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La Brexit come assist alla globalizzazione

Claudio Cerasa

La sfida tra modelli di apertura, il colpo a Trump, i cattivi presagi per i nazionalisti. Il Wsj sostiene una tesi scandalosa: l’uscita del Regno Unito dall’Ue innescherà un meccanismo virtuoso che porterà benefici a tutti. Spunti per superare un trauma

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È possibile che abbia ragione chi dice che la Brexit sarà un disastro, che la fuga dall’Unione europea della Gran Bretagna creerà un meccanismo vizioso che avrà l’effetto di indebolire sia l’Unione europea sia la Gran Bretagna e che alla fine per l’Europa e anche per il Regno Unito non potrà che essere una tragedia avere una Gran Bretagna destinata a diventare qualcosa di simile a una gigantesca Singapore pronta a trasformarsi in un paradiso fiscale per ricchi cinesi desiderosi di espatriare in Europa. È possibile che abbia ragione chi osserva la Brexit con uno sguardo apocalittico, ma è possibile invece che abbia ragione chi considera la triste festa dell’indipendenza della Gran Bretagna come un fatto traumatico che potrebbe però diventare incredibilmente un’opportunità per trasformare e migliorare tanto la Gran Bretagna quanto l’Europa.

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È possibile che abbia ragione chi dice che la Brexit sarà un disastro, che la fuga dall’Unione europea della Gran Bretagna creerà un meccanismo vizioso che avrà l’effetto di indebolire sia l’Unione europea sia la Gran Bretagna e che alla fine per l’Europa e anche per il Regno Unito non potrà che essere una tragedia avere una Gran Bretagna destinata a diventare qualcosa di simile a una gigantesca Singapore pronta a trasformarsi in un paradiso fiscale per ricchi cinesi desiderosi di espatriare in Europa. È possibile che abbia ragione chi osserva la Brexit con uno sguardo apocalittico, ma è possibile invece che abbia ragione chi considera la triste festa dell’indipendenza della Gran Bretagna come un fatto traumatico che potrebbe però diventare incredibilmente un’opportunità per trasformare e migliorare tanto la Gran Bretagna quanto l’Europa.

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La tesi sulla Brexit veicolo di inaspettate occasioni da sfruttare è quella sostenuta ieri con buoni argomenti da un editoriale del Wall Street Journal, secondo cui l’addio del Regno Unito avrà l’effetto di scatenare una battaglia virtuosa tra due modi diversi di intendere non il protezionismo ma la globalizzazione. “La Brexit – scrive il Wsj – è un’opportunità per i leader continentali di affrontare più seriamente una serie di fallimenti andati in scena negli ultimi anni in Europa. E una Gran Bretagna con una maggiore indipendenza politica e profondi legami commerciali con l’Europa senza tutta l’inutile burocrazia e l’inutile centralizzazione potrebbe diventare persino un modello per la stessa Europa”.

 

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Il ragionamento del Wall Street Journal è interessante e si riferisce alla possibilità che l’uscita del Regno Unito dell’Unione europea possa diventare per Boris Johnson un’opportunità non per alzare muri e per giocare con i dazi ma per provare ad abbatterli, i muri. Scommettendo cioè con più convinzione sul libero mercato e contrapponendo alle politiche dell’Unione europea non un modello di chiusura, sullo stile di Trump, ma un nuovo modello di apertura, basato su nuovi accordi commerciali e su nuovi accordi per il libero commercio, che potrebbero generare anche nell’Unione europea un meccanismo ancora più virtuoso rispetto a quello osservato negli ultimi anni, durante i quali l’Unione europea – nell’indifferenza di molti osservatori – ha provato in modo efficace a rispondere al protezionismo trumpiano con una dose massiccia di politiche votate all’apertura (negli ultimi anni, l’Ue ha sottoscritto accordi di libero scambio importanti con il Canada, il Messico, il Giappone e Singapore e ne ha messi in cantiere altri con l’India, l’Australia, la Nuova Zelanda e il Cile). La tesi del Wsj è che insomma di fronte a una sfida al rialzo della Gran Bretagna potrebbe accadere che i politici europei facciano qualche passo in avanti per rendere l’economia dei propri paesi ancora più libera e aperta nella consapevolezza che solo rafforzando la globalizzazione sarà possibile offrire benefici ulteriori ai propri cittadini (e non è un caso che proprio negli anni in cui le istituzioni europee hanno lavorato con decisione per incentivare nei paesi membri politiche votate all’apertura sia capitato quello che ormai da mesi registra regolarmente l’Eurostat: numeri da record sull’occupazione, come quelli offerti ieri dall’Istituto di statistica europea, secondo il quale, a dicembre, nei paesi dell’Eurozona, la disoccupazione è scesa al 7,5 per cento, il livello più basso mai registrato dal maggio 2008).

 

Sarà davvero così? Sarà possibile davvero trasformare una pessima idea (la Brexit) in un qualcosa di virtuoso? E sarà davvero questa la strada che prenderà Boris Johnson?

 

Nel 2017, ai tempi del governo May, Boris Johnson e Michael Gove, allora ministri, sostennero che una buona Brexit sarebbe stata tale solo se avesse permesso alla Gran Bretagna di adottare una “regolamentazione favorevole alla concorrenza” e una robusta “semplificazione” (e dall’epoca diversi conservatori sognano effettivamente di fare della Gran Bretagna una grande Singapore d’Europa) e secondo Jim O’Neill, per esempio, ex economista di Goldman Sachs e ministro del Tesoro, che ha contribuito ad elaborare la strategia della Northern Powerhouse sotto il governo Cameron, la strada che dovrà prendere Johnson non potrà che essere questa. E considerando che la capacità della Gran Bretagna di aumentare gli scambi delle merci dipende dalla produttività dell’economia, che è una delle più basse del G7 e dell’area dell’Ocse, alla fine, dice O’Neill, anche BoJo capirà che “il liberalismo economico è il modo migliore per ottenere aumenti di produttività”. Ad avere qualche dubbio sul fatto che Boris Johnson sia intenzionato a utilizzare la Brexit per dare una frustata thatcheriana all’economia inglese è però un altro giornale importante che su questi temi ha da mesi posizioni più scettiche rispetto al giornale di Wall Street.

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Il Financial Times, in un lungo articolo anticipato ieri sul sito e che sarà pubblicato oggi sul cartaceo, ha ricordato che Johnson è effettivamente imprevedibile – l’ex vice primo ministro Tory Michael Heseltine definisce BoJo “il politico più flessibile dei tempi moderni” – ma ha anche notato che la visione “One Nation” di cui è portatore Johnson è quella in cui la priorità vera non è avere un’economia più aperta possibile, con tasse più basse e mercati più liberi, ma è quella di avere uno stato che interviene attivamente per promuovere la ripresa economica, per offrire una spesa più elevata e per mettere anche il naso in alcune aziende considerate strategiche più dallo stato che dal mercato (Johnson, fa notare Ft con malizia, ha appena salvato con soldi dello stato FlyBe, una compagnia area britannica tecnicamente fallita specializzata in tratte regionali).

 

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È possibile che abbia ragione chi dice che la Brexit alla fine sarà un disastro e chi sostiene che l’imprevedibilità di Johnson non dia alcuna certezza rispetto alla possibilità che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea possa innescare involontariamente un qualche meccanismo virtuoso. Ma la formazione politica del primo ministro inglese, la sua intenzione a usare la Brexit per negoziare meglio i trattati di libero scambio con altri paesi, la sua volontà di differenziarsi a tutti i costi dagli istinti protezionisti di Donald Trump (vedi la partita su Huawei) e la consapevolezza che Brexit o non Brexit la Gran Bretagna intrattiene oggi il 45 per cento dei suoi scambi commerciali con l’Unione europea sono tutti piccoli indizi che ci portano a pensare una cosa semplice. Ovverosia che i populisti d’Europa che hanno individuato in Boris Johnson il nuovo re del sovranismo europeo potrebbero presto rimanere delusi e scoprire che la Brexit potrebbe diventare un alleato prezioso non del partito della chiusura ma di quello dell’apertura. Chissà.

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