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E se la generazione Erasmus fosse tale anche senza fare l'Erasmus?

Alberto Alemanno*

Che ci piaccia o meno, l’Europa è una realtà immanente alla nostra quotidianità, e dunque del tutto indipendente dalla mobilità di ciascuno in quello spazio geografico e mentale offerto dal nostro continente

Al direttore, 

esiste una generazione Erasmus? I dati Eurostat citati nella bella inchiesta di Lorenzo Ferrari e Lorenzo Borga suggeriscono che tale generazione non esista “ancora”. A fondamento di ciò adducono che non soltanto il numero dei giovani che partono in Erasmus rimane esiguo (il 2 per cento degli studenti universitari beneficia di borsa Erasmus), ma anche che il numero dei giovani italiani “mobili” è modesto (nel 2017 l’87 per cento degli italiani under 35 non avrebbe trascorso neppure una notte all’estero).

Tuttavia, la loro analisi compie alcune scelte metodologiche discutibili e omette alcuni elementi chiave per cogliere appieno un fenomeno così sfuggevole come la mobilità intra-statuale in una Europa senza confini da perlomeno venticinque anni, esattamente il lasso di tempo che definisce una generazione come tale.

 

Innanzitutto, la fonte principale dell’europeizzazione generazionale è data dai connazionali che espatriano, non soltanto da quelli che restano. Ora, il numero degli italiani espatriati continua a crescere – come testimoniato dall’aumento esponenziale degli iscritti all’Aire. Tuttavia, questi sfuggono alle statistiche citate poiché, per definizione, questi cittadini non risiedono più in Italia e dunque non figurano quali cittadini italiani “mobili”. Ma v’è un’ulteriore considerazione metodologica da compiere. In virtù della libera circolazione e della porosità delle frontiere, ad oggi sono decine di migliaia i giovani italiani che vivono, studiano e lavorano all’estero ma che risultano ancora risiedere in Italia poiché non cancellati all’anagrafe. Ecco che la base di referenza selezionata è ancora una volta non affidabile. Mentre i residenti espatriati, per definizione “mobili”, diventano invisibili, alcuni giovani “mobili” figurano come “immobili”.

 

Cosa dire poi dei giovani europei che visitano, lavorano e studiano in Italia? Anch’essi sfuggono alle statistiche impiegate  dai giornalisti, nonostante siano una fonte significativa di europeizzazione indiretta e efficace. 

Vi è poi un falso mito da sfatare: i giovani italiani all’estero non sono tutti studenti universitari, ma anche lavoratori e disoccupati che cercano opportunità oltreconfine. Questa opportunità di cercare impiego altrove, che la si eserciti o meno (circa il 40 per cento dei disoccupati italiani si dichiara disposto a esercitarla), è una prerogativa che appartiene a una generazione nella sua interezza. Contrariamente a quanto si crede, ci sono più baristi che studenti Erasmus nelle capitali europee.

 

A fronte di ciò, i dati Eurostat estrapolati dagli autori – la cosiddetta baseline prescelta per verificare la presunta esistenza e consistenza della generazione Erasmus – non appaiono rendere giustizia a un fenomeno sociologico, tanto qualitativo quanto quantitativo, come la europeizzazione della nostra società, in particolare della generazione che, per ragioni anagrafiche, sta vivendo quella trasformazione. Il medesimo Eurostat suggerisce che è lo stile di vita dei giovani europei – che siano studenti o meno, che viaggino o meno – ad essere mutato profondamente. 

 

Insomma, quando ben il 75 per cento dei giovani italiani si dichiara europeo a fronte di un 2 per cento degli studenti universitari che partono in Erasmus, è evidente che l’identità generazionale prescinde dalle percentuali di mobilità giovanile in Europa.

Che ci piaccia o meno, l’Europa è una realtà immanente alla nostra quotidianità, e dunque del tutto indipendente dalla mobilità di ciascuno in quello spazio geografico e mentale offerto dal nostro continente.

E se la generazione Erasmus fosse tale anche senza fare l'Erasmus?

 

*Jean Monnet Professor of EU Law, HEC Paris | Global Professor of Law, NYU School of Law | Director, The Good Lobby

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