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La Tunisia non è un porto sicuro (con buona pace dei sovranisti)

Luca Gambardella

La nave Maridive 601 è al largo di Zarzis e attende di ricevere l’autorizzazione all’attracco. Ma nel paese c’è un problema notevole: manca una legge che permetta a chiunque di presentare una richiesta di protezione umanitaria

C’è un paese nel Mediterraneo dove i sovranisti spedirebbero di corsa tutti i migranti che tentano di raggiungere le nostre coste. E siccome nell’Italia gialloverde regna incontrastata l’idea che la soluzione più semplice sia anche la migliore, ecco che molti commenti sparsi sul web in prossimità di ogni sbarco sembrano ripetere quasi sempre lo stesso refrain: “Ma non possono andare in Tunisia?”. “Lì vicino c’è Djerba dove si va in vacanza, perché non li portano là invece di affibbiarli a noi”. Di solito questi commenti si leggono durante le ore concitate in cui una nave ong raccoglie qualche naufrago al largo della Libia. Ma nel marasma delle dichiarazioni spot ci si dimentica cosa si intenda davvero per “porto sicuro”, cioè quel luogo in cui, per il diritto internazionale, deve concludersi ogni operazione di salvataggio in mare. Ma soprattutto, pare che questo processo di rivalutazione della Tunisia da parte di molti italiani non tenga conto di alcuni fatti.

   

Iniziamo dalla cronaca recente. Da 18 giorni c’è una nave al largo della Tunisia che attende di ricevere l’autorizzazione all’attracco. A bordo ci sono 75 migranti, tra cui 30 minori, salvati lo scorso 31 maggio a qualche miglia dalla Libia da un rimorchiatore egiziano, il Maridive 601. Una volta recuperati i naufraghi, la nave egiziana ha fatto rotta verso Zarzis, una di quelle cittadine tunisine famosa per i resort e i luoghi di villeggiatura. Solo che a Zarzis, come in tutto il resto del paese (Djerba inclusa), c’è un problema notevole: manca una legge che permetta a chiunque di presentare una richiesta di protezione umanitaria. Questo significa che i richiedenti asilo a bordo della nave rischiano con ogni probabilità di essere respinti, in aperta violazione delle convenzioni internazionali. Non solo: il governo di Tunisi semplicemente non vuole accogliere i migranti che partono dalla Libia. “Questi migranti vogliono andare in Europa”, ha detto alla stampa tunisina una fonte anonima. E così, senza il clamore dei presunti porti chiusi italiani, in Tunisia hanno deciso di chiuderli davvero. Prima ancora di farli sbarcare, il governo sta cercando l’intesa con i paesi di origine (Bangladesh, in particolare) per poterli rimpatriare. Ma fino ad allora i 75 migranti saranno costretti a restare in mare.

  

Il caso della Maridive 601 – drammatico, visto il numero elevato di persone a bordo, in condizioni igieniche disperate dopo un tempo così lungo trascorso a bordo – non è una novità. Nel luglio 2018 era successo qualcosa di analogo alla Sarost 5, una nave di supporto alle piattaforme del Mediterraneo centrale, che per due settimane fu costretta al largo di Zarzis dopo avere raccolto altri 40 migranti prima di ricevere l’autorizzazione allo sbarco. Quella che fu considerata una delle grandi vergogne europee è diventata da allora un caso scuola. A prescindere dalla mancanza di tutele giuridiche per i migranti, le navi delle ong da quel momento non hanno più provato a fare rotta verso la Tunisia per evitare altre attese estenuanti. Per questo, secondo molte organizzazioni non governative, la Tunisia non può essere considerata un porto sicuro. “Il caso della Sarost 5 ha dimostrato l’erosione delle responsabilità sar (search and rescue, ndr) nel Mediterraneo”, spiega la piattaforma AlarmPhone. Secondo le ong, esternalizzare i salvataggi delegandoli a Libia o Tunisia significa violare le norme internazionali.

   

Ma nel frattempo, il governo italiano sembra abbastanza impegnato in una lenta opera di ricucitura dei rapporti con la Tunisia, che ora è tornata a essere partner essenziale per il nostro paese sia per la politica migratoria sia per l’economia. E dire che fino a un anno fa, all’indomani dell’insediamento del governo gialloverde, le relazioni tra Roma e Tunisi erano ai minimi termini. Il governo del paese nordafricano era arrivato al punto di richiamare il proprio ambasciatore dopo le dichiarazioni di Matteo Salvini sull’immigrazione (“Tunisi spesso e volentieri esporta galeotti”) e sui rimpatri che andavano troppo a rilento (“Bisogna cambiare gli accordi che altri ci hanno lasciato e che non sono assolutamente soddisfacenti”). Poi fu la volta della bufala delle esportazioni senza dazi dell’olio d’oliva tunisino in Europa. Così, dopo il ministro dell’Interno anche il Movimento 5 stelle aveva attaccato la Tunisia: “Errare è umano, perseverare è diabolico. In Italia il settore è già in ginocchio, dobbiamo evitare una umiliazione del Made in Italy”, aveva dichiarato l’europarlamentare del M5s, Ignazio Corrao a proposito di una presunta invasione dell’olio tunisino sulle nostre tavole dopo un accordo siglato con l’Ue. Se non fosse che l’olio importato effettivamente in Italia da Tunisi non raggiungeva nemmeno le 3 mila tonnellate e che il suo impatto sul mercato dell’Ue era stato minimo. Ora, superata la fase delle bufale da propaganda, il M5s è passato al corteggiamento da governo. E così la Tunisia è tornata a essere “un partner strategico per l'Italia sia dal punto di vista economico che politico”, come ha detto Marinella Pacifico, senatrice 5 stelle fresca di viaggio istituzionale nel paese nordafricano. “L’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia, con 6 miliardi di euro di interscambio commerciale e 900 aziende italiane operanti nel paese, e un alleato fondamentale per la stabilità del Mediterraneo soprattutto nel contrasto al terrorismo e al traffico di esseri umani”, ammette ora Pacifico. E’ bastato poco, e da paese esportatore di terroristi la Tunisia è tornata a essere uno dei nostri migliori alleati. Passando da uno slogan a un altro.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.