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La verità di Bolton

Mattia Ferraresi

Calcolo, ambizione, riscatto. Ritratto psicologico di un burocrate eccentrico, prima umiliato e poi osannato dai nemici di Trump

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John Bolton riunisce in sé tutti i personaggi della storia. Eroe e antagonista, re e mendicante, fedele scudiero e consigliere traditore, salvatore della patria e nemico pubblico, attore protagonista e comparsa laterale, giustiziere e canaglia. I baffi sono l’unica costante. I nemici di un tempo, democratici e liberali più in generale, dicevano che era “troppo estremo”, “pazzo”, “pericoloso”, “instabile”, una voce troppo lontana dal coro mainnstream per potere essere ascoltata, lui che ai rapaci intenti avrebbe fatto volentieri seguire belligeranti azioni contro qualunque stato canaglia gli fosse capitato a tiro. E’ rispuntato un video del 2005 in cui l’allora senatore Barack Obama gli testimonia tutta la sua sfiducia in aula, durante l’ordalia che lo porterà a non essere confermato come ambasciatore americano presso l’Onu, carica che ricopriva pro tempore in virtù della nomina presidenziale. Nel contesto di quel processo di scrutinio del candidato sono emerse enormità anche molto pittoresche, come le accuse di avere lanciato oggetti vari ai suoi sottoposti. 

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John Bolton riunisce in sé tutti i personaggi della storia. Eroe e antagonista, re e mendicante, fedele scudiero e consigliere traditore, salvatore della patria e nemico pubblico, attore protagonista e comparsa laterale, giustiziere e canaglia. I baffi sono l’unica costante. I nemici di un tempo, democratici e liberali più in generale, dicevano che era “troppo estremo”, “pazzo”, “pericoloso”, “instabile”, una voce troppo lontana dal coro mainnstream per potere essere ascoltata, lui che ai rapaci intenti avrebbe fatto volentieri seguire belligeranti azioni contro qualunque stato canaglia gli fosse capitato a tiro. E’ rispuntato un video del 2005 in cui l’allora senatore Barack Obama gli testimonia tutta la sua sfiducia in aula, durante l’ordalia che lo porterà a non essere confermato come ambasciatore americano presso l’Onu, carica che ricopriva pro tempore in virtù della nomina presidenziale. Nel contesto di quel processo di scrutinio del candidato sono emerse enormità anche molto pittoresche, come le accuse di avere lanciato oggetti vari ai suoi sottoposti. 

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Adam Schiff, il deputato democratico a capo della commissione intelligence e che con le sue appassionate e precisissime arringhe nel processo di impeachment si è guadagnato un posto d’onore nei cuori dei liberal, diceva che Bolton è uno che “probabilmente esagererà gli impulsi pericolosi e bellicosi del presidente, alimentando la sua inclinazione ad agire senza pensare” e non farà che acuire la predilezione trumpiana per le teorie del complotto, passione che li accomuna. Ora che offre la sua versione dei fatti che sono al centro dell’impeachment – una versione in contrasto totale con quella presidente – in un libro non ancora uscito ma arrivato nelle mani della stampa (e da quel momento molto chiacchierato) e per ora formalmente congelato dalla burocrazia della Casa Bianca, che si aggrappa a scorrettezze tecniche con ogni probabilità pretestuose, i suoi vecchi nemici lo presentano come il più equilibrato e credibile dei testimoni. Se solo si potesse ammettere Bolton nella lista delle persone sentite dal Congresso, sospirano gli stessi che per anni, in molti casi per decenni, non l’hanno voluto ammettere nella lista dei personaggi presentabili di Washington. 


Offre la sua versione dei fatti che sono al centro dell’impeachment in un libro non ancora uscito ma arrivato nelle mani della stampa


 

La contraddizione si ripete identica nella parte opposta dello spettro politico. Trump in origine lo disprezzava, e lo ha scartato per un ruolo di governo, poi lo ha assunto come consigliere per la sicurezza nazionale, elogiando le sue qualità di esperto di scenari globali e nazionalista a mano armata. Intanto, i suoi consiglieri informali come Tucker Carlson, volto di Fox News, gli dicevano che era un “verme” di cui non doveva fidarsi, e come sempre il presidente ha voluto fare tutte le cose insieme senza riuscire a concluderne nemmeno una. Lo ha tenuto al suo fianco, nelle stanze dove si prendono le decisioni, ma lo ha marginalizzato praticamente su tutti i dossier in cui il falco coi baffi avrebbe voluto esercitare la sua influenza. La Casa Bianca ha escluso l’ipotesi del regime change in Iran, invocata da Bolton per anni, e ha minacciato incautamente l’abbandono della Nato, alleanza sostenuta con determinazione dal consigliere, che ha una feroce vena antirussa e antiputiniana. Trump ha coltivato poi uno sghembo e inconcludente approccio diplomatico con la Corea del nord, altra soluzione impalatabile per Bolton. Mentre il presidente preparava l’incontro con Kim Jong Un nella zona demilitarizzata, lui era in Mongolia.

 

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I due non sono riusciti a salvare le apparenze neanche nell’atto del divorzio, quando non hanno nemmeno tenuto una versione ufficiale. Il presidente ha detto di averlo cacciato dopo “molti disaccordi”, Bolton ha sostenuto di avere dato le dimissioni spontaneamente, senza alcuna richiesta presidenziale. Si pensava che i rapporti non sarebbero potuti precipitare più in basso, mentre invece c’era un dettaglio che, in modo non sorprendente, il presidente non aveva previsto, cioè che Bolton in quelle stanze, in quegli incontri, non solo c’era ma prendeva appunti, segnava mentalmente (e non solo) le conversazioni, fissava lo sviluppo delle vicende. Insomma, preparava una polizza assicurativa. La polizza ha preso la forma di un libro che si intitola The Room Where It Happened: A White House Memoir, e in quella stanza dice di aver sentito forte chiaro che Trump intenzionalmente usava il suo potere per danneggiare un avversario politico, Joe Biden, giocando di sponda con il presidente dell’Ucraina. 

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“Non è una persona nota per la sua umiltà”, ha scritto l’ex membro del Consiglio per la sicurezza nazionale Stevenson


 

Lo sconcertante fatto ha riaperto il gioco delle maschere e delle alleanze impossibili, con i democratici che senza batter ciglio elogiano la persona di specchiata integrità, l’inaffidabile che si fa improvvisamente credibile, e Trump che twitta “se l’avessi ascoltato, adesso saremmo alla sesta guerra mondiale!”. Forse ha ragione il commentatore Howard Kurtz quando dice che in questa sagra delle alleanze ipocrite c’è “tutto quello che milioni di americani odiano di Washington”, e che quindi in fondo è un caso di business as usual, ma molti aspetti della vicenda rimangono ancora in ombra. Sono elementi da decrittare, che riguardano una personalità perfettamente incastonata nell’ethos di Washington, alimentata da uno spettro di passioni che abbraccia l’avidità, la vendetta, l’onore, l’ira, il potere e si combina con elementi nobili e perfino istituzionali, come il senso dello stato, il patriottismo, la considerazione delle istituzioni repubblicane come emanazioni di una volontà quasi divina, che imprime alle cose del governo della nazione un tratto sacro.

 

Un primo elemento per inquadrare la condotta di Bolton è la concezione che ha di sé come servitore dello stato. Certo, ha messo per iscritto le sue verità per smarcarsi da Trump, per testimoniare che ha avuto il “coraggio morale” di dire la verità (la citazione è di Peter Beinart, sull’Atlantic) mentre tutti intorno mentivano o reggevano il gioco con il silenzio, ma anche per quel senso istituzionale che è radicato in un uomo che dai tempi in cui coordinava, al livello giovanile, la campagna elettorale di Barry Goldwater si è sempre mosso all’interno degli apparati dello stato. L’immagine del Bolton guerrafondaio iperbolico che dice sconvenienti enormità sulla politica estera è controbilanciata dal curriculum grigiastro di un funzionario che ha ricoperto cariche con titoli molto burocratici collocati nei gangli del potere della capitale. 


La Casa Bianca ha escluso l’ipotesi del regime change in Iran, invocata da Bolton per anni, e ha minacciato l’abbandono della Nato


 

Bolton è un pezzo della mobilia di Washington, un insider con il pedigree professionale perfettamente in regola e anche la laurea a Yale, che fino ai suoi tempi è stato un passaggio quasi inevitabile per chi s’avviava a entrare nell’establishment conservatore. A quella ha poi aggiunto il diploma alla law school della stessa università, dove era compagno di corso di Clarence Thomas, il giudice della Corte suprema. A questo senso delle istituzioni ha fatto appello anche David Frum, che conosce bene Bolton dai tempi in cui lavoravano entrambi nell’Amministrazione Bush e all’American Enterprise Institute, quando lo scorso settembre lo ha invitato pubblicamente a parlare, a dire quel che sapeva, a prendere posizione. Il funzionario lo ha fatto con un libro, un memoir politico con un numero di pagine superiore al numero dei giorni in cui è stato a capo del consiglio per la sicurezza nazionale, cosa che suggerisce un certo livello di dettaglio nel racconto, ma quel che conta è il frammento giunto nelle mani del New York Times, che riguarda il cuore dell’impeachment istruito contro il presidente. Bolton aveva detto, in precedenza, che avrebbe testimoniato al Congresso dietro presentazione di una regolare ingiunzione. Non arrivando richiesta formale, si è adoperato altrimenti, curandosi attentamente di trarre il massimo vantaggio pubblicitario ed economico dall’operazione.

 

Questo illumina un secondo tratto della personalità di Bolton, quello dell’avvocato di successo che ha lavorato in uno degli studi più importanti della capitale, Cinvington & Burlington, e poi è diventato partner di Lerner, Reed, Bolton & McManus, navigando con profitto in un settore dove l’istinto del litigatore, il senso delle relazioni e una forte dose di avidità sono elementi essenziali per portare a casa qualche trofeo. L’operazione del libro nasce anche all’interno di questa cornice, ché una testimonianza al Congresso non produce reddito mentre un esplosivo libro-verità che racconta dall’interno la vicenda di tutte le vicende ha fruttato due milioni di dollari in anticipo. Esagera chi presenta questa pur considerevole cifra come la motivazione unica ed esclusiva della decisione di Bolton, il quale dichiarava redditi annuali superiori ai due milioni di dollari anche quando non esercitava la professione forense, non lavorava nel governo e non scriveva bestseller. Fox News lo ha generosamente retribuito per i suoi contributi come opinionista, e ancor più generosamente lo hanno compensato le centinaia di aziende, fondazioni e associazioni varie che negli anni lo hanno voluto come speaker in giro per il mondo. Non saranno i due milioni del libro a cambiare lo scenario, ma allo stesso tempo Bolton è cresciuto in un ambiente che valorizza e ricompensa chi è in grado di trarre il massimo vantaggio da ogni situazione, specie dalle circostanze avverse, e in questo senso il libro non è che il precipitato commerciale di una più articolata operazione di riscatto. Il burocrate politicamente eccentrico che è stato umiliato perfino da Trump rientra nel plot del potere americano nel ruolo dell’insider che rivela la verità in nome di un bene più alto. 


Un primo elemento per inquadrare la condotta di Bolton è la concezione che ha di sé come servitore dello stato 


Nell’intrigo boltoniano rimane un ultimo elemento da sottolineare, quello dell’ambizione personale. “Non è una persona nota per la sua umiltà”, ha scritto l’ex membro del consiglio per la sicurezza nazionale Jonathan Stevenson in un commento sul New York Times, ricordando che Bolton ha accarezzato più volte il sogno di una candidatura presidenziale, e nel 2015, all’inizio di una campagna che sarà poi fatidica, era stato vicino a decidersi di correre. E’ ancora il titolare di un comitato di azione politica – gli organi attraverso cui si raccolgono finanziamenti elettorali – e grazie a questo ha coltivato una vasta rete di facoltosi sostenitori distribuiti nei quattro angoli del paese. A 71 anni l’ipotesi di farsi spazio per una futura candidatura presidenziale è naturalmente irreale, ma questo non toglie che il personaggio abbia nell’orizzonte l’ambizione di una collocazione influente nell’assetto governativo post-Trump.

 

Bolton sarà anche, come qualcuno sostiene, un cinico calcolatore che lavora per ottenere rendite di breve termine assai incerte, “ma se mostrerà ulteriormente la doppiezza di Trump, finirà, benché in maniera fortuita, dalla parte giusta della storia”, fino a essere riconosciuto per quello che è: “Uno dei più tosti combattenti politici di Washington”, come ha scritto Stevenson. Presentarsi come il funzionario esausto che si è prestato all’umiliazione di servire come il quarto consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump non è un biglietto da visita particolarmente convincente; offrirsi come colui che ha raccontato le verità apprese nella stanza dove “tutto è successo” ha tutto un altro sapore.

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