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Trump e l'Iran non vogliono la guerra, ma è stata una brutta settimana

Daniele Raineri

Dietro al picco di tensione ci sono toni meno aggressivi del previsto. Il presidente americano dice di essere disponibile a dialogare con l’Iran “quando vogliono”, che è una boutade non una minaccia

Roma. Questa settimana si è parlato molto di un picco di tensione tra l’Amministrazione Trump e l’Iran. Nella serata di venerdì scorso (ma si è saputo soltanto lunedì, fonte Wall Street Journal) un rapporto dell’intelligence americana aveva segnalato che c’era una minaccia reale da parte dell’Iran contro le forze americane in Iraq, in Siria e nelle acque del Golfo vicino alle coste dello Yemen. Il comandante americano nella regione ha chiesto rinforzi e l’Amministrazione ha deciso di inviare una portaerei con alcuni bombardieri, perché facessero da deterrente con la loro presenza. La mossa è stata annunciata con un messaggio pubblico dal consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, che è considerato sostenitore di una linea molto aggressiva con l’Iran e per questo la notizia ha attirato ancora di più l’attenzione. Martedì il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha cancellato una visita in Germania ed è volato a Baghdad per parlare con gli iracheni della possibile minaccia in un incontro non previsto. A quanto si è capito gli americani hanno osservato spostamenti di materiale militare, hanno intercettato comunicazioni e hanno concluso che gli iraniani avevano deciso di alzare il livello del confronto nella regione. In particolare, gli americani temevano che milizie locali filoiraniane (nel senso che da anni sono organizzate, finanziate e armate dal governo iraniano) potessero attaccare personale americano soprattutto in Iraq (dove ci sono cinquemila soldati) oppure in Siria (duemila) oppure ancora che potessero usare dei droni per attaccare le navi nel Golfo.

    

C’è sempre un confronto latente tra americani e iraniani in medio oriente, negli anni della guerra in Iraq le milizie locali uccisero centinaia di soldati americani (“Sono più pericolose di al Qaida”, disse allora Ray Odierno,il generale che comandava gli americani) e molto spesso unità navali iraniane tallonano in modo ostile le navi americane nel Golfo, ma di recente gli episodi rischiosi si erano ridotti di molto e la situazione era diventata tranquilla.

   

Mercoledì il presidente iraniano, Hassan Rohani, ha annunciato con un discorso in tv che anche l’Iran abbandona il patto nucleare del 2015 da cui l’Amministrazione Trump si è ritirata un anno fa se non ci saranno nuovi negoziati entro sessanta giorni. In molti credevano che il suo discorso sarebbe stato più minaccioso, ma il tono è stato meno aggressivo del previsto. In Iran al governo prevale la fazione attendista, si aspetta il 2020 nella speranza che il presidente Trump sia rimpiazzato da un presidente che abbia voglia di negoziare di più e assieme ai governi europei. Gli iraniani avevano minacciato di chiudere lo Stretto di Hormuz se gli americani avessero azzerato le loro esportazioni di greggio, ma è proprio quello che è successo e la minaccia è stata dimenticata. “Se l’Iran cominciasse una guerra con l’America ora sarebbe una mossa suicida, la loro economia è in caduta libera”, dice alla Cnn l’ex direttore della Cia David Petraeus che conosce bene la zona. Ma in Iran c’è una fazione molto meno attendista che sostiene che non è possibile aspettare fino al 2020 senza fare nulla e che è molto consapevole del fatto che nella regione ci sono forze americane e che sono esposte. I punti di contatto ravvicinato sono molti. A febbraio uscirono le foto di una pattuglia di soldati americani in una strada di Mosul che passava attraverso un checkpoint di una milizia sciita filoiraniana. Un columnist del Washington Post bene informato, David Ignatius, scrive che in settimana gli elicotteri americani hanno sparato alcuni flare vicino Tikrit – sono ordigni non letali che producono una vampata e ingannano eventuali missili a ricerca di calore – che hanno incendiato un campo vicino a una postazione delle milizie e quelle hanno pensato a un attacco. Sono quelle circostanze imprevedibili in cui è possibile che non succeda nulla ma anche che ci sia una escalation improvvisa. In Siria e nel Golfo ci sono situazioni molto simili. Se le Guardie della rivoluzione iraniane che un mese fa sono state messe dall’Amministrazione Trump nella lista dei gruppi terroristici internazionali volessero mandare un messaggio duro nella forma di un’aggressione o di un gesto aggressivo, hanno molte opzioni (a ottobre tre colpi di mortaio sono arrivati dal nulla contro l’ambasciata americana a Baghdad). Anche nell’Amministrazione c’è una fazione falca che spinge per una linea dura, ma c’è sempre da ricordare che il presidente Trump detesta ogni intervento all’estero.

   

Gli americani hanno annunciato nuove possibili sanzioni contro l’Iran entro novanta giorni, questa volta contro il settore della lavorazione dei metalli, sarebbe un disastro per l’industria locale e giovedì il presidente ha detto di essere disponibile a cominciare un dialogo con l’Iran “quando vogliono”, che è una boutade ma non è una minaccia. Venerdì le Guardie rivoluzionarie, che talvolta si comportano come uno stato parallelo, hanno respinto l’offerta.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)