Una colonna di veicoli militari americani nel nord della Siria (LaPresse)

Trump, resta in Siria!

Daniele Raineri

Il presidente americano vuole regalare la vittoria allo Stato islamico a guerra quasi vinta. Non impariamo mai nulla

Questa pagina intende spiegare perché sarebbe bene che i duemila soldati degli Stati Uniti si fermassero altri due anni nella Siria orientale per terminare assieme alle milizie curdo-arabe la guerra contro lo Stato islamico, il gruppo terroristico più pericoloso del mondo. A dicembre il presidente americano Donald Trump ha annunciato il ritiro di quel contingente militare senza avvertire gli alleati della coalizione antiterrorismo, con una decisione che molti considerano impulsiva e che ha causato le dimissioni immediate del capo del Pentagono e molte critiche dal suo stesso partito. Sarebbe meglio che ci ripensasse e tenesse i soldati in Siria fino alla scadenza del suo mandato nel gennaio 2021. Il perché sta in un rapporto del Pentagono che esce la settimana prossima e dice che se non si applica pressione allora lo Stato islamico nel giro di sei mesi comincerà di nuovo a tentare di conquistare territori in Siria. Vediamo meglio la questione.

Immaginate una squadra di calcio che a venti minuti dalla fine è in vantaggio per tre a zero e però decide di abbandonare il campo

Immaginate una squadra di calcio che passa tutte le partite della Coppa del mondo e arriva alla finale. Immaginate quella squadra di calcio che a venti minuti dalla fine è in vantaggio per tre a zero e però decide di abbandonare il campo invece che giocare gli ultimi venti minuti. Ha vinto ogni scontro diretto perché è la squadra più forte, ma abbandona la partita e quindi alla fine ad alzare la Coppa sono gli avversari. In Siria sta succedendo la stessa cosa. La coalizione anti Stato islamico guidata dall’America e le milizie curdo-arabe in meno di quattro anni hanno distrutto il Califfato come entità territoriale che governava un territorio grande come il Regno Unito ed era popolato da otto milioni di persone, hanno ripreso una per una le città che erano cadute sotto il controllo dei fanatici e hanno liberato villaggio per villaggio il corridoio che parte dal confine turco e arriva fino a quello dell’Iraq e che storicamente è il luogo dove i combattenti di Abu Bakr al Baghdadi sono sempre stati più forti. Hanno anche sottratto agli estremisti infrastrutture strategiche, fra cui impianti per l’estrazione del gas e pozzi di petrolio – che garantivano profitti enormi – dighe, ponti e arterie di collegamento. Soprattutto hanno tolto ai fanatici la loro ragione esistenziale, che è quella come dice il nome stesso di avere uno Stato islamico che attrae volontari musulmani da tutto il resto del mondo per espandersi, espandersi e espandersi ancora. Era l’esistenza fisica del Califfato a fare da ispirazione e magnete per le migliaia di combattenti stranieri con famiglie al seguito che in poco tempo si sono spostati in Iraq e in Siria da tutti continenti – e molti dalle capitali europee. Era l’immagine vincente proiettata dallo Stato islamico ad affascinare gli adolescenti tunisini, sauditi e francesi.

I fanatici avevano bisogno di un pezzo di territorio su cui issare il vessillo nero per replicare le gesta dei primi seguaci del Profeta Maometto, che da un fazzoletto di deserto in Arabia Saudita riuscirono armi in pugno ad allargarsi dall’India alla Spagna e a sottomettere i loro avversari fino a creare un impero. Quel pezzo di territorio si è progressivamente ridotto e oggi in pratica non c’è più, salvo un paio di villaggi che in questi giorni sono assediati e stanno capitolando. Tutta quella atroce rievocazione storica – che i fanatici citano esplicitamente nei loro testi e che includeva la riconquista di Istanbul in Turchia e poi la conquista di Roma in Italia – è stata sventata dalla partnership militare tra curdi e americani. Curdi al suolo a combattere e americani in aria a offrire la loro superiorità tecnologica. Non c’è miglior antidoto a una ideologia perversa che vederla fallire. Non c’è opposizione più efficace ai sogni di potenza dei fanatici che spezzarli. Non c’era risposta migliore a un gruppo che teorizza e pratica la schiavitù sessuale che la devastazione militare portata anche da combattenti curde donne.

Ci sono ancora molte cellule dello Stato islamico da smascherare, dati di intelligence da raccogliere, fatti da ricostruire e scoprire

Mentre la vita nei paesi occidentali proseguiva con qualche trauma – vedi la sequenza di attentati nel 2015 e 2016 in Europa – i curdi hanno perso circa diecimila combattenti e gli aerei americani hanno compiuto più di trecentomila raid contro lo Stato islamico in Siria e in Iraq. Gli esperti in campo militare dicono che la collaborazione fra curdi e americani è una delle più efficaci della storia degli Stati Uniti. I curdi sono molto motivati a combattere contro gli islamisti, perché non soltanto sognano da generazioni di fondare uno stato curdo proprio dove è arrivato lo Stato islamico, ma sanno anche che ogni ipotesi di convivenza è impossibile, i fanatici combattono in nome di idee che sono l’opposto al programma politico dei curdi fatto di partecipazione politica popolare, educazione universale e liberazione della donne. In breve: nella tragedia epocale che è la guerra civile siriana dal 2011 in avanti, curdi e americani si sono trovati e hanno lanciato una campagna militare nell’interesse di tutti. A un certo punto gli americani si sono accorti che partecipare soltanto con gli aerei non bastava più e hanno mandato duemila soldati che potevano usare l’artiglieria, addestrare i curdi, proteggere gli agenti d’intelligence che interrogano i prigionieri dello Stato islamico, raccogliere informazioni e soprattutto tenere a bada con la loro presenza i nemici dei curdi, che potrebbero diventare aggressivi da un momento all’altro: la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan e la Siria del presidente Bashar el Assad. E’ stato un successo operativo. E quando gli anti-imperialisti si lamentano a vanvera della presenza americana in Siria, gli si può rispondere che i soldati di Trump sono là come partner dei combattenti comunisti curdi.

I risultati della campagna sono incredibili. Tra le altre cose i curdi hanno catturato migliaia di foreign fighter e ogni settimana c’è un caso interessante. Hanno preso i due che ancora mancavano dei cosiddetti Beatles, il gruppo di quattro inglesi che rapiva, torturava e infine uccideva ostaggi occidentali – giornalisti inclusi – e li hanno fatti intervistare davanti alle telecamere da alcuni giornalisti. Hanno preso Mohammed Haymar Zammar, che era il predicatore che molti anni fa aveva indottrinato in una moschea di Amburgo alcuni dirottatori dell’11 settembre e che poi si era unito allo Stato islamico in Siria e l’hanno fatto intervistare dal Washington Post. Hanno catturato e fatto confessare Abu Ridwan al Kanadi, un canadese che era la voce narrante di Flames of War 1 e 2, due video in inglese di un’ora ciascuno molto violenti e prodotti apposta per convincere i giovani occidentali a unirsi allo Stato islamico. Ora al Kanadi con un cerotto sulla fronte parla davanti a una telecamera con la stessa voce dei video e confessa nei dettagli quello che ha visto e ha fatto quando era un terrorista. Flames of War era stato girato con effetti speciali e colori sgargianti con l’idea di offrire alle potenziali reclute del terrorismo un’immagine cool del jihad, il filmato appena fatto uscire dai curdi invece è di un piattume depressivo tale che potrebbe dissuadere una generazione di invasati.

Ecco, interrompere di colpo questa partnership ora sarebbe controproducente. Ci sono ancora molte cellule dello Stato islamico da smascherare in Siria, c’è ancora tantissima intelligence da raccogliere, ci sono molti fatti e molti collegamenti da scoprire e da ricostruire, ci sono anni di atrocità da investigare, ci sono leader molto importanti ancora da catturare, ci sono depositi di armi nascosti e interrati da scoprire, c’è un’infestazione di fanatici rimasti senza terra che non è stata ancora così debellata come vorremmo, ci sono simpatizzanti in tutto il mondo che aspettano di vedere se questa dello Stato islamico è una crisi passeggera da cui potrà risorgere oppure se la sconfitta è stata definitiva e quindi non vale più la pena andare a combattere il jihad. In questi mesi le squadre dell’intelligence americana hanno potuto interrogare direttamente tutti i prigionieri che potevano avere in qualche modo informazioni su Abu Bakr al Baghdadi, il leader dello Stato islamico che da nove anni sfugge alla caccia di molti governi. Gli americani sono forti nell’analisi e nell’intercettazione delle comunicazioni, ma è chiaro che il contatto non mediato con uomini dello Stato islamico che combattevano fino a pochi giorni prima è una fonte di informazioni preziosa. Se i soldati americani abbandoneranno il campo e i curdi saranno costretti a sottomettersi subito alla Siria oppure alla Turchia, tutto questo lavoro non sarà più possibile. L’intelligence non sarà più raccolta in modo diretto, dovrà essere mendicata. Nel caso peggiore non ci sarà più raccolta di informazioni nemmeno in modo indiretto. Perché l’America vuole infliggersi questo smacco da sola non è chiaro.

Era l’esistenza fisica del Califfato a fare da ispirazione e magnete per le migliaia di combattenti stranieri

Dieci anni fa i soldati erano riusciti a stabilire un meccanismo di collaborazione quasi altrettanto efficiente con alcune milizie sunnite in Iraq. I miliziani avevano tutto il know how che mancava agli americani, sapevano individuare un terrorista straniero in pochi secondi dall’accento, conoscevano luoghi, famiglie e clan. Gli americani disponevano di tutto quello che le milizie non avevano, potenza di fuoco, denaro e superiorità tecnologica. Assieme, portarono quasi all’estinzione lo Stato islamico in Iraq e ridussero il numero di terroristi a un livello molto più basso di oggi. Le cifre in questo campo non sono mai chiare, ma possiamo dire che per ogni terrorista superstite nell’Iraq del 2010 oggi ce ne sono dieci ancora liberi.

La grande differenza con il successo di allora era che gli americani nella guerra in Iraq avevano sofferto molte perdite, cento uomini al mese nei periodi più duri, mentre in Siria le perdite dal 2015 sono state minime: otto morti, di cui due in incidenti stradali e quattro in un attentato mentre erano non al fronte ma dentro un ristorante che frequentavano con regolarità (un’imprudenza grave che spiega quanto si sentano sicure le truppe americane in Siria). Poi nel 2011 il presidente Barack Obama dette l’ordine di ritirare le truppe dall’Iraq, le milizie sunnite furono quasi subito abbandonate dal governo iracheno a maggioranza sciita – che le guardava con sospetto – non ricevettero più la paga, si sciolsero e i loro capi furono assassinati dallo Stato islamico che nel frattempo riguadagnava forza e appetito. La vendetta dei terroristi sui collaboratori degli americani continuò per anni, continua ancora adesso, e fu così efferata che c’è chi parlò di “guerra civile fra sunniti” in Iraq, ma di rado occupava più di un trafiletto sui giornali internazionali. Infine è arrivato tutto quello che sappiamo, il contagio in Siria, l’invasione nelle città, la creazione di uno stato totalitario islamista. Il rischio oggi è di dare di nuovo ai fanatici un’opportunità di ritorno come spiega il rapporto del Pentagono in uscita e dice che “senza la pressione necessaria” proveranno di nuovo a conquistare e tenere territorio nel giro di qualche mese. E anche se non tornassero abbastanza forti da controllare di nuovo grandi città come Mosul e Raqqa, sarebbero tuttavia in grado di combattere una insurgency a bassa intensità per anni e di ispirare oppure di organizzare attentati in occidente. Il ciclo va spezzato adesso, non ci sarà mai più un’occasione così buona. Certo, si potrebbe dire a siriani e turchi di pensarci loro. Come se avessero fatto un buon lavoro finora, vero?

I risultati della campagna curdo-americana in Siria sono incredibili. I curdi hanno catturato migliaia di foreign fighter

C’è chi dice che i soldati americani partono sempre per interventi all’estero che in teoria sono limitati nella durata, ma poi restano invischiati in operazioni a tempo indeterminato che si allungano per anni senza un traguardo chiaro. Può essere che sia proprio così. Minacce come quella rappresentata dallo Stato islamico non si liquidano con operazioni convenzionali, in Siria oppure in Afghanistan o altrove. Forse dovremmo abituarci a presenze militari all’estero che non sono più guerre, ma guarnigioni di confine, create per tenere sotto controllo i nemici prima che diventino troppo grandi ed esondino. Due mesi fa il governo dell’Iraq ha chiesto con discrezione all’Amministrazione Trump di lasciare i suoi soldati nel paese, perché servono nella lotta contro i terroristi. Quanto sono lontane oggi le proteste del 2003 contro l’invasione americana e gli slogan “no blood for oil”.

C’è pure una scuola di pensiero che sostiene che gli americani dovrebbero restare in Siria per ostacolare i piani di espansione dell’Iran, ma non è molto convincente. Il solo modo per cacciare gli iraniani dalla Siria – dove sono arrivati per combattere la guerra civile al fianco del presidente Assad – sarebbe cominciare scontri diretti con loro. Nessuno per ora vuole arrivare a tanto. Inoltre i soldati americani sono duemila e sparpagliati in una decina di aeroporti militari nella zona nord-orientale del paese, mentre gli iraniani spadroneggiano in tutto il resto della Siria, non possono fare nulla. Al massimo la presenza americana nella zona dei pozzi di petrolio impedisce agli iraniani e ai russi di prenderli e al governo siriano di riguadagnare la sua autonomia energetica e quindi questa è una buona carta negoziale a favore dei curdi. Prima di andarsene gli americani potrebbero negoziare condizioni migliori per le regioni curde con Assad, per garantire loro un minimo dell’autonomia che vorrebbero tanto e che era sempre stata loro negata.

Per ora questa pagina è tutta una lunga ipotesi perché la realtà è che il presidente americano ha ordinato il ritiro totale e ora entro un tempo variabile fra quattro e i sei mesi si aspetta di essere obbedito.

Di più su questi argomenti:
  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)