.

 

Io nel giornale di ieri scrivevo che Trump è una disperante mostruosità, e che la sua assoluzione da parte del Senato nel pieno allineamento dei repubblicani, in coppia con il suo discorso bombastico sullo stato dell’Unione e con il tribalismo di minoranza emerso nelle primarie dei suoi avversari in Iowa, allunga un’ombra su tutti noi. Il tuo pezzo parallelo si muoveva su un altro pianeta: la sua tesi era che i democratici, con un comportamento altrettanto unilaterale e partisan dei repubblicani, hanno inscenato una procedura di impeachment, sulla base dei vaghi articoli costituzionali in cui si parla di high crimes and misdemeanors (le illegalità di rilievo costituzionale di un presidente), che rischia di svuotare lo strumento della messa in stato di accusa dell’esecutivo riducendolo a un impiccio di cui ci si può facilmente liberare, e pazienza per Romney, l’unico repubblicano che ha votato contro Trump, guadagnandosi il disprezzo sempiterno dei repubblicani trumpizzati e un giro di presentabilità sociale nei salotti liberal.

 

Perché dico che non eravamo sullo stesso pianeta, con i nostri due pezzulli, non eravamo nello stesso mondo? Semplice. Lo dico perché tu hai scelto di ignorare, in tutto il tuo ragionamento analitico, quello che io ho invece scelto di mettere in luce: il comportamento da gangster di Trump estorsore dichiarato del presidente ucraino, allo scopo di procurarsi un vantaggio politico abusivo, e la procedura di incredibile e sospetta efficacia che l’ha portato a sfangarla e a trasformare i suoi abusi anticostituzionali, con qualche centinaio di tuìt che hanno disciplinato il Congresso a colpi di intimidazione e cover up, in un pegno enfatico di vittoria e di trionfalismo a spese della divisione dei poteri, pilastro di una democrazia liberale come quella americana. Per me Trump è un deforme Riccardo III, e non si vede un Richmond che possa sfidarlo e sconfiggerlo a Bosworth, per te è un presidente che può essere o no rieletto, con conseguenze diverse e opinabili nella cultura costituzionalistica americana. Non è un banale dissenso, è proprio una distanza stellare quella che emerge.

 

Non pretendo ora di farti ammettere che il mondo vero e terribile è quello da me rappresentato, che la “realtà” oggettiva è quella da me evocata, che la vittoria di Trump contro la divisione dei poteri è un’ombra minacciosa perché si staglia con estrema e documentata chiarezza contro un comportamento estorsivo e abusivo il cui finale e trionfale annullamento in giudizio è decisamente surreale. So bene che alla base della distanza stellare c’è una considerazione tua e mia, diverse e opposte, del significato dell’elezione di Trump e del fenomeno popolare allegato al suo nome e alla sua parabola: ho letto i tuoi articoli, saggi e libri argomentati con sapiente cultura e mestiere. Ma ora non è in questione il fenomeno originario e lo scontro con la Clinton, ora ci sono quattro anni di esercizio del potere da giudicare.

 

Mi limito a una domanda. Cinquant’anni fa un presidente americano reduce da successi anche superiori a quelli vantati da Trump, il Nixon dell’apertura strategica alla Cina, fu scoperto a abusare dei suoi poteri, esattamente come Trump, per distruggere i suoi avversari, il Watergate, e a cercare di coprire la cacca con la segatura (cover up). Questo presidente fu travolto da un processo costituzionale di impeachment e dopo una disperata resistenza dovette dimettersi, lasciando il posto al suo vice. Era un mondo in cui la stampa, le istituzioni e il Congresso dominavano la scena secondo il rule of law. Credo che non userai l’argomento secondo cui la trascrizione della telefonata di Trump a Zelensky, e il resto della documentazione in dibattimento, non dimostrano alcunché di simile al Watergate, essendo un diritto dell’esecutivo combattere la corruzione all’estero senza riguardi anche per il figliolo di Biden; e nemmeno ti appellerai alla inevitabilità dell’accaduto in relazione alla funzione dei social nel contemporaneo, per spiegare lo schiaffo alla democrazia liberale assestato dai tuìt presidenziali e dalla boria del Grande fratello. Sono dunque curioso di come risponderai alla domanda: le nostre comuni libertà reggeranno a una così drammatica trasformazione del modo di essere e di funzionare di quelli che una volta erano poteri costituzionali bilanciati e oggi sono diventati un incontrollabile talk show?

Con affetto e amicizia,

Giuliano Ferrara

 


 

Caro Giuliano,

rispondo a questa tua missiva interplanetaria evitando premesse nelle quali, disponendo in un certo modo alcuni dettagli del caso in questione (Trump, impeachment ecc.), si potrebbe perfino arrivare a dire che la distanza fra noi sul punto specifico non è stellare come la rappresenti tu.

 

Ho scoperto di recente, grazie a Guia Soncini, l’esistenza della “premettite”. E’ una malattia terribile, ne sono affetto e cerco di combatterla. Premettere sarebbe soprattutto una scorciatoia un po’ banale, mentre tu mi inviti a prendere la via lunga e accidentata.

 

Il senso del dissenso per me è questo: non riesco a “disperare” assieme a te per lo spettacolo triste della dissoluzione democratica e istituzionale che hai descritto in modo impressionisticamente perfetto nel pezzo di ieri e in questa lettera. Non riesco a disperare non per partigianeria trumpiana, illazione canagliesca che anche qualche mio sedicente amico si diverte a mettere in giro (ciascuno gode come può), ma più semplicemente perché non ho mai riposto la mia speranza in quel sistema di libertà, divisione dei poteri, bilanciamenti costituzionali e via dicendo che tu vedi minacciato in modo inedito. Se non ho mai riposto la speranza in qualcosa, come posso disperare quando questa viene meno?

   

Guardo con sincera partecipazione e simpatia umana le “comuni libertà” di noi moderni, garantite dal diritto e rappresentate da istituzioni che nell’esperimento americano hanno perfino un che di sacrale; nel mio lungo periodo americano ho cercato non dico di capirle, ma almeno di studiarle, queste istituzioni così evocative nel loro salvaguardare e bilanciare, mi sono appassionato enormemente alla religione civile americana e a chi per primo l’ha osservata nel suo svolgersi, Robert Bellah, che ai miei occhi era un gigante proprio perché di quella religione non era un adepto. Ammiro la grandezza, il vigore di una potenza che si sente investita di una missione civilizzatrice e perfino messianica. Ma non ci credo.

 

Non credo nella tenuta universale dei progetti politici umani – qualunque essi siano – e nelle loro manifestazioni, comprese le “regole universalmente accettabili del potere” a cui fai riferimento, secondo me complicando con la scelta dell’avverbio fenomeni che, visti dal mio pianeta, sono invece particolari e transeunti. Mi sfilo con preoccupazione da certi cori quando sento definire irreversibile un sistema politico, come se il raggiungimento di un certo grado di perfezione o efficienza di un progetto potesse garantire la sua durata perpetua. Trovo che si possa abitare non dico tranquillamente – condizione incongrua per gli esseri umani – ma senza istinti apocalittici dentro la contraddizione di un mondo fatto di strutture che si presentano come eterne senza esserlo davvero.

 

Non so se tutto questo faccia di me una persona troppo o troppo poco di mondo. Ma da qui discende quella certa dose di cinismo – non è il termine che usi tu, ma una mia libera traduzione – che hai opportunamente rilevato nel mio articolo analitico a proposito delle conseguenze strutturali di un impeachment che è andato come sappiamo. Questo non significa affatto che mi auguri, o che addirittura esulti, per la vandalizzazione politica, istituzionale e morale di cui Trump si sta rendendo protagonista. Soltanto non mi scompongo troppo se questa avviene. Non mi dispero, ecco. E sì, proprio come dici tu, lo considero un presidente che può essere rieletto oppure no, non un asteroide che porterà all’estinzione di ciò che ho di più caro.

 

Lo so perfino io che anche un Agostino, dopo il sacco di Roma, ha visto le stelle cadere nel mare, immagine che più disperante non si potrebbe. Poi però ha scritto La Città di Dio, che non è solo un grande pilastro della cultura occidentale ecc. ma contiene già la lettura del più grande trauma del suo mondo alla luce della rivelazione e della salvezza eterna. Non è poco.

 

Mi rendo conto di essermi già allontanato molto da Trump, Pelosi, Romney e ancor di più da Nixon, ma se posso permettermi di spingere il mio ragionamento ancora un passo più in là, senza stramazzare nell’omiletica, mi permetterei di dire che la differenza planetaria cui fai riferimento va ricercata un po’ da queste parti. E’ la disposizione mentale che deriva della mia coscienza religiosa di cattolico romano a suggerirmi un certo partecipe disincanto verso i fatti, pur straordinari, che stanno accadendo. La mia speranza è custodita nel ventre di quella saggezza cristiana per cui la verità è un fatto incarnato ed eternamente vivente, padrone provvidenziale della storia, mentre i troni e le dominazioni del mondo passano. Mi sarebbe riuscito impossibile provare a rispondere con un minimo di sincerità alla tua domanda affettuosa e amichevole se non andando ai criteri fondamentali che orientano il mio giudizio sugli eventi.

Un abbraccio.

Mattia

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