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Ciao, Gran Bretagna

Paola Peduzzi e Micol Flammini

Saluti, scatoloni, ricordi, il valzer delle candele: il divorzio degli inglesi è arrivato. Il “bong” che non ci sarà, i prossimi undici mesi (pieni di pesci) e l’ultimo, europeissimo atto di Londra

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Il giorno degli scatoloni e dei saluti è arrivato, il Parlamento europeo ha concluso la pratica formale del primo divorzio della storia del progetto europeo: finora abbiamo celebrato nuovi ingressi, abbiamo aggiunto posti a tavola per questa famiglia allargata che chiamiamo Europa, e ora va tolto un coperto. Eravamo ventotto e siamo rimasti in ventisette. Dopo 1.317 giorni dal referendum sulla Brexit, il Regno Unito uscirà domani sera dall’Ue, a mezzanotte – mezzanotte per noi europei, l’orario tondo non vale per gli inglesi, che festeggeranno alle 23 con il loro spettacolo a colori (della Union Jack). Molti uffici inglesi al Parlamento europeo sono ormai vuoti, anzi alcuni non erano mai stati occupati per davvero: molti europarlamentari britannici sono arrivati dopo il voto del maggio dell’anno scorso, hanno avuto un mandato breve e sapevano che era temporaneo. Gli scatoloni riempiti a metà sono forse una delle immagini più tristi di questo ultimo atto: quanta poca vita insieme. Anzi, questa è un’argomentazione che ritorna spesso tra chi non ha speso né spenderà lacrime per il divorzio: in fondo questo matrimonio è durato poco più di quarant’anni. Poteva durare ancora, certo, ma il punto è che la relazione tra gli isolani e il continente è stata forte anche prima della convivenza stretta: potrà esserlo ancora. Lo scrittore britannico Louis de Bernières – il suo libro più famoso è “Il mandolino del capitano Corelli” della metà degli anni Novanta: raccontava la storia d’amore tra Antonio Corelli e Pelagia, la figlia di un medico di Cefalonia mentre le truppe tedesche massacravano quelle italiane – ha scritto un (criticatissimo) articolo sul Financial Times dello scorso fine settimana in cui ribadisce proprio questo aspetto: “Nessuna famiglia è costituita e determinata da accordi scritti”, la famiglia è la storia insieme, è abitare nello stesso villaggio, che non è certo delimitato dai confini del mercato unico. Ora funzionerà come nelle favole: se mi ami resta, se no vai (e non guarderò che cosa fai quando non sei con me).

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Il giorno degli scatoloni e dei saluti è arrivato, il Parlamento europeo ha concluso la pratica formale del primo divorzio della storia del progetto europeo: finora abbiamo celebrato nuovi ingressi, abbiamo aggiunto posti a tavola per questa famiglia allargata che chiamiamo Europa, e ora va tolto un coperto. Eravamo ventotto e siamo rimasti in ventisette. Dopo 1.317 giorni dal referendum sulla Brexit, il Regno Unito uscirà domani sera dall’Ue, a mezzanotte – mezzanotte per noi europei, l’orario tondo non vale per gli inglesi, che festeggeranno alle 23 con il loro spettacolo a colori (della Union Jack). Molti uffici inglesi al Parlamento europeo sono ormai vuoti, anzi alcuni non erano mai stati occupati per davvero: molti europarlamentari britannici sono arrivati dopo il voto del maggio dell’anno scorso, hanno avuto un mandato breve e sapevano che era temporaneo. Gli scatoloni riempiti a metà sono forse una delle immagini più tristi di questo ultimo atto: quanta poca vita insieme. Anzi, questa è un’argomentazione che ritorna spesso tra chi non ha speso né spenderà lacrime per il divorzio: in fondo questo matrimonio è durato poco più di quarant’anni. Poteva durare ancora, certo, ma il punto è che la relazione tra gli isolani e il continente è stata forte anche prima della convivenza stretta: potrà esserlo ancora. Lo scrittore britannico Louis de Bernières – il suo libro più famoso è “Il mandolino del capitano Corelli” della metà degli anni Novanta: raccontava la storia d’amore tra Antonio Corelli e Pelagia, la figlia di un medico di Cefalonia mentre le truppe tedesche massacravano quelle italiane – ha scritto un (criticatissimo) articolo sul Financial Times dello scorso fine settimana in cui ribadisce proprio questo aspetto: “Nessuna famiglia è costituita e determinata da accordi scritti”, la famiglia è la storia insieme, è abitare nello stesso villaggio, che non è certo delimitato dai confini del mercato unico. Ora funzionerà come nelle favole: se mi ami resta, se no vai (e non guarderò che cosa fai quando non sei con me).

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Oggi si sente solo il distacco. Gli interventi al Parlamento europeo sono stati per lo più addolorati: anche se molti raccontano che questi tre anni di negoziati hanno creato grande “risentimento” tra gli europei (quante volte abbiamo sentito dire: se non se ne vanno loro, li cacciamo noi, ’sti insopportabili inglesi), ieri in aula c’erano solo delusione, tristezza e un pizzico di speranza. E’ incredibile come l’Europa sia diventata per davvero una moglie abbandonata: delusa perché il marito (Londra) non la ama più, triste perché è davvero finita, speranzosa perché chissà, poi torneremo insieme. La più speranzosa è l’europarlamentare scozzese Heather Anderson, che ha preso il suo seggio soltanto questa settimana: “Questi quattro giorni sono i miei primi quattro giorni – ha detto a Sky News – La Scozia chiederà di riunirsi all’Ue non appena avremo ottenuto l’indipendenza”. Arrivederci insomma, chissà con che bandiera e con che stato d’animo, ma non importa, o almeno non importa all’europarlamentare dei Verdi tedeschi Terry Reintke che ha fatto una campagna a Bruxelles per “Leave a Light On”, lasciare una luce accesa per gli inglesi: torneranno. La Reintke ha mandato un’email ai colleghi nei giorni scorsi chiedendo loro di cantare insieme alla fine del voto in aula “Il Valzer delle Candele”. L’ hanno intonato tutti e sono venute giù le lacrime ai deputati, britannici e non, e anche ai cronisti. A pranzo ieri, prima di andare a votare, il gruppo dei socialisti ha organizzato un incontro dal titolo “It’s not a Goodbye, it’s au revoir”, mentre il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha invitato tutti (compresi i giornalisti inglesi) a una festa di saluto serale. Per chi volesse, questa sera può andare a Place du Luxembourg alla festa “Brexit sh*t, but let’s party anyway”, si va avanti per tutta la notte.

 

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Si va avanti per altri undici mesi, in realtà. Da sabato 1 febbraio inizia il periodo di transizione fino al 31 dicembre in cui si dovranno definire le relazioni future tra il Regno Unito e l’Ue. Ci siamo fatte spiegare tutto quello cui bisogna badare da David Carretta, che è rimasto sorridente persino dopo questi tre anni di negoziati e non si è mai spazientito nemmeno davanti alle domande più sceme, e quindi oggi è prontissimo. Intanto ci ha detto che “i nerd” della Brexit dovranno aggiornare il loro vocabolario: addio “backstop irlandese”, “Brexit bill” e “diritti dei cittadini”. Le due nuove parole d’ordine saranno “zero dumping” e “pesca”, cioè le due priorità dell’Ue nelle trattative con il governo di Boris Johnson e che Boris Johnson intende cercare di sfruttare a proprio vantaggio per strappare il maggior numero di concessioni possibile su un accordo di libero scambio. Di qui alla fine dell’anno, continua Carretta, saranno centrali anche tre parole che fanno già parte del lessico Brexit: “proroga”, “precipizio” e “no deal”. L’accordo che entrerà in vigore venerdì notte permetterà al Regno Unito di uscire dalle istituzioni europee, ma per il resto non cambierà nulla o quasi, visto che il Regno resterà di fatto in tutti i meccanismi europei (dal mercato interno all’Unione doganale) fino al 31 dicembre 2020. A proposito di non cambiare nulla: le ricerche sulla rete relative alla Brexit sono cresciute tantissimo in queste ultime settimane. La parola più cercata è “Bong”, dopo che il premier Johnson ha detto che stava facendo il possibile perché tutti gli inglesi potessero “bung a bob for a Big Ben bong”, cioè celebrare la Brexit con le campane del Big Ben (non ce l’ha fatta). Le altre ricerche sottolineano l’ansia: “libertà di movimento”, “visa”, “passport”. Fino al 31 dicembre non cambia nulla, ma il governo inglese sta studiando un modello a punti come quello adottato dall’Australia per attirare soltanto immigrati molto qualificati. Il dibattito è appena cominciato, ma un recente studio di Ipsos Mori contiene un elemento molto interessante riguardo a questo tema. Come si sa l’immigrazione, o meglio la paura degli immigrati ruba-lavoro, è stata determinante nel voto a favore della Brexit. Secondo Ipsos Mori, alla fine del 2015, a sei mesi dal referendum, il tema immigrazione è iniziato a salire nelle preoccupazioni degli inglesi fino ad arrivare al primo posto, preoccupazione massima per il 60 per cento degli inglesi. Prima di allora la sensibilità era molto più bassa, e gli immigrati erano – quando lo erano – una preoccupazione come tante altre. Sapete oggi quanti inglesi collocano l’immigrazione tra le paure più grandi? Circa il dieci per cento.

 

Inventarsi una relazione. Le relazioni future sono tutte da inventare, continua David Carretta. Lunedì prossimo la Commissione presenterà il suo mandato negoziale, che i governi approveranno il 25 febbraio. Il 2 o 3 marzo dovrebbe esserci il calcio di inizio formale delle trattative. Il 30 giugno c’è il primo precipizio: entro quella data, Johnson deve decidere se chiedere una proroga del periodo di transizione che permette al Regno Unito di restare di fatto nell’Ue e nel suo mercato (il premier lo ha già escluso anche per tattica negoziale). Altrimenti il precipizio del “no deal” si concretizzerà l’ultimo giorno dell’anno. Di qui ad allora i britannici dovranno rispondere alle domande esistenziali che non sono stati in grado di risolvere finora: che tipo di partnership economica e di sicurezza vogliono avere con noi? E quanta sovranità sono disposti a cedere all’Ue per limitare i danni dell’uscita?

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“Zero dazi, zero quote e zero dumping” è lo slogan che Michel Barnier e la sua squadra si sono inventati per fissare i paletti dell’Ue nei negoziati sull’accordo di libero scambio. Una variante di “zero dumping” è “level playing field”, cioè la parità di condizioni e la concorrenza leale. Bruxelles e gli stati membri vogliono evitare che il Regno Unito si trasformi in una “Singapore sul Tamigi” pronto a sbaragliare le economie del continente grazie alla deregolamentazione e agli aiuti di stato. Per avere accesso al mercato europeo, Johnson dovrà accettare di allineare la legislazione britannica a quella dell’Ue su concorrenza, clima, ambiente, sicurezza alimentare, diritti sociali. “Se non ci sono garanzie chiare sulle condizioni sulla concorrenza leale, l’apertura commerciale dell’Ue non potrà essere totale”, ha spiegato martedì la ministra francese per gli Affari europei, Amélie De Montchalin. “Vogliamo tutti zero dazi e zero barriere commerciali, ma questo significa anche zero dumping e zero concorrenza sleale”, ha detto ieri il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas: “Senza standard simili per proteggere i nostri lavoratori, i nostri consumatori e l’ambiente, non può esserci pieno accesso al più grande mercato unico al mondo”. C’è un problema: Johnson e il suo ministro dell’Economia, Sajid Javid, hanno già detto che non accetteranno di allinearsi alla regolamentazione dell’Ue (tra le proteste del mondo del business britannico). Del resto, se i brexiteers hanno affossato l’accordo Brexit di Theresa May è perché l’ex premier aveva provato a far rientrare la sovranità dell’Ue dalla finestra (accettando l’allineamento normativo di tutto il Regno Unito nell’ambito del backstop irlandese). Perché uscire, se poi è sempre l’Ue a imporre le sue regole? Gli europei vogliono credere che, dopo il suo trionfo elettorale, Johnson si trasformerà in un pragmatico e che, quando si troverà davanti al “no deal” sull’accordo di libero scambio, accetterà un compromesso. Come nel negoziato sul “Brexit deal”, l’Ue si sente in posizione di forza perché ha meno da rimetterci del Regno Unito in caso di mancato accordo, i cui effetti sono equivalenti a quelli della “no deal Brexit” in termini di dazi, penurie e code di camion a Calais e Dover.

 

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E’ tutta una questione di pesci. Johnson è convinto di avere un’arma a propria disposizione per riportare un po’ di simmetria nel negoziato: la necessità per gli europei di un accordo sulla pesca. Ieri è stato pubblicato a Londra il Fisheries Bill, la legge che pone fine al diritto automatico per i pescherecci europei di pescare in acque britanniche: i più importanti imprenditori del settore ieri erano in Parlamento per marcare l’importanza del momento e hanno fatto una festa a Portcullis House. Il tema è economicamente e politicamente fondamentale per il leader europeo che si è mostrato più duro sulla Brexit, il presidente francese Emmauel Macron. Più del 30 per cento di quanto è pescato dai francesi proviene da acque britanniche. Per i pescatori della Bretagna si va oltre il 50 per cento e nel Nord-Pas-de-Calais – regione già colpita dalla de-industrializzazione in cui la leader nazionalista Marine Le Pen va forte – si arriva al 75 per cento. Anche Belgio, Olanda e Danimarca hanno un interesse strategico a continuare ad avere accesso alle acque britanniche. Johnson intende usare il pesce come moneta di scambio sul commercio. Ma vale di più qualche tonnellata di sogliole e merluzzi o un mercato da 400 milioni di consumatori?

 

L’Independence day. Per rispondere alle domande esistenziali raccontate da David Carretta c’è tempo (non tantissimo), ma intanto è il momento di festeggiare. Il Big Ben, come si è detto, non suonerà: nonostante le grandi attese alimentate da Johnson sul “Big Ben Bong”, farlo suonare costava circa 500 mila sterline, un po’ tantino persino per chi considera la notte del 31 gennaio l’Independence day britannico. Anche i più determinati hanno dovuto desistere: il progetto di crowdfunding “Bong for Brexit” non è andato a buon fine. Mark Francois, deputato conservatore ed euroscettico oltranzista, ci teneva tantissimo. “Sarebbe stata una cosa naturale – ci dice – L’orologio più famoso al mondo deve celebrare un grande momento per la storia del nostro paese. Attualmente il Big Ben suona a Capodanno e per l’anniversario della fine della prima guerra mondiale. Anche la Brexit si meritava lo stesso riconoscimento per segnare l’inizio di una nuova èra”. Sulla facciata di Downing Street sarà proiettato un orologio con il countdown un’ora prima dell’uscita, ma poiché la via in cui risiede il premier è chiusa, nessuno potrà vedere l’orologio da vicino (ci accontenteremo delle riprese). Quando scatterà l’indipendenza, i palazzi principali di Londra si coloreranno di rosso, blu e bianco, come simbolo della sovranità ritrovata. Nelle stesse ore saranno messe in circolazione le monete da 50 pence coniate apposta per la Brexit: sono circa tre milioni, portano la scritta “Peace, prosperity and friendship with all nations” e la data del 31 gennaio 2020 e hanno fatto ribollire il sangue di molti remainers che si sono sfogati sui social. Nigel Farage, che ieri ha parlato all’Europarlamento, che ha riempito molti scatoloni perché lavora a Bruxelles da decenni e che è anche sugli schermi come protagonista di un documentario su Channel 4, organizza una festa “di popolo” a Parliament Square: è la vittoria del popolo sull’establishment, ha detto Farage, sottolineando di essere fiero di celebrare questo momento storico sotto gli occhi di Churchill (c’è la statua dell’ex primo ministro) e specificando che si ballerà e si canterà, perché questa non è una festa politica, è una festa per i gioiosi. Mark Francois dice: “Resterò sveglio tutta la notte e vedrò sorgere l’alba su un paese finalmente libero. Dormirò il giorno dopo”. Gli organizzatori sono preoccupati soltanto di una cosa: è un’area, quella di Parliament Square, in cui non si potrebbero portare alcolici. Alla festa organizzata alla Margaret Thatcher House invece saranno banditi vini europei, si beve britannico (per fortuna l’aspirina inglese non ha rivali al mondo per curare l’hangover). Al municipio, a partire dal pomeriggio tardo, il sindaco di Londra, Sadiq Khan, organizza un evento aperto a tutti in cui si esprime “solidarietà agli amici, colleghi e vicini di casa europei”, ci sono tavolini in cui si ricevono informazioni gratis sui visti da avvocati specializzati in immigrazione ed è previsto, per chi ne sentisse il bisogno, “un sostegno emotivo”. Le bandiere europee verranno fatte calare senza troppe fanfare: la leader scozzese Nicola Sturgeon ha detto che quella sul suo palazzo resterà, nella notte della Brexit e per sempre. Mark Francois è convinto che le divisioni di oggi si ricomporranno: “Ci sarà una grande riconciliazione e queste vecchie categorie resteranno un vago ricordo. Tutti si devono sentire benvenuti nel nostro paese. Ho una madre italiana e un padre di origini francesi e continuerò ad accogliere i cittadini europei a braccia aperte”.

 

L’amico americano (vatti a fidare). Ieri è arrivato a Londra il segretario di stato, Mike Pompeo, che incontrerà oggi Johnson. L’America trumpiana è sempre stata molto rassicurante e incoraggiante sulla Brexit, e il premier è atteso per la fine di febbraio alla Casa Bianca. Ma proprio in questi giorni Londra ha dato un dispiacere alla Casa Bianca: ha aperto le porte, pur con delle limitazioni, alla compagnia cinese Huawei per il 5G, quando Donald Trump è sempre stato molto esplicito nel richiedere ai suoi alleati di non far affari con i cinesi per ragioni di sicurezza. Il presidente è troppo impegnato a tuittare sull’impeachment quindi non ha avuto modo di redarguire l’amico Johnson, ma ci ha pensato un senatore, Tom Cotton, repubblicano dell’Arkansas che siede nella commissione Forze armate, a sintetizzare il clima: appena si liberano degli europei, ha scritto su Twitter Cotton, questi inglesi si vendono ai cinesi. La scommessa della Brexit si fonda molto sulla special relationship con l’America: l’accordo di libero scambio Regno Unito-Stati Uniti è sempre stato sventolato come l’alternativa più promettente per Londra una volta abbandonato il mercato unico. Ma gli americani stanno già ponendo molte condizioni, chiedono soprattutto molte dimostrazioni di lealtà. Non ci saranno “passaggi gratis” soltanto perché Johnson e Trump pensano di avere una relazione speciale, dice Sam Lowe del Center for European Reform. Le relazioni future, anche con l’America, sono tutte da costruire, ma in questi giorni di saluti, di scatoloni, di lacrime e di canti, in questi giorni in cui il divorzio diventa vita quotidiana e la casa è vuota, mentre Londra sogna chissà che futuro appassionato con Trump, la decisione inglese su Huawei è sembrata quasi una carezza: una scelta europeissima, allora forse non tutto è finito.

 

(con la collaborazione di David Carretta e Gregorio Sorgi)

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