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Le gang di Haftar

Daniele Ranieri

Sudanesi, salafiti & C. Il generale libico che dice di “combattere contro le milizie” usa molte milizie

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In Libia a soltanto centocinquanta chilometri dall’isola di Lampedusa si combatte un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni più potenti della regione e anche qualcuna fuori. L’Italia ha perso la capacità di farsi ascoltare in quella guerra – almeno per ora – anche se gli effetti arriveranno fino a qui. Per questo vale la pena approfondire cosa succede, in poche puntate. Oggi ci si occupa del cosiddetto “Esercito nazionale libico” del generale Haftar.

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In Libia a soltanto centocinquanta chilometri dall’isola di Lampedusa si combatte un conflitto internazionale che coinvolge le nazioni più potenti della regione e anche qualcuna fuori. L’Italia ha perso la capacità di farsi ascoltare in quella guerra – almeno per ora – anche se gli effetti arriveranno fino a qui. Per questo vale la pena approfondire cosa succede, in poche puntate. Oggi ci si occupa del cosiddetto “Esercito nazionale libico” del generale Haftar.

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Le puntate precedenti: 1 / 2

 


 

Roma. Il generale Khalifa Haftar che comanda le forze che assediano la città di Tripoli ha creato una narrazione chiara della guerra civile fin dall’inizio. Da una parte ci sono lui e i suoi uomini impegnati in una campagna per liberare il paese dalle milizie che compiono azioni criminali o sono in combutta con i terroristi islamisti o spesso entrambe le cose. Dall’altra, appunto, ci sono le milizie, e per questa impostazione molto furba può sempre proclamare che “è necessario ripulire la Libia dalle milizie” e nessuno gli può rispondere che no, non è vero. Ha anche chiamato l’offensiva contro Tripoli “Toufan al Karama”, l’Inondazione di Dignità, in modo che fosse un innesto ideale sull’operazione Karama, l’operazione Dignità, che fu la campagna tra il 2015 e il 2017 per sradicare da Bengasi le fazioni islamiste – tra cui anche lo Stato islamico e al Qaida. Fu durante l’operazione Karama che Haftar guadagnò molta della credibilità di cui gode oggi a livello internazionale: dentro il settore militare dell’aeroporto di Bengasi in quegli anni c’erano forze speciali francesi e americane, per dare manforte, e anche un piccolo contingente di incursori italiani del Nono Col Moschin come “osservatori”. Nota: la battaglia fu vinta in tre anni, ma interi quartieri di Bengasi furono ridotti in macerie. Ora Haftar vorrebbe spostare il fuoco dell’operazione Karama su Tripoli, come se fosse la stessa cosa, ma non è la stessa cosa. Haftar ha trattato con Fayez al Serraj, si è incontrato con lui – per esempio a Palermo nel novembre 2018 – e oggi è difficile sostenere che Serraj, messo a Tripoli dalle Nazioni Unite per provare a riconciliare il paese, sia un capo terrorista. Ma Haftar batte lo stesso su questo tasto.

 

Sempre dentro questa narrazione, le forze che combattono per Haftar si fanno chiamare “Esercito nazionale libico”, come se fossero reparti regolari. In realtà secondo i dati del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, della missione in Libia delle Nazioni Unite e dell’Ispi, su un totale di venticinquemila uomini i reparti cosiddetti regolari contano soltanto settemila uomini. Gli altri diciottomila formano un assortimento di milizie e in alcuni casi non sono nemmeno libici, ma sudanesi. Sulla presenza di sudanesi ci sono diverse versioni – come spesso succede quando si parla di Libia. Per alcuni si tratterebbe dei famigerati Janjaweed, le bande armate responsabili della pulizia etnica nella regione del Darfur. Per altri si tratterebbe di combattenti dell’esercito di liberazione sudanese, quindi ribelli anti-regime che hanno trovato rifugio in Libia e poi si sono uniti alla campagna. Per altri ancora, sono sudanesi attirati negli Emirati Arabi Uniti con la promessa di un lavoro e poi mandati in Libia.

 

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Molte di queste milizie si sono date un nome finto-militare, come “Battaglione” seguito da un numero, tanto per dare l’illusione di essere inquadrate in una struttura regolare . Tra loro ci sono anche forze salafite, che aderiscono a una versione rigidissima dell’islam, non credono nella democrazia e vogliono azzerare la diversità di vedute in Libia. La loro ideologia salafita è quietista, nel senso che credono che non si debba combattere contro l’uomo forte, sia esso Haftar o Gheddafi, perché se ha il potere vuol dire che Dio gliel’ha dato. Così combattono per l’uomo forte. Prima o poi però chiederanno il conto.

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(terzo di una serie di articoli)

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