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L’America ristabilisce chi comanda in medio oriente

Daniele Ranieri

Un drone uccide il generale Suleimani, grande stratega della macelleria iraniana nella regione. Le rappresaglie non cominciano: continuano

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Roma. Nelle prime ore di venerdì l’Amministrazione Trump ha ristabilito l’ordine naturale dei rapporti di forza in medio oriente e ha ucciso con due missili sparati da un drone il generale iraniano Qassem Suleimani sulla strada appena fuori dall’aeroporto internazionale di Baghdad. Verranno a protestare e a dire che l’America ha dato uno scossone improvviso e brutale e imprevedibile alla situazione nella regione, ma per gli osservatori gli schemi soliti erano già saltati in aria da tempo e non c’era più un ordine da preservare. E non per nulla il Grande Ayatollah Khamenei chiamava il suo generale “il martire vivente”. A maggio Qassem Suleimani aveva autorizzato un attacco missilistico senza precedenti dall’Iraq contro le raffinerie dell’Arabia Saudita. Ad agosto di nuovo il generale Suleimani aveva ordinato un attacco con alcuni droni contro il territorio di Israele. Tra maggio e dicembre ci sono stati diciotto attacchi con razzi e mortai contro le basi americane in Iraq, tutti compiuti senza molto scandalo dalle milizie create e comandate da Suleimani – venerdì 27 uno di questi attacchi ha ucciso un americano e in altri casi sono stati uccisi soldati iracheni, ma il governo di Baghdad non ha mai protestato. L’obiettivo finale di questa campagna era sradicare le forze della Coalizione dall’Iraq. Otto giorni fa il generale iraniano – che nella capitale dell’Iraq poteva dare ordini come fosse un viceré – ha fatto nominare con discrezione un ufficiale iracheno a lui fedele come comandante della sicurezza della Zona verde, l’area sorvegliatissima della capitale che contiene tra le altre cose anche l’ambasciata americana. Il risultato si è visto il 31 dicembre, quando centinaia di miliziani sono arrivati come se nulla fosse nel cuore dell’area in teoria meno accessibile del paese, hanno assediato l’ambasciata americana con lanci di bottiglie molotov e hanno scritto sul muro di cinta: “Il mio leader è Qassem Suleimani”. E’ stato uno show di forza senza precedenti in Iraq. Non è dato sapere come Suleimani avrebbe gestito il controllo ottenuto sulla Zona di Baghdad che contiene i palazzi delle istituzioni e del potere, ma c’è la possibilità che si preparasse in anticipo a resistere con le cattive maniere a qualsiasi cambiamento chiesto dai giovani di piazza Tahrir accampati sull’altra riva del fiume Tigri dirimpetto alla Zona verde. Questo per ricordare che la morte di Suleimani è un fatto storico ma è anche un singolo episodio in una catena di episodi molto brutali: alcuni ottengono molta attenzione e spazio televisivo e altri no. Suleimani è il generale le cui milizie durante gli anni della guerra – tra il 2006 e il 2010 – uccisero centinaia di soldati americani con un nuovo tipo di trappola esplosiva a forma conica che perforava i blindati americani con un getto velocissimo di metallo fuso (EFP era la sigla degli ordigni, per chi vuole sapere di più). Le milizie di Suleimani in Iraq allora si vantavano di uccidere molti più americani dello Stato islamico, quindi dei fanatici di marca sunnita. Eppure venerdì notte il generale iraniano responsabile di quella guerriglia è atterrato all’aeroporto internazionale di Baghdad e a parte una piccola precauzione – il suo convoglio di veicoli è stato preceduto da altri due convogli-esca di veicoli vuoti – si preparava ancora una volta a passare in auto sotto il muro di cinta di una delle più grandi basi militari americane della regione, che è accanto alle piste dell’aeroporto, protetto soltanto dal manto illusorio della propria invincibilità. Suleimani però non era un ambasciatore svizzero, era un provocatore militare che negli ultimi dieci giorni ha sbagliato i calcoli e ha pagato il suo errore.

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Roma. Nelle prime ore di venerdì l’Amministrazione Trump ha ristabilito l’ordine naturale dei rapporti di forza in medio oriente e ha ucciso con due missili sparati da un drone il generale iraniano Qassem Suleimani sulla strada appena fuori dall’aeroporto internazionale di Baghdad. Verranno a protestare e a dire che l’America ha dato uno scossone improvviso e brutale e imprevedibile alla situazione nella regione, ma per gli osservatori gli schemi soliti erano già saltati in aria da tempo e non c’era più un ordine da preservare. E non per nulla il Grande Ayatollah Khamenei chiamava il suo generale “il martire vivente”. A maggio Qassem Suleimani aveva autorizzato un attacco missilistico senza precedenti dall’Iraq contro le raffinerie dell’Arabia Saudita. Ad agosto di nuovo il generale Suleimani aveva ordinato un attacco con alcuni droni contro il territorio di Israele. Tra maggio e dicembre ci sono stati diciotto attacchi con razzi e mortai contro le basi americane in Iraq, tutti compiuti senza molto scandalo dalle milizie create e comandate da Suleimani – venerdì 27 uno di questi attacchi ha ucciso un americano e in altri casi sono stati uccisi soldati iracheni, ma il governo di Baghdad non ha mai protestato. L’obiettivo finale di questa campagna era sradicare le forze della Coalizione dall’Iraq. Otto giorni fa il generale iraniano – che nella capitale dell’Iraq poteva dare ordini come fosse un viceré – ha fatto nominare con discrezione un ufficiale iracheno a lui fedele come comandante della sicurezza della Zona verde, l’area sorvegliatissima della capitale che contiene tra le altre cose anche l’ambasciata americana. Il risultato si è visto il 31 dicembre, quando centinaia di miliziani sono arrivati come se nulla fosse nel cuore dell’area in teoria meno accessibile del paese, hanno assediato l’ambasciata americana con lanci di bottiglie molotov e hanno scritto sul muro di cinta: “Il mio leader è Qassem Suleimani”. E’ stato uno show di forza senza precedenti in Iraq. Non è dato sapere come Suleimani avrebbe gestito il controllo ottenuto sulla Zona di Baghdad che contiene i palazzi delle istituzioni e del potere, ma c’è la possibilità che si preparasse in anticipo a resistere con le cattive maniere a qualsiasi cambiamento chiesto dai giovani di piazza Tahrir accampati sull’altra riva del fiume Tigri dirimpetto alla Zona verde. Questo per ricordare che la morte di Suleimani è un fatto storico ma è anche un singolo episodio in una catena di episodi molto brutali: alcuni ottengono molta attenzione e spazio televisivo e altri no. Suleimani è il generale le cui milizie durante gli anni della guerra – tra il 2006 e il 2010 – uccisero centinaia di soldati americani con un nuovo tipo di trappola esplosiva a forma conica che perforava i blindati americani con un getto velocissimo di metallo fuso (EFP era la sigla degli ordigni, per chi vuole sapere di più). Le milizie di Suleimani in Iraq allora si vantavano di uccidere molti più americani dello Stato islamico, quindi dei fanatici di marca sunnita. Eppure venerdì notte il generale iraniano responsabile di quella guerriglia è atterrato all’aeroporto internazionale di Baghdad e a parte una piccola precauzione – il suo convoglio di veicoli è stato preceduto da altri due convogli-esca di veicoli vuoti – si preparava ancora una volta a passare in auto sotto il muro di cinta di una delle più grandi basi militari americane della regione, che è accanto alle piste dell’aeroporto, protetto soltanto dal manto illusorio della propria invincibilità. Suleimani però non era un ambasciatore svizzero, era un provocatore militare che negli ultimi dieci giorni ha sbagliato i calcoli e ha pagato il suo errore.

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Quando la notizia della morte del generale è arrivata a piazza Tahrir in molti si sono messi a ballare. Suleimani era un macellaio e dirigeva le operazioni più aggressive dell’Iran nel settore mediorientale. Tra queste la più recente è il massacro in meno di due mesi di cinquecento manifestanti iracheni – che protestavano in modo pacifico per avere un governo meno corrotto e meno compromesso con l’Iran. Uno dei leader della protesta dice al Foglio però che quei balli notturni sono stati uno sbaglio, “dobbiamo tenere l’equidistanza ed essere neutrali e sostenere la sovranità dell’Iraq altrimenti ci accuseranno di essere nemici”. Eppure, gli chiediamo, il generale iraniano comandava le milizie di Kataib Hezbollah che hanno ucciso così tanti di voi. “E se non fermiamo questa spirale ne ammazzeranno molti di più”.

 

 

Verranno a dire che Suleimani ha combattuto contro lo Stato islamico, ma è propaganda nauseante. Come si è detto le sue milizie da maggio a oggi hanno fatto non meno di tre attacchi al mese – con razzi e colpi di mortaio – contro le basi della stessa Coalizione a guida americana che in Iraq continua la lotta allo Stato islamico (ricordiamo tutti i cinque militari italiani feriti a novembre) e questi attacchi hanno ucciso anche soldati iracheni. Le milizie di Suleimani hanno come obiettivo la cacciata degli Stati Uniti dall’Iraq – quindi la cacciata della presenza militare più pericolosa per lo Stato islamico (non risulta che Abu Bakr al Baghdadi sia stato trovato e ucciso da Suleimani). E durante la guerra le sue milizie di fanatici non erano così efficaci: e infatti erano perlopiù tenute fuori dalle città per timore che si lasciassero andare a crimini di guerra contro i civili. Il grosso dei combattimenti cadeva sulle spalle di altre unità, come per esempio i reparti antiterrorismo che infatti si detestano con le milizie. A sradicare lo Stato islamico dalle sue capitali con battaglie urbane molto complicate che sono durate mesi – Mosul in Iraq, Raqqa in Siria e Sirte in Libia – è stato il tandem aerei-americani-più-forze-locali. Altrimenti si fa la figura di quei miliziani che durante la liberazione di Tikrit nel 2015 davanti all’inviato del Foglio accusavano l’America di rifornire con lanci di munizioni lo Stato islamico nell’Iraq occidentale. “Ma gli aerei americani stanno bombardando le postazioni dello Stato islamico a mezzo chilometro da qui, lo stiamo vedendo e sentendo in questo stesso momento!”. Non c’era nulla da fare. 

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Se pensi che Suleimani sia un salvatore e l’America il diavolo, non cambi idea per così poco – i miliziani però sono fanatici, non si occupano d’informazione. C’è quindi poco per cui essere grati al generale. Le milizie tenute in disparte contro lo Stato islamico sono però molto efficienti in altri settori, come per esempio il controllo, l’intimidazione e la repressione brutale del dissenso – anche in casa. Suleimani era un leader dei Guardiani della rivoluzione islamica, che meno di un mese fa hanno ucciso millecinquecento civili che protestavano nelle piazze prima contro l’aumento del prezzo della benzina e poi contro il regime – secondo fonti stesse del regime che hanno ammesso l’entità della strage con Reuters. E’ un altro fatto trascurato da chi oggi parla di terremoto in medio oriente.

 

Trump era il presidente che faceva sentire più tranquilli gli iraniani. A giugno bloccò un raid aereo americano contro l’Iran mentre ormai i jet militari erano in volo (si trattava di una rappresaglia per l’abbattimento di un velivolo spia) perché coltivava l’ambizione di un incontro storico con i vertici dell’Iran, qualcosa che avrebbe una volta per tutte dimostrato la sua superiorità diplomatica sul predecessore Barack Obama. Trump ha anche minimizzato sempre con questo scopo in testa gli attacchi alle petroliere di passaggio nello Stretto di Hormuz avvenuti a maggio – eppure il regime iraniano è il primo sospettato. Lo schema era chiaro. Trump era il presidente isolazionista che voleva ritirare tutti i soldati americani impegnati all’estero, dalla Siria, dall’Afghanistan, da ovunque, e passare alla storia per incontri diplomatici senza precedenti – vedi Corea del nord. Avrebbe fatto pressione sull’Iran con misure economiche, ma non con la forza militare perché l’ultima cosa che voleva era essere invischiato in un conflitto complicato nel Golfo. E invece il calcolo non ha funzionato, Trump torna in medio oriente con un’operazione di rottura che i suoi predecessori Obama e Bush non avevano fatto per non causare troppe ripercussioni e da cui pure Israele – che pure elimina i luogotenenti di Suleimani uno via l’altro con operazioni simili – si era astenuto dietro richiesta americana. L’Amministrazione Trump invia tremilacinquecento uomini nell’area per tenere meglio sott’occhio la tensione, ma ne aveva già mandati quattordicimila nei mesi scorsi – e questa settimana ha spostato in zona molti mezzi e molti soldati, quattro grandi aerei C-130 Combat Talon in Giordania, insomma ci si doveva attendere qualche novità molto importante. Per l’America ritirarsi d’improvviso dal mondo non è possibile, dalla Siria i soldati americani alla fine non se ne sono andati, ora in Iraq sono in stato di guerra. E sarà meglio non menzionare in questo quadro di ritiri impossibili l’Afghanistan.

 

Il regime iraniano si trova di fronte a un dilemma, come reagire a questo smacco. Se non fa nulla perde il carisma e la credibilità con tutte le forze irregolari che controlla in giro per la regione, e però non è in grado di reggere l’urto di uno scontro convenzionale. Si affiderà a una sequenza di interventi micidiali in giro per il medio oriente e affidati ai suoi partner locali. Che è quello che fa da anni tutti i giorni, senza monopolizzare l’attenzione del mondo come è successo venerdì con il raid americano a Baghdad.

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