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Il destino dell’impeachment

Paola Peduzzi

Un esperimento mostra quanto e come funziona il format trumpiano

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Roma. Una spilla non è mai solo una spilla, diceva Madeleine Albright, e quella di Nancy Pelosi – la mazza che rappresenta l’autorità del Congresso dal 1789 – nel giorno lugubre in cui la Camera americana ha autorizzato la terza procedura di impeachment della storia, brillava molto, o almeno così sembrava a noi che andiamo a caccia di guardiani dell’ordine istituzionale.

  


 

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Nancy Pelosi con appuntata la spilla che rappresenta l’autorità del Congresso dal 1789 (foto LaPresse)


  

La Pelosi incarna l’evoluzione dell’impeachment a Donald Trump, lei che fino a settembre non voleva nemmeno sentir parlare di questa opzione e che poi, quando è scoppiato lo scandalo ucraino, ha deciso che non c’era scelta, che l’impeachment era necessario, “altrimenti saremmo dei derelitti”, ha ribadito mercoledì la Speaker della Camera aprendo il dibattito che ha portato alla messa in stato d’accusa del presidente. Sulle spalle della Pelosi resterà anche il fallimento di questa azione, il pentimento forse, non soltanto perché l’impeachment è destinato a morire al Senato (questo lo si sapeva fin dall’inizio) ma perché non ha preso forma l’essenza stessa dell’impeachment, che è lo svelamento dei fatti, la presa di coscienza della natura di un presidente e poi l’eventuale condanna.

 

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L’impeachment non è una sentenza, è un procedimento di consapevolezza: durante il processo a Bill Clinton non scoprimmo i dettagli dei suoi rapporti con Monica Lewinsky ma soprattutto la sua natura e quella della sua leadership, le debolezze, le ombre. Questa volta, lo svelamento è stato interrotto perché si è ripetuto lo stesso meccanismo che abbiamo già visto all’opera nelle elezioni del 2016, propaganda, polarizzazione, mistificazioni, io contro di te, e ci odieremo per sempre. 

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I segnali c’erano fin dall’inizio, bastava sintonizzarsi sui media vicini a Trump per capire che l’opinione di quel pubblico – il più grande relativamente alle altre emittenti – non sarebbe mai cambiata e anzi, se possibile, sarebbe diventata ancora più trumpiana. Bastava anche guardare i flussi di denari, che difficilmente sbagliano e che andavano verso i repubblicani. E non perché i fatti dell’impeachment erano deboli, ma perché non sono stati svelati: il Daily Show è andato a sentire gli elettori trumpiani chiedendo loro se avessero letto le trascrizioni delle telefonate, visto che il loro presidente ripeteva ossessivamente “read the transcript”. La risposta media è stata: no, non le ho lette, non ce n’è bisogno, Trump ha ragione e non ha fatto niente. Alcuni esperti hanno inaugurato il filone dello “split screen”, lo schermo diviso: da una parte la copertura dell’impeachment dei media tradizionali dall’altra la versione trumpiana. Due mondi diversi, lontani, inconciliabili.

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Il sito Axios ha fatto un esperimento definitivo: ha seguito il voto dalla Camera e dal comizio “Merry Christmas” di Trump a Battle Creek, in Michigan. Nel palazzo, molti deputati hanno votato a mano e non elettronicamente sventolando le loro carte rosse e verdi per farsi vedere; quando il primo capo di imputazione è stato approvato, alcuni repubblicani hanno urlato “altri quattro anni!”; quando è stato approvato il secondo, i repubblicani se n’erano già andati, e i democratici non festeggiavano. A Battle Creek, Trump stava parlando quando è arrivato l’esito della votazione, si è messo a leggere il conteggio dei voti “come se fosse un sondaggio”, scrive Axios, e poi ha festeggiato, mentre la folla applaudiva, dicendo che l’impeachment è un fenomeno straordinario perché ha “tenuto insieme” tutti i repubblicani.

Il processo ora è tutto alla rovescia: i democratici devono giustificare l’impeachment, Trump lo usa per rafforzare la propria base. Lo svelamento non c’è stato, non ce n’è stato il modo, e questo è un assaggio della campagna elettorale del 2020.

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