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Weinstein alla sbarra. I media, la giustizia, l’ora del #metoo

Simonetta Sciandivasci

Il primo processo degli anni Venti è quello del “porco” già condannato

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Roma. E’ iniziato ieri a New York il processo penale contro Harvey Weinstein, l’uomo che ha incarnato, nel mondo dello spettacolo, un sistema predatorio esautorato ma ancora da scardinare, per combattere il quale – il sistema e anche l’uomo – si sono ricompattati i nuovi femminismi: il nemico da distruggere per lasciare che finalmente vengano un tempo nuovo e un potere migliore. Senza Weinstein, non ci sarebbe stato il #metoo, il movimento più influente del decennio scorso, la prima vittoria di una militanza femminile globale, né ci sarebbe stata la ferma decisione di scindere il potere dal sesso, il cambiamento culturale più imponente e massimalista degli ultimi cinquant’anni. Con gli eccessi di ogni massimalismo, così evidenti già dalla copertura mediatica e fotografica ossessiva.

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Roma. E’ iniziato ieri a New York il processo penale contro Harvey Weinstein, l’uomo che ha incarnato, nel mondo dello spettacolo, un sistema predatorio esautorato ma ancora da scardinare, per combattere il quale – il sistema e anche l’uomo – si sono ricompattati i nuovi femminismi: il nemico da distruggere per lasciare che finalmente vengano un tempo nuovo e un potere migliore. Senza Weinstein, non ci sarebbe stato il #metoo, il movimento più influente del decennio scorso, la prima vittoria di una militanza femminile globale, né ci sarebbe stata la ferma decisione di scindere il potere dal sesso, il cambiamento culturale più imponente e massimalista degli ultimi cinquant’anni. Con gli eccessi di ogni massimalismo, così evidenti già dalla copertura mediatica e fotografica ossessiva.

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Sono due i capi di accusa contro l’ex produttore cinematografico: uno stupro risalente al 2013 e un rapporto orale forzato nel 2006. Il verdetto arriverà tra non meno di sei settimane e potrebbe essere assai diverso da quello che viene prospettato. Non è scontato che Weinstein paghi con una delle pene che rischia, e cioè l’ergastolo, né che i giudici assecondino la pressione che ha fatto di questo caso un processo mediatico sommario e inflessibile, dibattuto sui giornali e sui social network, e che, di mese in mese, ha condannato Weinstein all’esproprio volontario di sé e dei suoi mezzi (ha perso la moglie, gli amici, i colleghi, il lavoro, la casa di produzione, la credibilità, persino il ricordo dei fasti della sua carriera e del bene che si vanta di aver fatto – qualche settimana fa ha rilasciato un’intervista in cui si proclamava paladino dei diritti delle donne, e si lamentava di come il suo contributo alla valorizzazione dei ruoli femminili nel cinema sia stato rimosso e non abbia più alcuna speranza di venire, prima o poi, riconosciuto).

 

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Delle 87 donne che, nel 2017, accusarono HW di molestie, stupri, assoggettamenti psicologici, abusi di potere, e alle quali due inchieste di New Yorker e New York Times diedero voce, quasi nessuna presenzierà al processo. Alcune di loro hanno patteggiato (Weinstein ha rimborsato danni per una somma pari a 25 milioni di dollari), altre hanno preferito evitare “l’eccessiva pressione”; le accuse di altre ancora sono state prescritte. Fuori dal tribunale non appena si è aperta l’istruttoria, si è assiepato un corposo gruppo di “Silence Breakers”. Tra di loro c’era l’attrice Rose McGowan, una delle principali accusatrici di Weinstein e sodale, nella battaglia che lo ha smascherato, di Asia Argento. “Le sopravvissute non si arrendono”, ha detto McGowan, principiando un discorso assai più posato rispetto a quelli che ha tenuto nei mesi più caldi dello scandalo, quando se ne era intestata meriti, direzione, obiettivi, tutto. Nel maggio del 2018, quando HW si era volontariamente consegnato alla polizia, e già appariva malmesso, in declino, triste, completamente arreso, lei si era goduta lo spettacolo della diretta televisiva e si era piazzata una telecamera davanti alla faccia compiaciuta, ma con un appetito tutto ancora da soddisfare, e aveva detto che la giustizia era molto lontana da venire ma sì che sarebbe venuta, e l’aveva fatto con i toni, i modi, l’iconografia della vendetta. Lunedì c’era, in lei, qualcosa di diverso. Qualcosa di sommo. La consapevolezza di dover incarnare un ruolo nuovo, al quale forse non era preparata, e cioè quello di garante di un verdetto già deciso, che aspetta da anni la sua ufficializzazione, e anche la garante del trionfo di un’idea per la quale si è battuta: l’automatismo del credere sempre alle vittime. Asia Argento, dall’altra parte del mondo, s’è limitata a ricordare su Instragram l’inizio del processo, sottolineando la coincidenza esoterica: il 6 gennaio è l’ora di molte streghe – e infatti ha condiviso le foto di alcuni gruppi di donne riunite in preghiera stregonesca per far sì che “il mostro” venga condannato al massimo della pena, o comunque a una pena esemplare.

  

Vediamo quest’uomo enorme ma rimpicciolito, segnato, traballante, che entra in tribunale tenendosi a un tutore e pensiamo che finirà male, malissimo, e che la certificazione di un processo sommario che dura da 28 mesi è arrivata. Non riusciamo a provare compassione per lui, ma soltanto noi, che a causa sua erediteremo l’abitudine di trasformare l’accusa in una colpa. “Non mi viene in mente un altro caso in cui un imputato è stato processato con uno svantaggio maggiore in termini di percezione”, ha detto Mark Bederow al New York Times. La percezione potrebbe non vincere in aula, ma fuori, nella società non solo americana, ha vinto già, e mai si è stati più separati dalla giustizia, raramente la giustizia non è stata altro che un atto formale.

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